All’ombra della Bomba: l’Atomica nella cultura pop
di Daniele Ruini
Because if it’s not love
Then it’s the bomb, the bomb, the bomb
The bomb, the bomb, the bomb, the bomb
That will bring us together
(The Smiths, Ask me)
In una conferenza pronunciata nel 1965, Pro o contro la bomba atomica, Elsa Morante impiegava l’immagine dell’ordigno nucleare per simboleggiare l’«occulta tentazione di disintegrarsi» da parte di un’umanità sempre più alienata, corrotta dalla società di massa e succube degli «stregoni-scienziati»; e enfatizzava, al contrario, l’importanza degli scrittori, ai quali spetterebbe un ruolo di disinnesco e di risveglio delle coscienze, visto che compito dell’arte è quello di «impedire la disintegrazione della coscienza umana».
Quando Morante scriveva queste parole si era nel pieno della Guerra fredda, a pochi anni dalla crisi missilistica cubana che, nell’ottobre del 1962, portò Stati Uniti e Urss a un passo dallo scontro armato: il timore dello scoppio di un conflitto nucleare faceva allora parte dell’immaginario collettivo e l’ombra della Bomba accompagnava la crescita del consumismo americano e il boom economico dell’Europa occidentale. Non sorprende, allora, che quella paranoia atomica sia stata assorbita, veicolata e anche sfruttata dalla cultura pop, a partire da quella statunitense: arti visive, letteratura, musica e cinema si sono infatti nutriti di costanti riferimenti all’era nucleare, e l’interesse per tale tema non sembra ancora essersi esaurito (lo si ritrova, per esempio, nell’ultimo romanzo di Cormac McCarthy, Il passeggero, i cui protagonisti sono figli di un fisico che lavorò al Progetto Manhattan).
A raccontare tutto questo è Camilla Sernagiotto nel suo La trappola atomica: come la bomba ha contaminato la cultura pop (Ultra), un’interessante ricostruzione di come le armi atomiche, dalla loro tragica manifestazione nel 1945, siano state protagoniste della cultura popolare. Come scrive l’autrice, la sua ricerca ha l’obiettivo di sottolineare il ruolo dell’arte come «filtro che permette all’uomo di rendersi conto di quello che ha fatto» (p. 15); e anche in quei casi in cui l’interesse per il tema atomico è stato alimentato da motivazioni commerciali (negli anni della Guerra fredda la bomba atomica è infatti un soggetto che fa vendere), «il grande merito delle opere che raffigurano quell’orrore è che ci costringono a vederlo, ad ascoltarlo, ad affrontarlo» (p. 96). Molte di quelle opere possono allora ancora fungere da monito, per ricordarci cosa è successo quando l’uomo ha deciso di mettere la scienza al servizio della distruzione di massa e di basare le relazioni internazionali sulla deterrenza nucleare e la corsa agli armamenti.
Il primo ambito affrontato da Sernagiotto è quello delle arti visive: oltre a soffermarsi su alcune opere emblematiche –come Leda Atomica (1949) di Salvador Dalì, F-111 (1964-65) di James Ronsenquist, Red Explosion (or Atomic Bomb) (1965) di Andy Warhol o la più recente Bomb Hugger di Banksy–, l’autrice dà visibilità ad artisti meno noti il cui lavoro è però strettamente legato alla nascita della bomba atomica, come gli americani James Acord (1944-2011), Tony Price (1937-2000) e Jim Sanborn (1945–).
James Acord è considerato l’unico artista al mondo «ad aver lavorato direttamente con materiali radioattivi» (p. 57): riuscì infatti ad ottenere il permesso di vivere per quindici anni a Richland, all’interno della riserva nucleare di Handford, sito che ospitò vari reattori nucleari e complessi di lavorazione del plutonio; e lì realizzò sculture con barre di combustibile nucleare, oltre a reliquiari ospitanti oggetti legati all’era nucleare. A Tony Price si deve invece l’invenzione della cosiddetta “arte atomica”, basata sul recupero di materiali di laboratorio utilizzati a Los Alamos, il centro del New Mexico dove gli USA portarono avanti il programma di costruzione dei primi ordigni atomici. Jim Sanborn ha infine dedicato la sua ricerca artistica alla ricostruzione delle stesse macchine impiegate dai fisici del Progetto Manhattan, realizzando acceleratori di particelle e ripetendo l’esperimento originale di scissione dell’atomo di uranio: l’idea è di mettere in primo piano la circostanza spaventosa per cui –come dichiarato dall’artista intervistato dall’autrice– «i primi dispositivi erano realizzati con materiali disponibili a chiunque» (p. 79).
