Estate 1986

di Arjuna Cecchetti

Si era appena tolta di dosso la numero uno di molte. Quelle creature vivevano raggruppate attorno ai sassi sotto il pelo dell’acqua, oppure nelle pozze formate dalle orme lasciate nel fango dalle bianche vacche che raggiungevano le rive dello stagno. Quella che teneva stretta fra l’indice e il pollice aveva la bocca spalancata e una bolla d’acqua si era gonfiata tra la miriade di piccolissimi rostri scuri che contornavano la cavità boccale. L’aveva staccata dal polpaccio ma altre sanguisughe, nere e lucide, erano appese alla sua pelle fra la caviglia e l’incavo del ginocchio destro. Si sarebbe occupata delle sue e poi di quelle degli altri. Loro avevano schifo delle sanguisughe. Lei no, per lei staccarsele di dosso era uno dei giochi di quell’estate.

La sanguisuga numero uno non aveva aderito per bene alla pelle e in generale nessuna sanguisuga restava attaccata tanto a lungo da ingrassare e allungarsi a dismisura. All’inizio era stato suo zio a fare i controlli ogni volta che uscivano dall’acqua, ma ora i bambini erano in grado di vedersele da soli e poi a staccarle ci avrebbe pensato Willy. Lei era diventata svelta e le afferrava con movimento sicuro delle dita e le sanguisughe venivano via lasciando sulla pelle un delicato cerchietto rosso.

Willy non arrivava al lago in auto come gli altri bambini, suo padre non andava quasi mai perché lavorava molto, soprattutto in estate. Quindi, più spesso, arrivava in moto, sulla Guzzi guidata dallo zio. La madre l’accompagnava fino alla palazzina dove abitava il fratello. Lui si faceva trovare pronto, con la moto fuori dal garage. Lei infilava il casco pesante e si aggrappava ai fianchi di suo zio che dava un colpo col piede sul pedale dell’accensione e partivano. La prima volta che era salita sulla Guzzi aveva avuto paura, soprattutto lungo il rettilineo di fronte all’acciaieria dove lo zio aveva accelerato e la moto aveva sobbalzato e Willy non era mai andata a quella velocità e la paura di essere sbalzata via dal sellino l’aveva presa alla gola. Poi quella paura era svanita e la seconda volta ci era salita sopra come se fosse stata una veterana e dalla terza aveva preso a reggersi sulla barra cromata fissata dietro di lei. Al lago c’erano altri che arrivavano in motocicletta e Willy ora conosceva i marchi di quelle moto: Honda, Kawasaky, Morini, Gilera e Guzzi. Lei aveva simpatia per i nomi giapponesi e Kawasaky era diventato il suo marchio preferito.

Le moto, come le automobili, venivano parcheggiate lungo il margine della strada provinciale che costeggiava la riva verdeggiante del lago. Appena scesa poteva intravedere i gruppi di persone stese sui teli di spugna colorati e i ragazzini schiamazzanti che sciamavano fra gli adulti e l’acqua. Al centro del prato cresceva un grande albero di pioppo che offriva ai bagnanti la sua frescura mentre il resto della scena era illuminato dalla bianca e bollente luce del Sole.

Willy prendeva il suo zaino che era stato legato sul portapacchi e poi seguiva lo zio fino alla discesa che portava alla spiaggia che era un sentiero stretto ma tenuto libero dai rovi che crescevano di lato. Lo stradello passava di fronte a un rudere infestato dall’edera, ma nella metà che aveva ancora il tetto, un amico dello zio aveva allestito un punto di ristoro. C’erano le buste di patatine, la macchina per il caffè e un piccolo frigorifero per tenere i gelati. L’energia per il frigo e per la macchina del caffè la dava un generatore a nafta che borbottava sul retro. Il rumore del motore a scoppio, però, non rompeva l’atmosfera dello stagno perché dal bar una radio con l’amplificazione trasmetteva musichette estive che si diffondevano sulla riva dei bagnanti. Allontanandosi dal rudere, dal generatore a nafta e dalla radio, il rumore di fondo di quell’estate tornava ad essere il frusciare delle foglie smeraldine del grande pioppo.

