Autoritratto dell’artista con pollo
di Giovanni Blandino
“Il momento in cui parlo già è lontano da me”
Cara,
penso che qualcosa sia cambiato oggi. Aspettami, ti dico, perché a breve torno da te.
C’era il bel sole, questa mattina, come se la primavera fosse già arrivata. Io sono lì, nell’aia, a fare colazione (mi sono preparato uova e salmone) che cerco di godermi il calduccio di quei raggi dopo una notte piena di brutti pensieri.
All’improvviso mi raggiunge un venticello adorabile: viene dal mare e mi pare addirittura che ne porti qui il profumo. La cosa è appena percettibile, eppure mi mette straordinariamente di buon umore (mi sono immaginato infatti una barchetta con su qualcheduno diretto verso isole lontane). Sono convinto che sia stata proprio questa fragranza marina – non saprei se giudicarla esotica o, come dire, carica di certi ricordi – a suggerirmi l’idea di andare a dipingere in terrazza. Mi sentivo incredibilmente ispirato.
Tutto è successo qualche giorno fa, in realtà. Io non ho finito neanche la colazione e subito ho iniziato a organizzare il materiale. Avevo deciso di andare a dipingere in terrazza e ci sono voluti diversi viaggi per portare tutto lassù. Ti ho sempre raccontato di come è difficile: ci sono tutti quei gradini grigi, con quel marmo che non mi piace affatto, e poi bisogna percorrere la vecchia soffitta, piegati, così da non sbattere la testa. Ho iniziato con il trasferire i pennelli, i miei colori, le vernici, ma ho fatto tutto con allegria.
Una prima leggera preoccupazione, mi ricordo ora, si è insinuata in me quando pensai a come trasferire lo specchio. Forse non ti ho detto che da un po’ di tempo per dipingere uso un vecchio specchio trovato nella camera del bisnonno. È incassato in una cornice di legno e ha anche un supporto, sempre di legno. Insomma, lo specchio non pesava poco. Per portarlo su in terrazza sperimentai un metodo che definii stile alpino. Presi una corda dalla capanna (una delle capanne che circondano la casa e che sono piene di vecchi oggetti) e con quella mi legai lo specchio dietro la schiena (avevo visto qualcosa del genere in un documentario che raccontava le prime eroiche spedizioni himalayane). Iniziai così ad arrampicarmi su per quei brutti gradini, anche se già dopo qualche passo la mia fiducia nello stile alpino iniziò a vacillare. L’ultima rampa la feci tutto piegato in avanti (la schiena scricchiolava!) fino a poggiare le mani a terra. A carponi arrivai in terrazza e posizionai lo specchio. In quel momento vidi che la casa del vicino era in pieno fermento: tutta la famiglia lavorava per ammassare in un unico grande cumulo, in mezzo al campo, i rami secchi delle potature.
Come ultima cosa portai su la tela. Ovviamente si trattava di quel quadro con il pollo del vicino. Come si era fatto pesante! Fu in quel momento che mi chiesi per la prima volta se non stessi dedicando troppo tempo a quel lavoro. Notai infatti che le numerose pennellate, tutte più o meno sovrapposte, avevano inspessito la tela.
Per cominciare a dipingere (per farlo bene intendo), quella mattina, sarebbe mancato solo il pollo. Ma il pollo non mi arrischiai ad acchiapparlo. Ero infatti convinto, all’epoca, che il vicino nutrisse forti sospetti sul mio conto (cosa che fu di lì a poco confermata). Ormai da tempo – da quando avevo preso la decisione di inserire l’animale nella mia composizione – mi recavo di soppiatto nel suo pollaio. Non mi pareva di fare proprio niente di male. Era proprio un bel pollo, non troppo pasciuto, ma vispo. Io lo prendevo semplicemente in prestito per qualche ora, per dipingere dal vero, e poi lo riportavo al suo posto. Un giorno però trovai una sorta di serratura, seppur rudimentale, ad assicurare la porta del pollaio. Non ci volle molto ad aprirla, ma mi accorsi subito che non sarebbe stato possibile richiuderla e che dunque la mia incursione sarebbe stata scoperta. I giorni seguenti li avevo trascorsi nell’ansia e non avevo più avuto il coraggio di recarmi nel pollaio, addirittura smisi di dipingere per qualche tempo. Fu in quello stato che mi trovò il venticello adorabile, quella mattina, arrivando dal mare e offrendomi di nuovo un poco di speranza.
Avevo però ancora troppa paura a recarmi nel pollaio del vicino. Decisi quindi che il pollo era già praticamente concluso (dopo diversi ripensamenti, ero comunque riuscito a dar la forma che volevo al bel pennuto; come quello disegnato da un bambino) e mi apprestai a dipingere. Afferrai il pennello.