Passando alla letteratura, grande spazio è dedicato ai romanzi di fantascienza che, a partire dagli anni ’50, hanno raccontato storie legate all’atomica; tra i tanti, Paria dei cieli (1950) di Isaac Asimov (1950), I trasfigurati (1955) di John Wyndham, L’ultima spiaggia (1957) di Nevil Shute, Command the Morning (1959) di Pearl S. Buck, Addio, Babilonia (1959) di Pat Frank, Un cantico per Leibowitz (1959) di Walter M. Miller, Cronache del dopobomba (1965) di Philip K. Dick. E non mancano anche opere teatrali legate al tema atomico, come il celebre Copenhagen del londinese Michael Frayn (1998), che mette in scena l’incontro avvenuto nella capitale danese nel 1941 tra i fisici Niels Bohr e Werner Heisenberg, che si confrontano sulla scelta di sfruttare l’energia atomica a fini bellici.
Richiami all’era atomica si ritrovano anche in molti classici del fumetto americano (Batman, L’Uomo ragno, Superman, Hulk o Capitan America), a partire dalla circostanza per cui spesso i supereroi hanno origine da elementi radioattivi. Ma più in generale il mondo del fumetto è ricco di personaggi scaturiti dalla fantasia post-atomica: da Capitan Atom (nato negli anni ’60 da Joe Gill e dal disegnatore Steve Ditko) al Dottor Manhattan della serie Watchmen creata da Alan Moore (autore anche di V for Vendetta, ambientato in una Inghilterra post-atomica). Significativa, infine, la graphic novel Quando soffia il vento (1982) dell’inglese Raymond Briggs, trasformata anche in un film d’animazione nel 1986.
E naturalmente riferimenti all’era atomica si ritrovano nei manga giapponesi: basti pensare al mondo post-atomico devastato da un olocausto nucleare nel quale si svolgono le avventure di Ken il guerriero (creato negli anni ’80 da Testuo Hara e Buronson e poi divenuto un anime molto celebre anche in Italia); o al manga (1982) e poi film di animazione (1984) di Hayao Miyazaki Nausicaä della Valle del vento.
Per quanto riguarda la produzione musicale Sernagiotto si concentra soprattutto su Bob Dylan (con alcune canzoni dei primi anni Sessanta come A Hard Rain’s A-Gonna Fall, With God on Our Side, Talkin’ World War III Blues), Crosby, Still & Nash (con la loro Wooden Ship del 1969, registrata –con alcune modifiche–anche dai Jefferson Airplane) e David Bowie (la cui Bombers uscì nel 1971). Due capitoletti sono inoltre dedicati all’Heavy metal (molte band storiche come Black Sabbath, Iron Maiden, Metallica, Megadeth e Sepoltura hanno infatti consacrato brani al tema della costruzione della bomba atomica e dell’apocalisse nucleare) e al punk, da sempre attraversato da una vena antimilitarista ben evidente in diverse canzoni dei Clash (a partire dalla title-track del loro album più celebre: London Calling, del 1979).
Ma è soprattutto negli anni ’80 che le allusioni alla bomba atomica attraversano tantissime canzoni: tra le più note vi sono Enola Gay (1980) della band britannica Orchestral Manoeuvres in the Dark, il cui titolo riprende il nomignolo del bombardiere americano che sganciò la bomba sulla città di Nagasaki; ma anche Breathing (1980) di Kate Bush, Two Suns in the Sunset (1983) dei Pink Floyd, Dancing with Tears in My Eyes (1984) degli Ultravox, Two Tribes (1984) dei Frankie Goes to Hollywood.
