Il frasario periferico e anarchico di Jean-Patrice Courtois
[Questo testo costituisce la postfazione di Imballaggi, un volume di prose del poeta francese Jean-Patrice Courtois, tradotto da Gabriele Stera e disponibile con testo a fronte per la casa editrice Argo. Il libro include anche un’introduzione di Martin Rueff e fa riferimento al volume più ampio, Les jungles plates (Nous, 2010), di cui Imballaggi è una sezione. Sul sito LPLC alcune delle prose di Courtois.]
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Di Andrea Inglese
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1. È indubbio che, anche nel XXI secolo, e particolarmente in Italia, la pratica poetica paia in gran parte incapace di battere cammini che si pongano al di là del paradigma lirico, quasi che la marginalità editoriale della poesia costringa poeti e poetesse a un gesto difensivo e rassicurante. Alcuni hanno, però, elaborato un punto di vista ben diverso: innanzitutto hanno costruito un dialogo con i paradigmi minoritari novecenteschi, quelli non-lirici o anti-lirici per intenderci, emersi attraverso le varie sperimentazioni che la poesia ha conosciuto il secolo scorso sia all’interno di collettivi d’avanguardia sia attraverso percorsi più solitari. E poi, sempre costoro, hanno deciso di proseguire questo lavoro di reinvenzione della poesia, seppure con più umiltà di quanto avvenisse nelle avanguardie e neoavanguardie del passato. Che si tratti di scelte non ascrivibili solamente a specifiche “poetiche” d’autore, ma a una sensibilità più ampia, è lo stessa vivacità del campo editoriale a mostrarlo. Nonostante l’editoria di poesia soffra di difficoltà non legate solamente a una esiguità della domanda, ma anche alla fragilità della comunicazione e della diffusione, gli anni recenti esibiscono una innegabile baldanza di proposte. Citerò alla buona alcuni titoli: il saggio di Andrea Picozzi Conceptual writing (2018) e la ripubblicazione di tutte Le poesie di Angelo Lumelli (2020) per il verri edizioni; riedizione di eccetera. E (2018) di Luigi Ballerini e l’Opera poetica completa di Adriano Spatola (2020) per Diaforia; Anacronismo di Christophe Tarkos, nella traduzione di Michele Zaffarano, e il saggio di Gian Luca Picconi, La cornice e il testo. Pragmatica della non-assertività, per Tic edizioni nel 2020; Il quaderno cinese di Ron Silliman (2019), traduzione di Massimiliano Manganelli e ZONG! di NourbeSe Philip (2021), traduzione di Renata Morresi per Benway Series. Infine abbiamo il lavoro di Argo libri, di cui è doveroso citare Poesie edite e inedite di Corrado Costa, per la cura di Chiara Portesine (2021), ma anche l’intera opera poetica di Jack Spicer: After Lorca (2018) e Rosario di bugie (2020), nella traduzione di Andrea Franzoni.
2. Ora sempre per Argo, e grazie all’iniziativa di Gabriele Stera curatore e traduttore, possiamo leggere un autore estremamente importante nell’ambito dell’attuale poesia di ricerca francese, Jean-Patrice Courtois. Courtois fa parte di quel drappello di scrittori che sente meno l’urgenza di lasciare la “poesia” dietro di sé, per praticare, secondo le suggestioni teoriche di un Jean-Marie Gleize, una “post-poesia”, un percorso di estraniazione e allontanamento. Courtois persegue piuttosto la via della reinvenzione costante della poesia, e lo fa a partire, innanzitutto, dall’orizzonte più ristretto di quelle che una volta si chiamavano “poetiche” d’autore. In altri termini, la scrittura di Courtois si costituisce per continue scosse e assestamenti da un libro all’altro. Questa irrequietudine formale non è frutto di una consapevolezza manieristica in qualche modo retrospettiva, ma è conseguenza di uno spostamento verso inediti ambiti tematici e linguistici, che richiedono ogni volta una radicale riconsiderazione del genere, dei suoi confini e dei suoi strumenti. Courtois segue qui la lezione di Ponge: è l’oggetto dell’interesse poetico che determina la forma della scrittura, non un codice di genere assunto in modo aprioristico. Lo dice in modo esplicito in un’intervista apparsa sul sito Diacritik nel 2020: ”La poesia è una questione di pensiero e di oggetti di questo pensiero sedimentati nell’insieme della materialità della lingua. Oggetto diverso e presa diversa sull’oggetto, pensiero