L’incontro con il pubblico come esercizio mitopoietico
La poesia è un’erbaccia nella storia della letteratura? Per molti sembra così. La vita di un libro di poesia è generalmente una vita minorata, una vita di acciacco. Rispetto a un romanzo o un saggio, per dire, ci si aspetta meno da chi scrive: presentazioni sporadiche, reading spesso affollatissimi, miracolose apparizioni in qualche festival. L’incontro con il pubblico è tanto desiderato quanto mal visto, come se si trattasse di una inutile – o addirittura pericolosa – ginnastica del consenso. La poesia sembra ostinarsi a vivere di una purezza che ignora il fondamento “impuro” di ogni avventura immaginativa. Manca allora un pubblico? No: manca una mitologia. Questo discorso può essere esteso all’intero mercato editoriale: c’è una letteratura che circola e vende, ma manca spesso dall’altra parte un’immaginazione capace di confrontarne il gigantismo al di là dei rancori, per farne il controcanto. Immaginazione vuol dire anche sapere osservare le gigantomachie, coglierne i flussi, le intersezioni, i sintomi da giocare, da mischiare, da ribaltare in chiave di imprevista alleanza, di gioiosa controffensiva o di postura persino destinale. Cito, a tal proposito, una recente riflessione della scrittrice Sara Gamberini, che mi sento di condividere: «a me non dispiace che qualcuno scriva male, scriva bene, scriva più pop di me, meno pop, che scriva di temi più spicci, meno spicci, più accattivanti, più spendibili. Non mi dispiace che grazie alla sua spendibilità e bellezza e carisma e freschezza e modernità ed estroversione vada in televisione, ai festival, che venga tradotto in mille lingue. […] Non penso mai che qualcuno possa rubarmi un posto. In questo la scrittura è per me garanzia di fedeltà, so che non mi sostituirà mai con nessuno. È mia. Poi certo, la difendo molto, anzi moltissimo, la amo, la proteggo, ma la difendo da altro, ad esempio difendo la sua unicità e non la sua posizione rispetto a quella di un altro scrittore, di un’altra scrittrice. Sarebbe bellissimo che noi scrittrici e scrittori fossimo molto più […] solidali e complici».
Esiste, chiaramente, una stringente logica prestazionale che danneggia questa solidarietà. Una logica che domina spesso i tour di presentazione di libri particolarmente “sostenuti” dal mercato editoriale: romanzi che debbono apparire, biografie che bisogna cercare di vendere, e così via. Ecco: proprio perché apparentemente svincolata dall’obbligo mercantile, la poesia può allora giocarsi in maniera formidabile l’occasione dell’incontro nella dimensione pubblica – invece che subirla. È questo il grande problema: se ci si incontra con un pubblico, in poesia, ciò avviene di frequente in un ambiente di ricatto, con l’obbligo di scusarsi in anticipo per la convocazione. Un sospetto (un complesso?) di inadeguatezza, di recita di fino anno a cui ha dato voce Gilda Policastro, descrivendo «il disagio» che prova, ultimamente, quando la «invitano a leggere in pubblico». Scrive Policastro: «perché non concedersi di tremare o di balbettare, che male c’è. Anzi, sarebbe meglio per un po’ tornare a leggerci con calma, uno per volta, senza gli abusi di pazienza altrui con queste maratone in cui ciascuno va ad ascoltare solo se stesso. Provo lo stesso disagio delle recite di fine anno a scuola o dei saggi di pianoforte, Gilda tocca a te». Maratone, recite, recinti, gareggiamenti, palchi che crollano: che squallore! L’incontro non deve essere presenzialismo, ma mitopoiesi.