Willy, eccitata dallo schiamazzo dei suoi coetanei, affrontava il percorso fino alla spiaggia impaziente di stendere il telo, togliersi la canottiera e correre a tuffarsi.

In certi giorni c’erano molti bambini, in altri pochi ma sempre c’erano lei e altri tre ragazzini dei quali conosceva i nomi e poco altro. Diego, Elisa e Leo. Diego era figlio unico come lei. Elisa e Leo erano fratello e sorella. Diego era loro cugino e Diego e Willy avevano pressapoco la stessa età mentre Elisa aveva un anno di meno e Leo sei anni in tutto. Dei loro nomi e della loro età era abbastanza certa, di chi fossero i figli, no. Allo stesso modo Diego non era tanto sicuro che lei si chiamasse sul serio Willy e una mattina glielo aveva esplicitamente chiesto.

Ma perché Willy? Non è da maschio?

Il nome lungo è Viollca. Willy è più semplice, no?

Sei una straniera.

Per metà. Ti scoccia?

Non lo so, poi se è per metà vuol dire che va bene.

E la questione del suo nome era finita lì, ma questo era accaduto all’inizio di quella torrida estate.

Diego era l’unico che le facesse questo tipo di domande. Ne aveva fatte anche altre ma non a tutte lei aveva risposto. Ciò che interessava a Willy era giocare alle avventure e lei godeva di una certa influenza su quei ragazzini. Parte di questa influenza era dovuta al nome esotico, ma molto del carisma le era dato dal suo aspetto. Aveva nove anni e ne dimostrava almeno undici perché era più alta dei maschi della sua età. Era snella e aveva la muscolatura ben definita e i muscoli impressionavano gli altri. Per di più non indossava il bikini, le altre bambine, anche le più piccole lo usavano ma lei no. Sua madre non le imponeva di metterlo e anzi la scoraggiava dal farlo. Le diceva che non ne aveva ancora bisogno ed era vero. Per Willy era okay fare senza perché le volte che lo aveva  indossato lo aveva trovato fastidioso.

Più della metà del perimetro del lago era infestata dal canneto e solamente la spiaggia del pioppo era sgombra. I ragazzini, di norma non avevano il permesso di allontanarsi dalla spiaggia, loro quattro, invece, andavano spesso nel canneto, che avessero il permesso o meno. Un paio di volte avevano perfino fatto il giro del lago arrivando sull’altra sponda dove c’erano un paio di bei pontili di legno e dove talvolta si vedeva qualche adulto pescare. Ma comunque fosse quando erano stanchi di fare il bagno partivano a piedi per un’esplorazione dei dintorni.

Le sanguisughe, però, non erano l’unica rogna dello stagno. Vi imperversavano i tafani e le mosche cavalline. Ovviamente sulla spiaggia ce ne erano di meno ma dato che loro quattro erano spesso in giro, la presenza dei tafani era un problema reale e i loro morsi un dolore frequente. I pericoli del lago non preoccupavano Willy, era stata lei a convincere gli altri che tafani e sanguisughe non potevano impedire loro di fare avventure, e così di avventure ne avevano fatte per tutta l’estate.

Il luogo prediletto per i loro giochi non erano i pontili usati dai pescatori ma due imbarcaderi abbandonati e inghiottiti dalle canne palustri. Dei due ormeggi rimanevano i bidoni di latta che avevano funzionato da galleggianti, alcune tavole e gli spunzoni dei pali di castagno che emergevano dalla melma. Per i quattro era facile saltare da una tavola all’altra fino a raggiungere quel che rimaneva degli imbarcaderi. Quei resti sepolti dalla vegetazione lacustre rappresentavano un’irresistibile attrazione: due vascelli pirata, due navi spaziali dopo un atterraggio di fortuna, due rifugi antiatomici, qualsiasi cosa. Era Willy che aveva inventato la gran parte di quei giochi e solo in un caso l’ideatore era stato Diego.

Facciamo come se fossimo a Cernobyl?

Cernobyl? Aveva risposto Willy.