diverso e operazioni diverse per sostenerla”. A differenza di quanto accade nella linea più iconoclasta della poesia di ricerca, Courtois tiene fermi due termini strategici: “pensiero” e “figurazione” del mondo. In questo modo, ribadisce che le questioni conoscitive ed estetiche sono indissolubili, se non per convenzioni disciplinari e principi metodologici. Questo atteggiamento necessita però una fuoriuscita sia dal paradigma mimetico-narrativo che da quello lirico-poetico. Il lavoro del poeta consiste, allora, non nel farsi testimone della propria esperienza del mondo, ma nel costruire le condizioni per esperienze ulteriori del mondo, in cui lui e il lettore possano trovare una comunanza anche parziale e provvisoria. E questa operazione, che evidentemente avviene nel linguaggio, nella scrittura a stampa, si basa su di un presupposto importante: la figurazione del mondo – ossia la sua possibile comunanza – è un obiettivo politico, rispetto al quale il poeta si trova in una posizione che condivide con tutti gli altri produttori di discorsi e immagini. Poiché il mondo è la sua figurazione – l’unico mondo che possiamo sperare di comprendere e condividere è quello che viene a esistere in qualche forma di discorso e immagine –, la figurazione del mondo è il terreno principe della controversia politica. E in questa controversia anche il poeta ha una “sua” parola da dire.
3. Non è causale che sia il giovane Stera (classe 1993) a portare Courtois in Italia, non solo per la sua frequentazione stretta della scena poetica francese – da espatriato a Parigi – ma anche per proprio itinerario di ricerca che lo ha visto inizialmente emergere dalla scena dello spoken word – nel 2016 è stato vincitore del Premio Dubito. In realtà, per Stera, l’intermedialità funge da precondizione della scrittura stessa. E oggi lo troviamo, infatti, in un’operazione perfettamente intermediale targata Ophelia Borghesan (ossia Luca Rizzatello dopo l’esperienza editoriale di Prufrock spa). In Fini del mondo, Stera ha lavorato sia su testi a stampa sia su testi in forma di sottotitolaggio audiovisivo. Su di un piano teorico, egli s’interessa attualmente, sempre in ambito francese, alle riflessioni e pratiche di scrittura di autori quali Christophe Hanna e Franck Leibovici. Entrambi sono più orientati a situarsi nel territorio della post-poesia già precedentemente evocato, territorio che nel loro caso rinvia soprattutto alle esperienze tardonovecentesche dell’arte concettuale. Il punto comune tra gli interessi del traduttore Stera e dell’autore Courtois è comunque costituito dal rapporto tra scrittura e documento, ed è forse la centralità di questo nesso a riconnettere trasversalmente coloro che si allontanano dalla poesia (Hanna e Leibovici, ad esempio) e coloro che sono impegnati a reinventarla (Courtois ma anche altri autori della scena francese).
Evocare il legame tra scrittura e documento non significa evocare evidentemente una poetica specifica, ma un territorio intorno al quale diversi autori mettono in opera diverse strategie d’intervento (di scrittura ma non solo) a partire dall’archivio, ossia dalla possibilità di disporre di un’ampia quantità di materiali documentari (dai quotidiani a stampa alle banche dati fotografiche). In anni recenti, in parallelo alle pubblicazioni di Théorèmes de la nature (2017) e Descriptions (2021), Courtois ha elaborato un metodo per servirsi del documento e “rigiocare la partita post-collage e post-montaggio”. Sul sito “Le parole e le cose” (11 febbraio 22), grazie alla traduzione di Francesco Deotto, si può leggere un testo “teorico” che l’autore ha dedicato all’uso dell’archivio nella sua scrittura poetica: Immaginare dal documento. Risulta chiaro, in ogni caso, che già all’altezza di Imballaggi Courtois ha cominciato a servirsi dei discorsi già esistenti, delle parole in circolazione, di tutto quel flusso linguistico – ad armatura “ideologica” – che il poeta incontra e capta al di fuori di sé. Imballaggi – ricordiamolo – appartiene a un libro-svolta del 2010, Les jungles plates. Il volume è articolato in cinque sezioni, e ognuna corrisponde a una specifica forma enunciativa: in Mobiles abbiamo una struttura versale, che sembra però evolversi senza soluzione di continuità di pagina in