Mi pare di ricordare che inizialmente guardai a lungo la tela e decisi di cancellare di nuovo quella stupida frase che avevo piazzato lì in mezzo Persino un pollo cieco etc…. Ci passai più volte sopra, coprendola con un bel rosa antico proprio come quello di cui è dipinta questa casa. Ora dentro al quadro c’erano solo la tela, lo specchio, il pollo e l’artista. Mi sembrava esattamente tutto quello che doveva esserci, quella mattina. Poi iniziai a lavorare alla mia figura.
Passarono penso poche ore e io non avevo fatto grandi passi avanti. Dopo aver aggiustato qualche dettaglio del vestito avevo deciso di dare un ritocco allo sguardo (volevo che risultasse almeno speranzoso) ma poco ci riuscivo. Alzai lo sguardo dalla tela. L’aria era trasparente e dalla terrazza si vedevano chiaramente tutti quei colli che, diritti, circondano la casa. Sulla loro punta arrotondata si poteva distinguere ogni edificio e di ogni edificio mi pareva quasi di vederne attorno gli abitanti. Mi ricordo che vidi una macchinina percorrere tutto il crinale della collina e andare verso il mare. Puntai il pennello verso la vettura in miniatura mentre ne seguivo il movimento e pensai che in una giornata così bella qualcuno doveva pur prendere la macchina per andare verso il mare (mi pare fosse gennaio o già febbraio forse, insomma proprio quel momento dell’anno in cui un tempo, nelle giornate di sole, avrei fatto la mia prima visita alla spiaggia).
Appena la vetturina scomparve dietro la collina, subito mi pervase un senso di inutilità, quello che mi prende nelle giornate storte. Mi sentii terribilmente solo. Dov’era finita la bella speranza del mattino portata da quel vento provvidenziale? Annoiato – peggio, nauseato – cominciai a passare e ripassare il mio dito sopra alla tela. Sul viso del pittore era comparsa ora un’aria quasi romantica che così poco si addiceva al resto del quadro. Mi chiesi da dove saltasse fuori quella stonatura.
Non mi ricordo più se la mattina fosse già passata, forse si era già fatto pomeriggio o era quasi sera. Decisi che l’ultima speranza per non buttare via la giornata era quella di ritornare a dipingere il pollo. Scesi di sotto e guardai in direzione del vicinato. Attraversai l’orto, o quel che ne rimaneva (era stato divorato da erbe così alte che a malapena si vedevano le canne che avrebbero dovuto sostenere gli ortaggi). Spuntai di poco lontano dal grande cumulo che il vicino e la sua famiglia avevano continuato a preparare mentre io perdevo tempo a dipingere in terrazza. Proprio in quel momento lui tirò un grido e appicciò il grande fuoco. Fuoco! urlava il vocione. Fuoco! fuoco! ripetevano i bambini attorno al grande falò ora acceso. Come ardeva bene. Dovevano avere cosparso di benzina tutto il cumulo. Fuoco! fuoco! Fuoco!
L’idea mi venne davvero con naturalezza. Mentre correvo su a prendere il quadro ti ho pensato. Eravamo in bicicletta e scendevamo in picchiata dalla collina al mare. Vivere, vivere il presente, canticchiavo io mentre stavo saltando giù dalle scale con il quadro in mano. Ero arrivato davanti al fuoco. Ce lo tirai dentro.
Il quadro era lì, in mezzo alle fiamme, e io me ne ero rimasto a guardare i colori che si scioglievano come la bava di un’enorme lumaca. Mi sembra ancora di vedermi: io ritto sulle mie gambuzze di fronte a quel bel falò, vivo e felice, pronto a tornare da te. Il momentaneo idillio fu interrotto da un colpo forte alla gamba. Era il vicino che ora stava agitando l’impugnatura del suo forcone e di certo non mi avrebbe risparmiato un’altra legnata se non mi fossi dato alla fuga. Pollo!, urlava lui, mentre io saltavo via zoppicando.
Adesso non mi ricordo più se questo fatto successe davvero o se me lo immaginai soltanto. Forse, per essere onesto, dovrei cancellare alcune righe di questa lettera. Ma ho bruciato il quadro, questo è successo e questo ti avrei voluto raccontare. Avrei voluto raccontartelo subito, la mail però ancora non l’ho inviata e forse è andata bene così. Mi avresti fatto troppe domande, ti saresti dispiaciuta e sicuramente non avresti trovato nulla di buono in quello che c’è scritto qui, o almeno non tutto quello che ci avevo visto io. L’autoritratto è distrutto, il rapporto con il vicinato si è fatto burrascoso. Io però ho smesso di dipingere e da quel giorno ormai lontano non ho più niente da fare qui se non tornare da te. Cosa mi rimane da fare d’altra parte? Cosa mi rimane da fare? Per sicurezza ho pensato anche di allestire qualcosa lì dove ero solito dipingere: un piccolo bidone di latta, della legna, benzina e un accendino. Non si sa mai.
Foto di Katharina N. da Pixabay