Purtroppo manca invece del tutto un focus sulla musica italiana, che si è più volte dimostrata attratta dal tema in questione: dagli anni ’60 de La bomba atomica (1966) dei Giganti e de L’atomica cinese (1967) di Francesco Guccini, fino ai numerosi riferimenti degli anni ’80: basti citare Franco Battiato che ne L’esodo (1982) invitava a mettersi in marcia «prima che la terza Rivoluzione industriale / provochi l’ultima grande esplosione nucleare»; o ancora i Nomadi con la loro Il pilota di Hiroshima (1985); oppure l’hit dei Righeira Vamos à la playa (1983), il cui testo in spagnolo descriveva, pur con una certa ironia, uno scenario balneare post-atomico fatto di viento radiactivo e agua fluorescente.
Ci permettiamo inoltre di aggiungere a questo elenco Foreign Accents di Robert Wyatt (contenuta nell’album del 2003 Cuckooland), il cui testo è costruito sulla ripetizione alternata dei nomi di Hiroshima e Nagasaki, inframezzati dai saluti giapponesi konnichiwa e arigato, e dai nomi di Mordechai Vanunu (tecnico nucleare israeliano che ha passato 18 anni in carcere per aver rivelato l’esistenza di testate nucleari segrete in Israele) e di Mohammad Mossadegh (primo ministro iraniano che, in seguito alla sua politica di nazionalizzazione del petrolio, venne deposto nel 1953 da un colpo di stato militare favorito dai servizi segreti americani e inglesi).
Dopo un breve capitolo dedicato ai videogiochi, Sernagiotto passa in rassegna la settima arte, dimostrando come il cinema abbia a lungo flirtato con il tema della bomba atomica e come continui a farlo: basti pensare all’imminente uscita del nuovo film di Christopher Nolan dedicato a Robert Oppenheimer, il fisico a capo del Progetto Manhattan.
A registrare un grande successo del tema atomico sono stati soprattutto gli anni ’50: dai B-Movies americani pieni di radiazioni ed esplosioni nucleari (come quelli di Roger Corman), alle grandi produzioni hollywoodiane come L’ultima spiaggia (1959) di Stanley Kramer, fino al cinema d’autore, con opere come Hiroshima mon amour (1959), girato da Alain Resnais su sceneggiatura di Marguerite Duras, e Testimonianza di un essere vivente (1955) di Akira Kurosawa, il cui protagonista, terrorizzato dai rischi legati alle armi nucleari, cerca di convincere la famiglia a trasferirsi in Sud America.
Emblematico, in particolare, il film di Kramer, tratto dall’omonimo romanzo di Nevil Shute, in cui si descrive un mondo post-Terza guerra mondiale reso radioattivo dalle armi nucleari: dall’affannata fuga dei protagonisti –che cercano rifugio nelle zone più meridionali del pianeta, le uniche a non essere state ancora toccate dalla radioattività, trascorrendo gli ultimi giorni di vita su una spiaggia australiana– è infatti derivata la locuzione ultima spiaggia.
Gli anni ’60 sono inoltre segnati da due film imprescindibili: Il dottor Stranamore (Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba) (1964) di Stanley Kubrick, una delle più grandi satire del potere e una messa in guardia circa i rischi di un sistema difensivo basato sulla deterrenza atomica; e Il pianeta delle scimmie (1968) di Franklin J. Schaffner, tratto dall’omonimo romanzo del francese Pierre Boulle e ambientato in un futuro in cui la Terra è stata distrutta da una guerra nucleare e le scimmie sono diventate la specie più evoluta ai danni degli esseri umani.
Dopo che molte pellicole degli anni ’80 assorbono e rilanciano le tensioni legate alla Guerra fredda, a partire dagli anni ’90 il cinema sembra raccontare –sulla scia del disastro di Černobyl’ del 1986– soprattutto le paure legate non più ad un conflitto atomico quanto a possibili incidenti nelle centrali nucleari. Fa eccezione Rapsodia in agosto (1991) di Akira Kurosawa, un’opera che denuncia come i bombardamenti su Hiroshima e Nagasaki fossero diventati un tabù per i giapponesi d’America[1].