pagina; in Chapeaux, alcuni cappelli dialogano tra loro secondo una sagace metafisica dell’assurdo; in Obériou, una serie di prose brevi, è introdotta da una citazione di Daniil Charms; la sezione finale – Diversions – ha invece la forma perentoria dell’epigramma. Imballaggi costituisce la sezione mediana del libro e si caratterizza per blocchi di prosa a volte assai lunghi, ma che rimangono convenzionalmente ritagliati entro la pagina singola. In questi testi, in modo particolare, è questione per Courtois di addensare la lingua fino all’inverosimile, attraverso un movimento iniziale che ricorda quello del Denis Roche di Dépôts de savoir et de technique (Seuil, 1980). Ma nei testi di Courtois, il lavoro documentario, l’organizzazione stratigrafica dei registri e degli ambiti linguistici, non vuole testimoniare semplicemente di uno spazio di raccolta di materiali in attesa di un’ulteriore trasformazione. I suoi sono depositi costantemente rimescolati, rianimati e riusati fino all’ultima virgola, fino alla particella verbale più elementare. E varrà qui la pena di citare un passo della Teoria estetica di Adorno: “In generale le opere d’arte potrebbero valere tanto di più quanto più sono articolate: laddove non è rimasto nulla di morto, di non-formato; nessun campo che non sia stato percorso dal configurare”. Non inganni, allora, la preziosa sensazione di disorientamento, che si prova alla lettura di Courtois, come mettendo piede in una pasta linguistica informe. La mancanza di punti di riferimento ci obbliga infatti a ritornare sul testo, sulle sue frasi scolpite, assemblate, installate, perché in esso qualcosa di non previsto possa accadere. Magari si tratta di rianimare morte costruzioni verbali, sottoponendole a tensioni e torsioni estreme sia sul piano logico-sintattico che semantico. Il baricentro dell’operazione non è il verso, ma la frase piana, apparentemente lineare, che è portata a saturazione, a “riempimento”, con lo scopo di sperimentare, fino al non-senso e all’opacità completa, la sua “dicibilità”.
Courtois, per altro, ci ricorda che i territori tra poesia e prosa sono continuamente percorribili in entrambe le direzioni, e che più ci si inoltra verso la prosa più ci si addentra diversamente nella poesia, la si reinventa, cancellando margini, aprendo piste, disegnando paesaggi inediti. Ma certo alcuni principi del poetico non sono più pertinenti, quando questo movimento strano tra poesia e prosa è finalmente intrapreso. Come si può ancora cercare l’orecchiabilità, e l’assimilazione metrico-mnemonica? Le occasioni di ricordo sono qui molteplici, ma come sono molteplici le possibili prensioni del lettore. Il governo ritmico è plurale, e le memorie si faranno spazio nell’eterogeneo, per scorci, per ascolti sbiechi, non certo per intruppamento metrico.
Leggiamo a un certo punto in Imballaggi:
Oh frasi del centro-città a funzione di cancellatura! oh false frasi spaziali per occupare spazio! «Viva noi» ognuna di voi dice a se stessa che puzzate marcite impestate in mezzo ai profumi! Narratori indegni di fiducia, le vostre sgassate petroliose e spetacchianti stancano! Frasi a testa di frode, sciò! cuccia per la giusta causa, oh la bella parola causa!
Ecco, come esistono gli “stradari”, il libro di Courtois – e soprattutto la sezione qui presentata – funziona come un “frasario”, ma un frasario periferico, anarchico, che si addentra in un terreno incognito a margine della circolazione ufficiale della parola, quella circolazione supportata dai media di massa – a stampa, audiovisivi, digitali – e sottoposta a svuotamento per abuso o a falsificazione per interesse. Kenneth Goldsmith, nel suo celebre saggio del 2011, Uncreative Writing: Managing Language in the Digital Age, ricordava come l’immane produzione linguistica resa possibile dal mondo digitale non ha precedenti nella storia. Bisognerebbe, però, anche precisare quanto poveri siano i modelli di frasi, che generano quest’incalcolabile quantità di riproduzioni. Un libro come quello di Courtois, allora, funziona anche come esperienza, per contrasto, di questa povertà di prototipi enunciativi. Il suo fraseggiare arduo, oltranzistico, fino alla rottura logica e al non-senso, scava sprofondi dietro il nostro sempre uguale e “democratico” blaterare.