Chiamo ora in campo un altro “acciacco”, quello biografico: in questi ultimi mesi ho viaggiato molto per accompagnare la vita del mio ultimo libro. Parliamo di trenta incontri programmati a quattro mesi dall’uscita. Ho avuto il privilegio di poterlo fare, grazie alla cura di una casa editrice che ha sostenuto e desirato ogni spostamento. Per di più lo ha fatto per un libro di poesia, e di un autore poco più che ventenne. Insomma: prontuario della catastrofe? Tutt’altro. È andata diversamente. Innanzitutto si trattava, per me, più che di fare presentazioni critiche, di cercare legamenti con altre realtà, di sconcertare un poco l’esperienza del libro come fenomeno terminale, conclusivo, arroccato per sempre nel proprio silenzio; un atto, volta per volta, di ricreazione condivisa con un pubblico chiamato a radunarsi attorno a questo strano congegno-libro. Novalis si chiedeva: «Chi ha dichiarato la bibbia completata? Non potrebbe forse la bibbia continuare ancora?». Aprire nuovamente il testo, ricominciarlo nell’incontro, farne uno strumento di tremore, uno strumento generativo e mitopoietico: ecco ciò che m’interessava.
Al margine di un’accoglienza positiva, ho ricevuto commenti di questo genere da persone da me peraltro assai ammirate: «bisogna pensare al buio dell’alfabeto e lasciar perdere le gazzette». Ecco: credo che la postura del flagellante, l’esercizio inutilmente punitivo, sia divenuto oggi una scusa banale, poco più che una difesa. Attenzione: vi sono altissime forme di aristocrazia spirituale nel ritiro, nell’indietreggiamento, nella decreazione. Ma sono urgenze, esercizi di scoincidenza dal tempo che coincidono con il tempo – e il compito – di una vita: domandano rigore, e non la banalità di un post Facebook dove si manifesta la propria frustrazione contro tutto e tutti. Anche la dimensione “performativa” è vista con grande diffidenza, come se si trattasse di una trovata recente, di una vocazione della modernità, e non di una formula di pathos che agita da sempre la vita della letteratura.
Riporto, a tal proposito, un frammento molto interessante da Caccia allo Strega di Gianluigi Simonetti, citato proprio da Gilda Policastro in un’altra sua recente riflessione: «La letteratura stessa, nel complesso, tende sempre più spesso alla performance: rilutta a conservarsi ‘solo scritta’, oltrepassa i confini del libro; dopo secoli di estetiche autonome riscopre l’eteronomia; sollecita, per farsi più seducente, interazioni con le immagini e la musica, con interviste, documentari e making of, col corpo stesso dell’autore, sempre più invitato a non lasciare sola la sua opera: a leggerla in pubblico ad alta voce, esibirla in una installazione, commentarla, firmarla, insomma, accompagnarla, in un’ossessione di presenza e incarnazione. Lo scrittore è quindi indotto, per acquisire una posizione centrale nel campo letterario, a trasformarsi in performer, attivo su diversi fronti, abile su diversi tavoli, mediaticamente (e non solo) virtuoso; oppure a specializzarsi come narratore, specialista di affabulazione nell’enfasi attuale per le ‘storie‘. L’uno e l’altro rischieranno soprattutto di essere, in fin dei conti, brillanti storyteller, al confine tra letteratura e comunicazione (e sempre più spesso col giornalismo a fare da mediatore): la fiction narrativa essendosi costituita come genere privilegiato nella rappresentazione comune del letterario”».
Simonetti evidenzia una questione fondamentale dell’attuale scena letteraria, ma la cui genealogia è complessa. Pensiamo all’idea di una letteratura totale veicolata dai poeti-performer come Adriano Spatola, o – per converso – alle straparlate performance di gigantismo televisivo di Carmelo Bene, che trivellano “da dentro” lo schermo del talk show pur evocando continuamente l’ambito letterario: ciò che s’agita è sempre uno sbordamento dal libro, che raggiunge il terreno dello storyteller nel comune mandato d’incontro-scontro con un pubblico, nell’incarnazione come preciso portamento.