Certo, la cosa dell’esplosione della centrale nucleare, del pericolo delle mutazioni dovute alle radiazioni, quella roba lì.

Ho capito, però non sappiamo com’è la situazione adesso laggiù.

Allora Diego aveva spiegato quello che aveva in testa: si sarebbero divisi in due squadre e avrebbero fatto il giro dello stagno passando fra il canneto e i pascoli; tra loro avrebbero comunicato con le radiotrasmittenti e poi avrebbero cercato altri sopravvissuti, ma si sarebbero dovuti difendere dagli insetti mutanti che erano grandi come le vacche del posto per via che vivevano in quell’ambiente altamente radioattivo. Le incolpevoli vacche bianche che pascolavano intorno al lago diventarono i cattivi del gioco e anche il bersaglio di lanci di zolle di terra. Dopo aver tirato alle vacche, i quattro corsero verso i rispettivi rifugi. Willy e Diego si ritrovarono sul vecchio imbarcadero dal bidone giallo.

Diego teneva il pezzo di legno che fungeva da ricetrasmittente tra le mani e sedeva ciondolando i piedi sul pelo dell’acqua verde, mentre una nuvola di moscerini neri volava caotica sopra le loro teste. Willy era di fronte a lui ma in piedi e con i piedi che affondavano nella melma dove l’acqua era bassa.

Hai paura delle radiazioni? Aveva chiesto Willy.

Certo che ho paura. Anche tu dovresti averla. Hai visto Gorbaciov cos’ha sulla fronte, non pensi che siano state le radiazioni?

Non c’avevo pensato, ma non credo che siano state quelle.

Se non sono state le radiazioni cos’è stato allora?

Da quel che so quella è una voglia. È grande ma è solo una macchia della pelle con la forma di un grappolo d’ uva. Probabilmente quando la mamma di Gorbaciov era stata incinta non poteva bere vino e magari ne aveva avuto voglia e così il figlio è nato con questa macchia a forma di uva sulla fronte.

Dici che è solo questo? E se non fosse così? E se le radiazioni facessero uscire alle persone delle macchie come quella? I tuoi sono stati attenti? I mie no, ho bevuto il latte anche se al TG dicevano di non farlo.

Parli di quella storia della gigantesca nube tossica sopra l’Europa?

Si, esatto. Dicevano in continuazione che non potevamo bere latte ma io lo bevevo e forse ora mi verrà una macchia enorme o perderò i capelli o mi uscirà il sangue dal naso e non si fermerà più.

Non succederà, i miei hanno detto che non succederà niente di quello che hanno detto alla televisione.

Dopo questo scambio di battute Diego si era ammutolito. Lo sguardo era fisso sulla superficie dell’acqua, in particolare su quella parte che aleggiava attorno alle candide caviglie di Willy.

Guarda!

Un corpo viscido e luccicante stava guizzando fra le gambe della ragazzina, era una biscia.

Gesùcristo!

Diego era saltato in piedi sopra il pontile e guardava Willy con gli occhi spalancati e colmi di schifo per quella bestia.

Cosa succede?

Elisa si era sporta verso di loro mettendosi sulle punte per sbirciare la scena oltre le canne, lei e suo fratello erano i rifugiati dell’altro pontile. Elisa fece in tempo a vedere Willy che era riuscita ad afferrare la coda della biscia sollevando il rettile fuori dallo stagno. Poi Willy aveva perso la presa e la biscia era caduta in acqua e tutti e quattro avevano seguito con lo sguardo il nuoto sinuoso del rettile che si allontanava verso il centro del lago.

Gesùsanto! Siamo stati attaccati!

E continuando a gridare in quel modo, Diego era corso via dall’imbarcadero in direzione dei campi. Gli altri lo avevano seguito. Diego era il più veloce fra loro, anche Willy era veloce, ma non come Diego. Diego era fiero della sua velocità. Willy vedeva davanti a sé la schiena abbronzata del ragazzino e i suoi capelli ondulati che come bisce al sole riflettevano la luce sobbalzando. Elisa vedeva, invece, i sottili capelli biondi di Willy e la schiena nuda priva del bikini. Per ultimo veniva Leo, era il più piccolo, quello con le gambe più corte e Leo sapeva che non avrebbe mai raggiunto la sorella e tanto meno gli altri. Perché penare sotto quel sole bollente allora? Leo si fermò e guardò in alto, il cielo sembrava non possedere colore, non era realmente azzurro, forse poteva dirsi bianco, ma era soprattutto il sole a vincere su quel mondo. Il sole accecante piantato in mezzo al cielo bianco e sopra al verde dei pioppi e delle canne palustri.

