Simone Zafferani: “se inseguo la creazione già la perdo”
In occasione della pubblicazione de L’ora delle verità di Simone Zafferani per Pequod, ho chiesto a Giorgio Ghiotti (che ne ha curato la postfazione) alcune domande sul prendere in cura il transito di un libro nell’attuale panorama letterario.
Pubblico qui la conversazione, insieme ad alcuni estratti del libro.
GM: Che cosa significa prendere in cura il transito di un libro, e orientarne l’incontro con i lettori attraverso la “soglia” di una introduzione, o il congedo di una postfazione?
GG: Vuol dire, prima di tutto, decidere di chi essere il testimone. Mi spiego meglio: leggere un libro, amarlo, recensirlo è “facile”, è come preparare una sorpresa non dico al primo, ma al secondo appuntamento (pensare a un posto, un regalo, una canzone, c’è l’entusiasmo degli inizi e l’arroganza degli inizi, c’è un repertorio vasto ancora tutto da scoprire). Continuare ad amare – rubo le parole a Natalia Ginzburg – e con la stessa intensità e lucidità anche dopo, quando “una lunga e giornaliera abitudine di convivenza mescola nell’affetto insofferenza e rabbia”, è tutt’altro paio di maniche. Questo lo scrivo avendo ben presente due cose, e cioè che scrivere una prefazione, o postfazione, a un poeta che hai letto e amato negli anni è di per sé un esercizio di rinnovamento dello sguardo e di fedeltà alla propria onestà critica (conosco e amo la poesia di Zafferani da vari anni), e confessando che quando penso a una figura di prefatore/critico, penso nell’immediato a uomini e donne come Cesare Garboli, o Maria Corti, lettori e lettrici risalenti e sorgivi, che avevano un repertorio magari più limitato di autori e autrici nella valletta del loro cuore (come si fa a scrivere di chiunque? ad amare tutti senza preferenze e gerarchie? impossibile) ma che, quei pochi eletti, li seguivano – nella scrittura, nella vita – da vicino con indefessa passione e lucidissimo interesse, fino a mescolare, in loro (e mai lasciandosene però distrarre, o infiacchire) letteratura e vita. Ecco, in questo senso dico che scegliere di scrivere di un poeta significa prima di tutto scegliere di esserne il testimone. Ci si prende cura di un libro perché ci si vuole prendere cura del suo autore – non della persona, ma proprio dell’autore –, perché si crede che la letteratura, se dovesse perdersi quella specifica voce per disattenzione o leggerezza o progetto (di questo parlerò tra poco), commetterebbe una grave colpa. E non sempre ci si può affidare al tempo per far emergere il valore di un autore; bisogna lavorare e indicare e gridare, se necessario, in questo presente che “altissimo” non è più, ma sempre più “confuso” con buona pace di Penna. Del resto (me lo ha insegnato Ginevra Bompiani e aveva ragione), non ha senso puntare sui singoli libri – che possono essere più o meno riusciti –, bisogna innamorarsi e seguire un autore, quando ne troviamo uno che sia tale. E Simone Zafferani per me è uno degli Autori che abitano la valletta del mio cuore.
GM: Qual è oggi il valore di un libro svincolato dal dominio delle poetiche, dai facili riconoscimenti e dalle appartenenze?