L’ultima parte del volume è infine dedicata alla serialità televisiva. Tra le serie citate da Sernagiotto in cui hanno un ruolo le armi nucleari (come 24 o Lost) particolare attenzione è dedicata a Twin Peaks-Il Ritorno (Showtime, 2017), ovvero il terzo capitolo, ambientato 25 anni dopo, della rivoluzionaria serie creata da David Lynch e Mark Frost all’inizio degli anni ’90. Nella immaginifica ottava “parte” di questa opera –girata da Lynch come un unico film di 18 ore (motivo per cui è meno appropriato parlare di “episodi” veri e propri)– viene infatti «mostrato come il Trinity Nuclear Test abbia facilitato la nascita di BOB, il killer assetato di sangue che ha messo a ferro e fuoco la cittadina di Twin Peaks» (p. 380)[2]. Ma già prima della messa in onda Camilla Sernagiotto aveva avanzato la suggestiva tesiper cui molti dei cognomi dei personaggi di Twin Peaks nascondessero un riferimento alla storia della bomba atomica: il caso più evidente è quello dello sceriffo Harry S. Truman, omonimo del presidente americano che decise lo sgancio delle due bombe su Hiroshima e Nagasaki.
Nessun accenno da parte dell’autrice è invece fatto a Mad Man (AMC, 2007-2015), l’acclamata serie televisiva ideata da Matthew Weiner e incentrata sulle vite di un gruppo di pubblicitari di stanza a Madison Avenue, nella New York degli anni ’60. Dato il periodo affrontato, le vicende raccontate riflettono spesso il clima da Guerra fredda che pervadeva allora gli Stati Uniti: oltre al fatto che il protagonista Donald Draper è un reduce della Guerra di Corea (mentre il suo collega e socio Roger Sterling combatté nella Seconda guerra mondiale, conservando da allora una forte idiosincrasia verso il Giappone), si può citare in particolare l’ultima puntata della seconda stagione, Meditations in an Emergency (dal titolo di una raccolta poetica di Frank O’Hara), in cui tutti i personaggi sono immersi nella tensione della crisi dei missili di Cuba (un’ansia nata in seguito al discorso televisivo con cui il presidente Kennedy preannunciava la reazione americana in caso di attacco da parte russa).
In chiusura, nonostante l’assenza di un indice analitico –senza il quale risultano di difficile consultazione le lunghe rassegne di romanzi e film che occupano, da sole, quasi la metà del libro–, La trappola atomica costituisce una preziosa guida alle opere della cultura occidentale (ma, come si è visto, non mancano incursioni in quella nipponica) che hanno rielaborato le angosce scaturite dalla tecnologia atomica. Angosce che accompagnano ancora le sorti dell’umanità, almeno fino a quando i «Potenti della terra padroni di nuovi veleni» (Primo Levi, Nulla rimane della scolara di Hiroshima) si decideranno davvero a dare alla pace una possibilità.
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[1] La vergogna fu, infatti, un altro effetto delle bombe americane sulla popolazione giapponese: per esempio molte donne di Hiroshima sopravvissute all’esplosione «si votarono a una lunga clausura per non percepire l’orrore nello sguardo di quanti, incontrandole, avrebbero veduto i loro volti sfigurati dai cheloidi, le larghe cicatrici provocate dalle ustioni» (Paolo Miorandi, Lessico di Hiroshima, Trento, Il Margine, 2015, p. 40). Sulla vergogna e l’assenza d’odio delle vittime di Hiroshima ha ragionato il filosofo e scrittore tedesco Gunther Anders nel suo Essere o non essere: Diario di Hiroshima e Nagasaki (Torino, Einaudi, 1961), opera-manifesto del movimento antinucleare.
[2] Significativamente, ad accompagnare le immagini è la Trenodia per le vittime di Hiroshima del compositore polacco Krzysztof Penderecki.