Quattro romanzi: Amigorena, Erpenbeck, Serrano, Siti
di Gianni Biondillo
Santiago H. Amigorena, Il ghetto interiore, Neri Pozza, 2020, 138 pagine, traduzione di Margherita Botto
Quella di Vincente potrebbe sembrare la storia di chi, nonostante tutto, ce l’ha fatta. Giovane ebreo polacco, emigra alla fine degli anni trenta in Argentina, con pochi soldi in tasca e tanta voglia di fare. Nel volgere di pochi anni apre una sua attività di commercio di mobili, si sposta, ha dei figli. E diventa, naturalmente, istintivamente, un argentino. Un elegante e spensierato ballerino di tango, frequentatore di caffè con altri amici emigrati come lui e come lui felici della loro vita. Solo un pensiero, un rimorso l’attanaglia: aver lasciato madre e fratelli a Varsavia, ma, soprattutto, quello di non rispondere alle lettere insistenti della anziana madre, come volesse togliersi di dosso quell’Europa e quella identità religiosa che gli è sempre stata stretta.
Poi la guerra. E le prime lettere accorate della madre che gli racconta dei tedeschi e del muro che stanno erigendo nel ghetto di Varsavia. In un crescendo di senso di incredulità Vincente inizia a fare i conti con la sua identità di ebreo in fuga, con l’idea che il sangue, le tradizioni, la cultura, lo stigma che perseguita lui e la sua gente – per quanto la distanza dai fatti della guerra potrebbe tenerlo al riparo – lo tengano sotto scacco.
Nulla può Vincente per salvare la madre e la sua famiglia, se non sperare che le rare notizie che giungono dai notiziari siano esagerate, inverosimili, incredibili. Ma noi sappiamo che sono vere; anzi persino più allucinanti di quanto all’epoca si sapeva. E lo sa anche Santiago H. Amigorena, che scrive un breve e intenso romanzo, Il ghetto interiore, che guarda alla Shoà consapevole che non c’è oceano che possa escluderci dal senso di colpa; che possa salvarci da quella frustrante e dolorosa impotenza capace di farci costruire muri mentali dove ghettizzare o ghettizzarci per sempre.
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Jenny Erpenbeck, Storia della bambina che volle fermare il tempo, 119 pagine, Sellerio editore, 2020, traduzione di Ada Vigliani
La ragazzina, poco più di una bambina, viene trovata in stato confusionale in mezzo a una strada, con un secchio vuoto in mano. Viene consegnata alla polizia che non sa cosa fare. La ragazzina è grassottella, goffa, sporca, malvestita e non ricorda nulla, neppure l’età. Verrà presa in consegna in un orfanotrofio. La ragazzina (che non ha nome e non l’avrà per tutto il libro) segue le lezioni in una classe di ragazzini più piccoli di lei, per età e stazza. Non si sa se capisce, se già conosce gli argomenti trattati, se non li ha mai sentiti nominare. Forse capisce, forse non vuole che si sappia che li comprende. È come volesse sparire, non avere ruoli, responsabilità, miglioramenti. Restare così, anonima per sempre, anche a costo di essere sbeffeggiata, maltrattata, esclusa dai suoi compagni.
Chi è la protagonista del romanzo di Jenny Erpenbeck Storia della bambina che volle fermare il tempo? Sembra non interessi a nessuno. Perché nella lettura, non ispira compassione, né attrazione. È un errore, una anomalia, un vuoto di senso, lei e il suo comportamento. Sembra persino non interessi all’autrice stessa che tratta la ragazzina con disinteresse. La sua è una voce anafettiva, compilatoria, crudele nei confronti del lettore che non riesce ad entrare nella mente della ragazzina, esibita nei suoi comportamenti anomali, illogici, incoerenti.
Jenny Erpenbeck, usando una scrittura autistica, distaccata, irritante, scrive la più nera delle fiabe dove nessuno dei personaggi messi in scena, dai compagni di classe ai professori, è capace di portare se stesso o la ragazzina verso una dannazione o una salvazione. Fiaba cupa perché continuamente ricorsiva, soffocante, irrisolta. Come a dire che il mistero umano non ha possibilità d’essere squadernato, che il cupo male che ci portiamo dentro non ha soluzione.