Aspettatemi!

Quella fu una corsa infinita, lunga come il perimetro del lago e Diego era stato davanti agli altri per tutto il tempo, una ventina di metri davanti agli altri. Willy non era riuscita a raggiungerlo ma era lo stesso allegra. I torsi nudi e sudati luccicavano e le bocche aperte inghiottivano l’aria calda contraendosi per soffiarla fuori dai polmoni sotto sforzo. Lei aveva rallentato e ora osservava Diego correre. Diego aveva scartato sulla destra apparentemente inghiottito dal canneto. Willy, allora, si era fermata del tutto, il cuore sembrava scoppiarle. Elisa e Leo l’avevano raggiunta mentre lei respirava con le mani sui fianchi. Loro non si erano fermati, avevano proseguito correndo infilandosi nel canneto nello stesso punto dove aveva girato Diego. In quel punto il muro di canne si apriva permettendo l’accesso a uno dei pontili usati dai pescatori. Diego se ne stava in piedi nei pressi dell’estremità protesa sopra le acque profonde e teneva qualcosa di strano nella mano destra. Un corpo oscuro, tozzo e informe pendeva dal suo pugno dimenandosi. Sul volto di Diego si era aperto un sorriso beffardo. I bambini lo ammiravano divertiti, fermi a pochi metri da lui. Willy li aveva raggiunti. Il rospo annaspava scalciando goffamente l’aria bollente. Diego cominciò a ridere rumorosamente e anche gli altri risero eccitati. Poi Diego aveva roteato il braccio e dopo tre giri aveva scagliato il rospo verso il centro del lago. Il tonfo cupo di quel corpo informe sull’acqua smorzò la loro eccitazione. Nel silenzio seguito a quel gesto, gli occhi dei bambini osservavano i cerchi concentrici affievolirsi e sparire mentre Willy si domandava dove Diego avesse trovato il rospo.

Tornando indietro, i due camminavano affiancati, le loro spalle si sfioravano. Diego era in silenzio e di tanto in tanto sbirciava Willy. Lei camminava con la testa china, apparentemente intenta a succhiarsi una ciocca di capelli.

Prima sei stato crudele.

Perchè? Per quello schifo?

Era un rospo. E potrebbe essere che non sia sopravvissuto quando lo hai lanciato così in alto.

Ma cosa te ne importa a te?

La ragazzina aveva ripreso a succhiare la ciocca di capelli, a lei importava di quel rospo ma non era sicura che fosse una cosa giusta il fatto che le importasse e così non rispose e in silenzio i due raggiunsero la spiaggia.

Prima del tramonto, le persone raccoglievano i teli da bagno, le borse frigo, la spazzatura accumulata e tornavano alle auto. Il ristoro abusivo spegneva la radio e l’amico di suo zio chiudeva con un lucchetto la saracinesca arrugginita. Il prato della riva tornava privo di umani e la chioma del grande pioppo, ora solitario, brillava dorata alla luce del tramonto rosso.

Quella era la fine dell’estate. L’anno successivo aprirono in città due nuove piscine e un piccolo parco acquatico con lunghi scivoli di vetroresina. Nessuno andò più al lago, nemmeno Willy, nemmeno lo zio, nessuno. Willy si dimenticò di Diego, di Elisa e di Leo, e ciascuno di loro si dimenticò di lei e per molto tempo solo le pesanti vacche bianche attraversarono quella riva e poi nemmeno più loro. Solo la brezza continuò a muovere la chioma del pioppo e le cime delle canne palustri e a diffondere tutt’intorno allo stagno il gracidare delle rane e dei rospi.

 

 

 

 

 

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Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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