Guerra (sillabario della terra # 1)
di Giacomo Sartori
Le guerre sono nefaste per la terra come per gli uomini. Le immagini dall’alto dei campi costellati di crateri delle battaglie in Ucraina sono tristemente identiche a quelle della valle dell’Adige, nella mia regione, nel conflitto di più di cento anni prima. Stesse pustole rilevate sui bordi nei campi coltivati, perfettamente rotonde ma di varia grandezza a seconda della potenza dei proiettili. Le granate e gli obici che non feriscono gli uomini, che per fortuna sono la stragrande maggioranza, lacerano la terra, senza che il danno sia conteggiato. Sprezziamo la terra in pace come in guerra, la consideriamo un semplice substrato per le nostre dissennate azioni. O meglio, tanto più in guerra, dove le campagne diventano terreni per avanzare, appostarsi e affrontarsi: campi di battaglia. Campi per coltivare morti. Nelle pause la terra è adibita a smaltire i cadaveri, riciclando le loro parti putrescibili.
Anche le trincee ucraine fanno pensare a quelle del primo conflitto mondiale, io nelle immagini riconosco i vari strati della terra fertile, la sua vita, sviata a fini di morte. Il mio cervello senza che io voglia fornisce una precisa classe tassonomica. Nella Somme, in Piccardia, dove ho soggiornato di recente con una residenza, la terra è uguale a quella Ucraina, è terra fine portata dai venti del nord dopo la glaciazione. Solo è più chiara in superficie, per il clima più secco e freddo. Dopo l’apocalittico carnaio il ritorno degli agricoltori è stato molto problematico, perché la terra era letteralmente infarcita di ordigni inesplosi, cadaveri, ferraglie. La maggior parte dei pochi locali sopravvissuti si rifiutavano di metterci mano, in quella terra di morte, quindi ci fu un arrivo massivo di belgi, che avevano meno esigenze e meno timore di saltare in aria.
Gli scontrosi immigrati delle Fiandre si sono messi sotto a dissotterrare gli obici, i proiettili, tutti gli altri resti, a strappare metro per metro la terra alla guerra. Per molti decenni, nonostante la presenza costante di armate di artificieri gli incidenti erano frequentissimi, con morti e amputati. Ancora adesso, a distanza di più di un secolo, affiorano grappoli di granate e bombe inesplose. Ancora adesso nei campi si aprono enormi voragini, quando collassano i soffitti dei casamenti scavati nel gesso sotto le trincee che sezionavano la terra portata dal vento. La regione è però considerata uno dei gioielli dell’agricoltura industriale europea. Si tratta di un paesaggio molto contaminato, avrebbe detto lo scrittore Martin Pollack, che ha coniato questa definizione, dopo aver dato la caccia alle fosse comuni in Europa.
In Vietnam la terra è ancora avvelenata dai venti milioni di galloni di erbicidi innaffiati dagli americani per stanare gli avversari, e dalle letali diossine che ne derivano. A cinquant’anni di distanza queste circolano dai suoli ai pesci allevati e alle persone. Sui campi di battaglia gli erbicidi servono a disseccare gli alberi e gli uomini. Del resto gli insetticidi cloroderivati e fosforganici sono stati creati e perfezionati per fini di guerra, prima di migrare all’agricoltura: la passerella della chimica conduce prevalentemente nell’altro senso, dai campi di battaglia a quelli coltivati.
A trent’anni di distanza nell’ex Yugoslavia molti abitanti e bambini vengono mutilati o uccisi dalle mine inesplose che sonnecchiano tra la lettiera, come succede in molti altri paesi della Terra, quella con la T maiuscola. La guerra stermina gli uomini e la terra anche a distanza. Dopo Hiroshima e Nagasaki c’è stata una tregua di ripensamento, per gli impieghi degli ordigni nucleari. Ma saranno usati ancora, e con tutta probabilità molto presto, la terra lo sa bene, sa quanto durano gli effetti. Tornata la pace gli esseri umani sopravvissuti riprendono a vivere, voltano pagina, dimenticando il più in fretta possibile, con baldanzosa caparbia, come ci ha mostrato lo psicanalista James Hillmann. La terra non dimentica.