Fuori terra (sillabario della terra # 5)

di Giacomo Sartori

Già da tempo si coltivano pomodori e cetrioli e peperoni e fragole e lamponi e altre specie in minuti contenitori, spesso vasetti di plastica, riempiti di torba, in genere in serre di plastica che permettono di affrancarsi in parte o completamento dall’inghippo delle stagioni. Torba che viene usata una sola volta, e poi gettata. Torba che un po’ alla volta si esaurisce, perché per formarsi le ci sono voluti migliaia di anni. Proviene dalle torbiere, ambienti di rara diversità di vita che vengono scavati e amputati, spesso lasciando pozze di acqua delle quali non si sa cosa fare. Si chiamano colture fuori terra. Sono di gran moda. Si dice che sono molto moderne, sono il futuro dell’agricoltura.

Dal punto di vista biecamente utilitaristico è più vantaggioso, usare la torba o altri materiali inerti che non hanno le esigenze e il caratterino della terra, i suoi malumori e le sue vendette. E che possono essere gettati una volta usati, con la noncuranza con la quale si volta una pagina. Ricominciando ogni volta da capo, senza preoccuparsi delle erbacce e della eccessiva compattezza e degli impoverimenti e degli equilibri dei microrganismi e degli altri esseri, senza darsi pensiero per il futuro. Trasformando finalmente l’agricoltura in un vero e proprio processo industriale, affrancato una volta per tutte dalle complicazione inutili di quella gran rompicoglioni che è la terra, da quella imprevedibile e bizzosa presuntuosa che è la natura.

In agricoltura gli olandesi sono sempre all’avanguardia, e con il loro fazzolettino da nulla, peraltro già fitto di allevamenti di maiali e di tulipani e altro, riescono a essere il secondo esportatore mondiale di verdura. C’è da non crederci. Nelle loro serre supertecnologiche i pomodori e le altre piante sono spinte a arrampicarsi in altitudine, su e sempre più su, in modo da risparmiare spazio, con il principio dei letti a castello. Per nutrire le pianticelle danno esattamente le quantità che servono di concimi chimici, diluiti nell’acqua, e qui il modello sono le flebo. E anche l’acqua, viene dosata con il contagocce, riciclando i troppo pieni: non buttano via nulla.

Invece della luce solare, non abbondante nei loro bigi inverni, e che comunque può fare le bizze anche d’estate, usano le lampade al led. Alle piante vanno bene anche quelle, come noi possiamo nutrirci di liofilizzati, se vogliamo. Consumano molto poco, si dice, e l’energia può venire da fonti pulite. Citando le economie di acqua e di concimi e la possibilità di usare energie pulite si strombazza allora che è il metodo più razionale e ecologico che esista, l’unico che evita gli sprechi e fa risparmiare. Si dovrebbe coltivare tutto così, si dice. È il sogno degli ingegneri, che amano che tutto sia controllo, e certo ancora più dei transumanisti, allergici ai limiti naturali.

Peccato solo che i concimi chimici siano prodotti con grandi quantità di petrolio. E peccato anche rinunciare al sole, che è gratuito, e fabbricare i pomodori e i peperoni usando substrati che richiedono energia per essere prodotti o estratti e impiegando delle lampade, e insomma dell’energia. Nei paesi freddini d’inverno le serre devono essere poi scaldate, e anche lì ci vuole molta energia. Ma gli olandesi non sono i soli, intendiamoci, e molte delle verdure dei supermercati vengono da lì.

Se quindi si facessero i calcoli, quasi nessuno li fa, si vedrebbe che per avere le chilocalorie contenute in un chilo di pomodori si impiegano le chilocalorie (sotto forma di energie fossili) contenute in un chilo e mezzo o due chili di pomodori: la resa energetica è negativa. Detto altrimenti si trasforma il petrolio, sempre lui, in oro rosso, in pomodori. Come è noto un procedimento può però essere economicamente molto vantaggioso anche se energeticamente disastroso, sono appunto le alchimie dell’economia. L’anno scorso si è però constatato che qualcosa non andava, quando con gli aumenti dei prezzi del gas le serre olandesi, prima molto redditizie, nuotavano in una crisi nera. Ma ora i prezzi si sono calmati, e via come prima per le autostrade ben asfaltate dell’economia miope alleata all’ecologia di facciata.

Certo, c’è l’energia cosiddetta pulita, ammesso che lo sia davvero, tenendo conto anche della fabbricazione degli apparecchi che la producono e del loro smaltimento. Si insiste molto su questo, quasi fosse la quadratura del cerchio. Ma forse è meglio utilizzarla per qualcosa d’altro, dove è davvero necessaria, e non si può farne a meno, quest’energia cosiddetta pulita, e fare i pomodori con il sole. Con il sole che è gratuito e con la terra, nonostante sia sporca, alla vecchia. Senza petrolio per i concimi chimici, per le lampade al led, per riscaldare le serre l’inverno, per i pesticidi per contrastare i funghi che adorano gli umidumi delle serre, per costruire e distruggere gli apparecchi che danno le energie cosiddette pulite.

Forse è meglio mettere le radici dei pomodori nella terra, la quale si dà da fare pure lei gratuitamente. E anzi se curata bene da una mano, già che c’è, anche a concimare la pianta e a tenere sotto controllo parassiti e predoni vari. L’agricoltura è l’unica attività produttiva umana che sforna più energia di quanta ne richieda: grazie al miracolo della fotosintesi i raggi del sole si convertono, utilizzando i mattoncini dalla CO2 presa dall’aria, in materia vegetale. Foglie e fusti e frutti. Senza bisogno di pannelli solari o pale eoliche o altro. Solo con la terra.

E anzi le rese energetiche possono essere favolose, se pure la terra stessa dà il meglio di sé, e sgobba al risparmio, anche appunto fornendo materie prime e limitando gli attacchi esterni. Le agricolture che noi consideriamo molto arretrate sotto questo aspetto possono fare meraviglie. Ma anche quelle nostrane che fanno davvero attenzione a consumare poco, senza fingere o barare. In pieno bieco capitalismo globalizzato c’è ancora chi fa regali senza chiedere un compenso, e che non ha bisogno del mercato globalizzato. È un peccato che tanti metodi che si presentano come i più efficienti, in genere con il blasone delle alte tecnologie, sulle quali si fa adesso molto affidamento, abbiano spesso perso l’abitudine a fare caso e a accettare e a mettere in contabilità questi regali del sole e della terra.

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2 Commenti

  1. Grazie per questi tuoi interventi. C’è bisogno di raccontare la follia verso cui stiamo correndo

  2. Qualche anno fa era ancora vitale l’idea degli acquisti a km zero. E’ una strategia che ancora ci potremmo permettere, ma a cui quasi nessuno ricorre più. Forse perché ci costa meno il pomodoro olandese (che a casa mia ha il divieto d’ingresso)? Non so. Se posso, faccio ricorso ancora a chi coltiva a due passi da casa e mi trascina, letteralmente, sul campo: mi costa un po’ di più, ma mi sento più tranquillo ad addentare quel cetriolo,lavato sommariamente,che non a dover sbucciare un cetriolo che ha convissuto in cassetta con dei limoni dalla buccia non edibile (!!! ci facevamo il limoncello, con la buccia di limone).

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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