Un testo vive certamente una vita autonoma, ma ciò non toglie che l’incarnazione, quando vissuta non come una resa ma come una risorsa, è capace di aprire nuove vie impreviste, anche in risposta all’attuale mercato. Dice la poetessa Ida Travi, autrice di un fondamentale saggio su L’aspetto orale della poesia: «il libro non basta». Proprio per questo fenomeni apparentemente totalizzanti per il nuovo mercato letterario come il BookTok (vero o proprio spettacolo della presenza fantasmatica) non debbono essere ignorati: come appuntavo altrove, proprio per via del suo aperto gigantismo, il BookTok richiede un gigantesco sforzo di rottura, lo invoca, lo infiamma, reinnescando la potenza immaginativa. Non trincee o palchi che crollano ma spazi di cura, radicalmente impuri proprio perché mirati all’impatto imprevisto, alla formulazione di altri miti, alla potenza del contagio immaginativo. Nell’incontro con la dimensione pubblica, ricominciamo dalla poesia: cioè dell’erbaccia.
D’accordo, ma “il libro non basta” è espressione quanto mai ‘curiosa’ (e ancipite).
Gamba tesa contro gamba tesa:
https://www.nazioneindiana.com/2023/05/05/il-poeta-e-lo-storytelling/
Più nello specifico, sono d’accordo con molte cose che scrivi qui Giorgimaria, ma vi vedo anche il pericolo di fare fascio di ogni erba.
Alcuni punti che varrebbe la pensa sviluppare.
Dimensione performativa della poesia. E’ importante. Ha una storia. Ne esistono diversi approcci e sopratutto diversi esiti. Alcuni più interessanti, altri meno. Possiamo entrare nel merito. Sarebbe interessante, per dare consistenza a questa categoria: Giovanni Fontana, Patrizia Vicinelli, ecc. Passare la frontiera: l’esperienza Tarkos, l’esperienza Ghérasim Luca, ecc.
Detto questo, non per tutti i poeti la dimensione performativa ha la stessa importanza “strategica”, e addirittura anche nel lavoro di un singolo poeta la dimensione performativa puo’ essere più o meno importante. Nel mio caso, ad esempio, la dimensione performativa e intermediale è stata subito molto importante, e ho potuto realizzarla attraverso alcuni testi divenuti libri (le Lettere alla Reinserzione, per esempio), mentre in altri casi (vedi il Commiato d’Andromeda o gli stessi romanzi) non aveva per me senso situarmi su quel terreno.
Infine, proprio ora che la performatività, in senso debole, è in qualche modo riconosciuta universalmente (ed è ingrediente che rafforza le vendite), vale la pena di riflettere alla specificità del testo scritto, del libro e del suo funzionamento. Adorno, Fortini, ma anche il più contemporaneo Rancière hanno cose da dirci in questo senso.
Insomma, io metterei ancor più di dialettica (storica) nel discorso sul nesso performatività e poesia.
Perché insisto sul fatto di evitare la generalizzazione? Perché generalizzare è un’esigenza del mercato. Al mercato basta creare una storia d’autore, e certo la sua presenza è indispensabile affinché questa storia sia nutrita, ecc.
Il mercato è una cosa sbagliata? E’ sbagliato in sé scegliere, seguire, adattarsi al mercato? No. Viviamo in un’economia capitalistica. Zone sempre più ampie del nostro agire e produrre prendono la forma di merci. Questo è destinale (fino a rivoluzione contraria). Solo che il mercato non solo sussume, ma anche respinge, anche nega, anche cancella. Il discorso di Sara Gamberini è in sé verissimo: lo spazio letterario, ad esempio, non puo’ essere che moltiplicativo, esso include con perfetta equanimità autori storici che hanno avuto poetiche e visioni del mondo opposte. Ma, per altri versi, è un punto di vista che rischia di essere ingenuo: il mercato non solo rende visibile, ma invisibilizza, in quanto s’impone tendenzialmente come ultima, unica, forma di legittimazione.
Nanni Moretti: In 196 paesi. Siamo distribuiti in 196 paesi. CENTONOVANTASEI PAESI.