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Marcela Serrano, Il mantello, Feltrinelli, 2020, 168 pagine, traduzione di Michela Finassi Parolo
Non ho mai creduto nella letteratura femminile. Esiste la Letteratura. Punto. Libri scritti bene e libri scritti male, indipendentemente dal sesso o dal genere. D’altronde non ho mai creduto neppure nella “letteratura di genere”. Ogni autore o autrice si porta dietro la sua esperienza, il suo vissuto, le sue letture. Ma non si può negare che, fra le tante cose che ti definiscono, ci sia anche il sesso. Non tanto come specificità biologica ma come costrutto sociale. Non esiste la letteratura femminile ma esiste la letteratura scritta (anche) da donne. E, aggiungo, per ragioni probabilmente sociologiche, spesso i libri scritti da autrici, certi libri, sono capaci di scavare con maggiore profondità nel vissuto di altrettanti libri scritti da autori maschi.
Il mantello racconta un anno di lutto di Marcela Serrano dopo la perdita di una sorella amatissima, Margherita, morta per un tumore col quale ha combattuto, spesso vinto, ma che alla fine l’ha sconfitta. Serrano cerca nella scrittura un modo per superare la perdita inaudita. Cuce, come un patchwork, ricordi, impressioni, citazioni, letture, immagini. Li assembla come in un rito sciamanico che vuole, attraverso i ricordi, cancellare la perdita. Disegnando un ritratto così vero, così impudico, del suo rapporto familiare, che quasi ci si sente usurpatori di tanta intimità.
Non conosco autori capaci di giungere a tanta verità come invece m’è capitato con molte autrici (di paesi e di stili differenti). Ho come l’impressione che gli autori quando devono scoprire le loro ferite lo facciano in modo plateale, facendo delle proprie debolezze un punto di forza, un atto virile. Oppure, di fronte alle meschinità, sono pronti a nascondersi dietro la maschera della fiction (compresa l’autofiction). In autrici come Marcela Serrano il problema non si pone: la fragilità è fragilità, il dolore è dolore, senza trucchi, senza scampo.
Ciò non ha nulla a che fare con “l’emotiva diaristica femminile”. Il mantello è un libro coltissimo, e se all’apparenza sembra fatto di semplici colpi di pennello in realtà è solido e strutturato meglio di tante virili “opere-mondo” autoreferenziali. Letteratura. Punto.
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Walter Siti, La natura è innocente, Rizzoli, 2020, 352 pagine
La storia di due vite, due biografie: Filippo e l’ossessione che lo porta al matricidio a vent’anni; Ruggero e il desiderio di scalare il mondo attraverso la pornografia. Catania da una parte, Roma dall’altra. Niente li accomuna se non essere figli entrambi di un popolo che sembrava aver smesso di esistere nella letteratura italiana. Vite, quelle raccontate da Walter Siti, che ripetono gli errori e le fragilità delle generazioni precedenti, non ostante la “modernità”, quasi che, aggiornati, non ci fossimo mai emancipati dai pasoliniani ragazzi di vita.
Lo sguardo del narratore sembra stare non “al-di-là” ma “al-di-qua” del bene e del male. Non esistono (pre) giudizi ma descrizioni di nuda vita. È difficile capire cosa sia per davvero La natura è innocente. La scrittura muta col mutare della situazione descritta. Si fa saggio sociologico, naturalista, filosofico. Spesso il presente storico ha un intercedere giornalistico, altre volte svenevolezze da feuilleton. Due biografie “appaltate” alle quali si aggiungono variazioni sul tema, digressioni vulcanologiche, agiografie nobiliari distrutte in una sola riga. Siti alcune volte finge distanza oggettiva, altre s’immerge nei pensieri dei suoi veri, e allo stesso tempo inventati, personaggi, all’apparenza protagonisti, in realtà reagenti chimici di una profonda riflessione sulla Natura.
Per comprenderne l’innocenza dobbiamo smettere di sacralizzarla, scrive Siti. Abbiamo creduto di vederne la bellezza, di averla addomesticata. Ma la cultura non regge alla prova della sofferenza. La Natura ci avverte: quando vorrò mi riprenderò tutto. Il destino delle storie straordinarie di Filippo e Ruggero è quello di scemare nell’ordinario. Ineluttabile, per tutti, autore compreso. Perché, alla fine, ogni biografia è sempre un’autobiografia.
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(recensioni pubblicate su Cooperazione nel corso del 2020 )