Il valore di un libro, oggi, svincolato dai dominî delle poetiche, dai facili riconoscimenti e dalle appartenenze è lo stesso dei libri svincolati di ieri. Non cambia il valore in sé, ma cambia il panorama culturale entro cui i libri si muovono. A me sembra difficilissimo (impossibile?) individuare delle poetiche oggi, almeno così come si intendevano fino agli anni Ottanta. Ragiono mentre scrivo, e mi chiedo: qual era il fine del riconoscersi in una poetica, in un gruppo, fino a ieri? Mi pare che questo fine, se così posso chiamarlo, fosse eterodiretto: leggere ciò che i tuoi compagni di strada (di poetica) scrivevano, ma poi leggere e dialogare con i poeti sui loro libri magari così distanti da te per poetica e gusto. C’era, mi sembra, un rilanciare continuamente il dialogo e lo scontro, uno scontro intelligentissimo che si nutriva, di fondo, dell’ascolto. Perché per “attaccare” qualcuno la condizione primaria è l’ascolto, e alla base dell’ascolto sta la stima per l’altro, per il suo ragionare, per ciò che scrive. Ma oggi si è persa quasi del tutto la capacità di distinguere tra un giudizio di merito e un giudizio di gusto, così se un poeta pure accolto e supportato da importanti nomi della poesia e della critica (e parlo dei nomi che hanno fatto storia, non di quelli che stanno facendo trame) scrive o dice cose che non aderiscono perfettamente alla “poetica” che ci si è cucita addosso (e vedo, oggi, tanti piccoli e accademici interessi individuali, che fanno l’inchino allo studioso tal dei tali e un baciamano al prof chiarissimo e un cin cin col poeta laureato a tavolino con tre voti su quattro, sempre della sua stessa parrocchia ovviamente, più simile a una congrega che a un gruppo, a una chiesa che a una casa), ecco quel poeta lo si estromette, lo si rimuove dalle nuovissime antologie onnicomprensive, lui/lei e chi farà parte, colpevole, di un certo modo di intendere la poesia – che è poi diventata questione editoriale, capisci?, e per alcuni addirittura geografica (in questo Roma è sempre stata onesta: ha accolto chiunque, le voci più disparate, a patto che fossero delle grandi voci). Tutto questo per dire che il valore di un libro fuori dai circuiti delle poetiche (?) d’oggi e dalle appartenenze di partito poetico è sempre lo stesso, e anzi maggiore. La poesia ammette compagni di strada, ma non può avere compagni di casta o partito, né può far parte di clan, pena la perdita della propria credibilità e la compromissione etica ed estetica di ciò che si scrive.
L’ORA DELLA VERITÀ
Esiste, è tra di noi, un vagare segreto
delle domande tra la terra e il cielo
e tra il cielo e il bene che è nascosto
nelle fessure ottuse della quiete.
Come un’esalazione appena andata,
c’è in noi una pace conquistata e persa.
*
Nel labirinto cieco delle cose
la mente ha varchi che non mostra,
oscuri assilli, echi da ricordare.
Nel passaggio tra l’ombra e la sua fine
c’è sempre una soglia che rimanda
lo sfacelo, la precipitazione.
E tu stai lì in segreto a celebrare
la sua più sostenibile finzione.
*
La responsabilità della creazione
non è per me. Non voglio decidere i destini.
Io creo nella misura in cui li incarno.
Chiedetemi gli spostamenti del corpo, la fluttuazione dello sguardo,
i trasalimenti impercettibili del viso e della voce
tutte le avventure della vibrazione. Io creo inscenando
e sposto più in là il senso dello spazio e la fuga del tempo.
Io sospendendo l’io sono chi voglio,
anzi chi volete, ma non chiedetemi di decidere
quel che sarà di me quando sono un altro.
L’oscillazione è il segno che lascio e non posso prevederla;
è diversa ogni volta e io
se inseguo la creazione già la perdo.
Buongiorno, premetto che sono stata pubblicata qui molte volte, da Francesco Forlani, con il vecchio e disuso pseudonimo di Anna Giuba. Ho apprezzato la recensione, anche la sincerità e l’onestà dei versi. Tuttavia mi sembra che nella vita di un libro, breve, media, lunga o senza tempo, ci debba essere una visione universale e reale anche della società. Non è un compito facile, ma il verso per il verso, la “creazione” circolare e un po’ cieca, non mi rappresentano. Non sono e non voglio assolutamente essere polemica, se mai dialogica. Del confronto c’è sempre molto bisogno, vista la condizione di isolamento che spesso è conseguenza, anche causa forse, dell’atto stesso della scrittura. Ringrazio molto per la lettura.