Caro Andrea,
Eccomi. Parto dalla fine: «il mercato non solo rende visibile, ma invisibilizza, in quanto s’impone tendenzialmente come ultima, unica, forma di legittimazione». È proprio così: ma, se mi permetti, provo a risponderti proseguendo il discorso sul BookTok – TikTok, che è proprio emblematico di tutto ciò. Riaprendo la riflessione:
In TikTok, le immagini sono colte in una specie di sepoltura verticale; piovendo uno sopra l’altro, ogni video occulta velocemente il precedente. Ci attanaglia, in questa sterminata tumulazione, come una vertigine, l’idea di essere in balia di uno squallido rituale mercantile che non può essere in alcun modo interrotto. Tutto ciò non ci deve suggerire una paralizzazione dell’agire, bensì un altro tipo di rottura. Toni Negri, in una lettera indirizzata a Giorgio Agamben e datata 7 dicembre 1988, sollevava a tal proposito delle questioni cariche di avvenire: «il mercato, la vertigine dello squallore, è posta come sublime. […] Questa modernità che abbiamo costruito ci annichilisce […] per la spaventosa sequenza di eventi insensati, eppure quotidiani e continui nella quale si presenta» (Arte e multitudo). Descrizione che ben si adatta a Tik Tok, al suo metterci davanti all’egemonia delle immagini insensate da noi fatte, e che insieme – quotidianamente – ci fanno, saccheggiando il patrimonio delle abitudini, la geografia degli spostamenti emotivi e libidici; «ma», continua Negri nella lettera, «questa dura consapevolezza allo stesso tempo libera in noi la potenza dell’immaginazione». TikTok, nella sua proliferazione di immagini senso sosta, ci costringe al confronto aperto con la vertigine del mercato, con la sua sublime mostruosità: è un Behemoth, un Leviatano, una spaventosa creatura digitale. Ma proprio per via del suo aperto gigantismo, TikTok impone un gigantesco sforzo di rottura, lo invoca, lo infiamma, reinnescando la potenza immaginativa: «il mondo di immagini e di suoni insensati se ne è andato, noi lo abbiamo spinto fino al sublime, lo abbiamo rotto con l’immaginazione […]». Ma cosa comporta questa controffensiva immaginativa? Si tratta, per Negri, di un passaggio all’etico: «La potenza che è azione discrimina il mondo. […] Il passaggio all’etico, e cioè alla potenza del costruire un mondo sensato, questa è la fuoriuscita dal postmoderno». Una potenza del costruire e del discriminare: ecco, di fatto, il fondamento dell’immaginazione quando non dimentica della sua essenza intervallare, ovvero della necessità, tra ogni immagine, di un palpitare dello spazio del pensiero, in contrasto con una concezione bulimica, insignificante e meramente accumulatrice di materiali, che non sa più che farsene dei propri saccheggi.
Ecco perché ritengo, Andrea, che l’inciampo al mercato si giochi proprio in questa capacita intervallare, che si situa in ogni livello: nell’epica, nel kolossal come nel microgramma. È uno sforzo immaginativo, che però richiede, come ogni altro sforzo, anche una partecipazione a certe dinamiche (siamo sempre, per dirla in altri termini, nel sentiero tra Sunset Boulevard e Mulholland Drive).
E qui vengo anche alla questione del disorientarsi performativamente: avendo sempre frequentato, più che gli studi delle lettere, gli ambienti teatrali e coreografici, per me è molto difficile pensare a un attraversamento che non sia in sé un fatto di postura, di portamento del dettato poetico (e questo vale anche per la lettura e lo studio: si è sempre “nella vigna del libro”, anche da soli. Si scrive pigiando – è allora è passione della vite, oppure facendo danzare la mano e screpolando il foglio, come scriveva Roland Barthes). Lo studio del portamento poetico la maggior parte delle volte però è malvestito, manca proprio alla radice (e questo lo si comprende nel fatto stesso dell’accettare una piaga come i reading, o nelle presentazioni in cui non si ascolta in nessun momento l’aria che tira – cosa impensabile sopra un palcoscenico, fosse anche quello di TikTok)
Poi io direi che accanto a maestri come Vicinelli o Spatola, sia legittimo oggi guardare con la dovuta riconoscenza anche ad esperienze orali come quelle di Ida Travi, che insistono proprio su un altro “fuoco centrale”, su un altro modo di consegnare il dire: che è severissimo proprio nella sua consegna di prossimità. In questo, proprio il “Fuoco centrale” del Teatro Valdoca, così come “Paesaggio con fratello rotto” o “Pinocchio” e soprattutto (per il nostro discorso) “Misterioso concerto”, dovrebbero essere di lezione.
E’ interessante, Giorgiomaria, che nella tua risposta si siano presentati in strana alleanza Tik tok e la dimensione performativa, ma io vedo bene quello che per te vuole essere l’elemento che le accomuna. E mi sono letto con interesse forse ancora maggiore di questo tuo pezzo, quello apparso sull’Indiscreto, ma perché tratta ovviamente tema ancora più urgente di quello della performatività. Quello che dici è molto giusto: dobbiam giocare sul terreno sul quale il mercato inevitabilmente agisce (direttamente o indirettamente), anche se ci esercitiamo in un’arte della parola che si situa per certi versi agli antipodi della merce culturale. Quindi investire di energia e d’invenzione il momento d’incontro con il pubblico (la presentazione) e investire d’invenzione anche il nostro “distenderci” lungo gli assi dei social media (il discorso che fai su Tik tok). Prendo questo passo in cui citi Guattari: “Attraversiamoli perciò come occasioni per venire a patti con quella che il filosofo Félix Guattari chiamava la mecanosfera formata «da tutte forze creative delle scienze, delle arti e delle innovazioni sociali» intrecciate tra di loro; mecanosfera «che circonda la nostra biosfera – non come il giogo costrittivo di un’armatura esteriore, ma come un’efflorescenza […] che esplora il futuro dell’umanità» (Pour une refondation des pratiques sociales).” Forse io qui vedo il punto di frizione o forse semplicemente di sospetto per quanto mi riguarda. Che è anche il sospetto per Negri e un certo uso di Negri: l’idea che inevitabilmente nei mutamenti produttivi, anche se avviati, pilotati dal capitale, come è il caso con le nuove forme di produzioni associate alle piattaforme digitali, ebbene nei mutamenti produttivi si annida sempre il germe di un’ulteriore emancipazione, di una ulteriore liberazione. Questo ottimismo che, da certo cyber-punk anni Novanta giunge alla celebrazione del cognitariato negli anni dieci, ha sempre voluto salire sul carro della “modernizzazione”, va oggi riconsiderato criticamente. Questo non significa – e tu hai ragione – che si tratti semplicemente di ripiegarsi fuori da tutto, fuori dai terreni configurati dal capitale, fuori dalle forme di produzione culturali vigenti. Ma trovare la giusta distanza, salvaguardare la giusta autonomia, preservare la giusta lucidità è difficilissimo. Le ragioni per non partecipare al gioco sono ogni giorno più fitte.Ma questo non deve spingerci all’auto-annichilimento, alla semplice rinuncia, allla sparizione volontaria. Ma nemmeno a una vaga fiducia nelle capacità dell’immaginario a fronte di una realtà storica molto poco evocata. Ed è quello il punto su cui ho ancora voglia di insistere: i piani di realtà. Sono forse mille, ma ci devono essere anche quelli che stanno alle spalle delle potenti macchine dell’immaginario collettivo, che sia quello cinematografico o dei video giochi. I piani in cui si situano i conflitti che riguardano la maggior parte delle persone, che sono conflitti legati come sempre allo sfruttamento, al’esclusione, alla dominazione, e in cui noi stessi siamo presi, nonostante le patenti artistiche. Il presidente Macron ha tentato di spiegare la violenza delle sommosse francesi con un abuso di videogiochi, come se i ragazzi in rivolta non sapessero fare la distinzione tra una cosa e l’altra. Loro la sanno fare molto bene. Ai video giochi si gioca ogni giorno senza grandi conseguenze, un’azione rivoltosa comporta immediatamente enormi conseguenze, sulla vita del quartiere, del gruppo di pari e la propria. Ma essi mostrano spesso, come primo riferimento culturale, quello dei videogiochi invece di un libro di Fanon o di Rancière. Ma questo è una loro debolezza, sono strumenti importanti che mancano loro. Per quanto riguarda noi, invece, che scriviamo come fai tu, slittando da Hillman a Ghirri e Warburg, è importante volgere lo sguardo anche da quelle parti, verso quelle immagini più opache, quelle della rivolta ad esempio, che sono immagine densissime, che intrecciano una quantità di piani di realtà e di sequenze storiche, immagini al confronto delle quali, in effetti, la cascata d’immagini di Instagram o di Tik Tok fa ridere, per la sua leggerezza e fissità semantica.
Caro Andrea,
Ti ringrazio nuovamente per la risposta articolata. Partirei questa volta da qui: «ai video giochi si gioca ogni giorno senza grandi conseguenze, un’azione rivoltosa comporta immediatamente enormi conseguenze, sulla vita del quartiere, del gruppo di pari e la propria». Non credo si (video)giochi mai senza conseguenze; che lo scenario “vicario” costruito non comporti esso stesso il rischio di un’immediata conseguenza per il proprio immaginario. Ti rispondo con un esempio apparentemente distante – e ti prego di perdonarmi se riprendo nuovamente un discorso aperto, ma come vedrai tutto è legato in un’unica riflessione sul tema (si tratta, in effetti, di scritta sparsi e spersi per un saggio).
Ebbene: non si tratta di ignorare la realtà -di fuggirla attraverso congegni dell’escapismo-, ma di riconoscerne l’artificio fondativo e di comprendere, come nel caso del diritto romano e della fictio legis ben descritta da Yan Thomas (https://www.singola.net/pensiero/la-finzione-creatrice-giorgiomaria-cornelio), che gli scenari fittivi hanno il potere di alterare concretamente ciò che ci sta attorno. La finzione al suo grado massimo vincola il reale, lo forza a generare un piano di attualizzazione: per questo colui che partecipa alla creazione delle immagini influenza attivamente il tessuto storico; ne devia i flussi, le narrazioni; ne manipola la psicomachia.
Quando parlo di mitologia parlo proprio di questo: di potenza manipolatoria delle immagini; di “vincolo” libidinale. Oggi come ieri. Per le immagini e attraverso le immagini si sono fatte guerre: per questo non parlo di mera esaltazione accelerazionista, ma di movimento tecnologico da sempre presente, di “mecanosfera” con il quale occorre necessariamente confrontarsi. Siamo investiti da movimenti e rivolte continue sulla Rete: per me è molto difficile non coglierne la stessa portata di ciò che accade in una rivolta per strada. Ne discutevo a Parigi proprio con Gabriele Sterà, se ricordi: l’agitazione è sempre vita delle forme. Per questo possono convivere insieme (almeno nel mio immaginario) movimenti rivoluzionari completamente scoincidenti, ma legati a un modo di agitare la vita delle immagini che ci abitano. La lotta e la sfilata, per dire. Fosse anche quella verso il patibolo.
A tal proposito, penso sempre all’Ultima al patibolo di Gertrud von Le Fort, e alle suore carmelitane che, di fronte alla rivoluzione francese – a quella che è stata per molto la rivoluzione più celebrata – rispondono “allenandosi al martirio”, rifiutando di lasciare le vesti, cantando verso il patibolo contro lo strepito del terrore. E tra i due movimenti rivoluzionari, che si scontrano in un’unica grande performance del canto, Bianca, l’unica che aveva ceduto alla rivoluzione, quando tutto sembra finito, “commuove” l’aria muovendosi da sola, tra la folla, verso il patibolo, con abiti quotidiani. È nella sua commozione interna, nel suo “irradiare”, che si compie la rivoluzione. Nel sacrificio che rovescia la certa scrittura del proprio vissuto.
È un’immagine che danza – che continua a farlo.
Caro Giorgiomaria,
ti ho seguiti fino al terzo paragrafo. Nel quarto mi sono perso. Ma restando sulla questione immaginario e l’idea che esso possa vincolare la realtà. D’accordissimo. Anche se questo termine fa risuonare in me altri autori, come Castoriadis, che trattano l’immaginario come moto collettivo e non “volontario”. Proprio pensando a Castoriadis, vorrei chiederti – ma per risposte possibilmente non troppo allusive – che nesso vedi tra il tuo immaginario di autore-poeta e l’immaginario che puo’ esprimersi socialmente (e politicamente) per moti collettivi e non pianificati?