Non siamo mai stanchi
di Fausto Paolo Filograna
Vecchio Volto di Pietra, guarda:
Non si possono più pensare le cose cui troppo a lungo si è pensato! Cazzo!
W.B. Yeats
Da alcuni giorni ormai avevamo imparato a leggere gli orologi e il cosiddetto tempo. Quelli digitali, con le cifre indicate da alcune barrette luminose, che indicano le ore con una coppia di cifre alla sinistra, e, dopo due puntini o uno spazio vuoto, i minuti con una coppia di cifre sulla destra (questi erano così semplici da leggere che non c’era nessun merito a saperli leggere). Poi quelli analogici, molto più difficili da decifrare, con cifre disposte su un cerchio — che potevano essere dodici, quattro, o addirittura, come presto imparai, zero — e delle lancette a indicarle, una per le ore e una per i minuti — che in quest’ultimo caso orbitavano nell’universo del quadrante senza riferimenti come scie nello spazio profondo. Di questi orologi, nonostante la tecnologia avanzasse con la velocità di una slavina, era piena la mia casa.
Ogni stanza aveva il proprio, come in previsione del fatto che in ogni stanza prima o poi qualcuno avrebbe chiesto “che ore sono?”, oppure, “quanto manca?” — come in previsione di un dolore o una festa, un dolore o un macello. Ma era poi così scontato che ogni risposta fosse vera? All’epoca, dirò, capitava che mia madre dicesse arrivo alle otto e io, che sapevo leggere gli orologi, constatavo che alle otto non c’era: ed era vero sia che erano le otto, alle otto non c’era sia che lei non era ancora arrivata, e quindi l’orologio doveva essere rotto e io ero una bambina sola. Adesso ciò che mi sconcerta è quando qualcuno chiederà “quanto manca?” — e qualcuno lo farà. Allora tutto dipenderà da quando la sua domanda verrà posta, anche la verità.
L’ultimo orologio arrivato era un regalo di compleanno fatto alla famiglia, cumulativamente per il compleanno di ciascuno di noi. Lo aveva fatto mia sorella appena sposata e andata via di casa incinta, con numerosi problemi coniugali. Ci aveva dato un bel pendolo, coi numeri romani, e in cuor suo, dato il costo apparente di quell’aggeggio, era un messaggio ai nostri genitori che diceva: oh, non preoccupatevi più della mia situazione economica, finalmente i regali sono io a farli — anch’io ho poi per anni avuto la certezza che l’essere adulti consistesse solo nel passare dall’insieme di quelli che ricevono i regali a quello di coloro che li fanno. Ora so che se il bambino pensa di possedere tutto ciò che ha intorno, e non possiede nulla se non spiritualmente — e quindi può solo ricevere; l’adulto, invece, possiede solo poche cose — materialmente — ma ciò non comporta alcuna differenza col bambino: se io qualcosa ho posseduto, allora come adesso, sono le mie ossa e i miei pensieri, che finché vivo non posso donare — e anche quelli non sono che una concessione per qualche anno, i quali, se Dio lo concederà, sarà proprio quel pendolo a segnarli, i miei anni, dico.
Sono stata peccaminosa a non dire quante volte nella noia dei pomeriggi senza mia sorella, che come ho già detto ci lasciò per suo marito, io l’ho tirato giù, e l’ho aperto, con immensa facilità, perché non era che un’anta di legno che si apriva come un libro, ma vuoto. Vuoto, dicevo, perché il pendolo, posizionato dietro un vetrino di plastica, non era che un meccanismo posticcio, di veduta, del tutto inutile, tant’è che dentro sembrava una qualsiasi volgare sveglia, incollata ad una scatola di legno dagli intarsi preziosi e baroccheggianti. E io ora so, anche se non so esattamente quale, che anche il suo vuoto doveva avere un valore. Perché quando restavo sola lo tiravo giù e lo aprivo fingendo guasti o per zelo, per fare delle immaginarie manutenzioni. Una volta sognai di aprire così mia sorella come un’anta e di trovare nel suo pancione gli angoli bui e vuoti di quella scatola di legno.
Ma ciò che sto per dirvi — ora che sono meno di un corpo asciutto e spossato, un frammento del cazzo che scaccia le mosche con l’ultimo fiato — so che non mi rivelò niente, nemmeno in piccola parte, dei misteri del cosiddetto tempo — quando uno è così malato, tutto diventa solo cosiddetto, e il tempo un cosiddetto tempo.
Il mio migliore amico era Giovanni. Il pomeriggio, quando venivano le cinque, entravo nella camera dei miei genitori dove era ancora tristemente collocato il mio letto, e cominciavo a prepararmi per la Santa Messa. Guardavo la TV sempre con meno attenzione, giocherellavo col telecomando, coi calzini, li toglievo e li rimettevo prendendoli dalla punta, poi il mio pensiero creava un flusso plasticoso che uscendo dalla finestra sorvolava il paese e arrivava nella camera da letto dove anche Giovanni stava cominciando a prepararsi per la Santa Messa. Allora, spiritualmente, ero pronta. La campana della chiesa aveva suonato una volta, e quando suonava mi riportava alla mia longeva abitudine, ovvero alla vita — non sono tutte le cose, compresa la vita, forme di abitudine?
Cominciavo a prepararmi ciondolando tra le mura di casa dei miei genitori, dove tutto era mio. Accarezzavo le librerie nei corridoi, prendevo in mano le foto dei vecchi morti dalle loro cornici. Alcune librerie avevano degli specchi sugli scaffali, nei quali a turno mi vedevo tra Tolstoj e Brönte, e tra le facce dei morti nelle foto. Poi mi lavavo, e quando uscivo di casa, ero come una a cui un elastico era stato legato e tirato sempre più forte, e tutti i movimenti gli erano costati sempre più fatica, finché non ero fuori, dove non mi apparteneva niente e i miei genitori non c’erano più e diventavo leggerissima e camminando non facevo rumore.
L’enorme ingresso posteriore della chiesa si apriva con grande sforzo per far entrare i bambini. Mi genuflettevo e cercavo mia nonna. Lei era seduta al solito banco, oppure no. Sorrideva se andavo a messa. Quando era seduta voleva dire che stava bene, e le andavo a dare un bacio — per siglare che ero lì — e mi recavo verso la sacrestia per indossare la mia vestina bianca, con la consapevolezza di entrare nella salvezza negata a tutti perché esistevo solo io. Giovanni era lì che indossava già la sua veste, e al massimo riempiva le boccette di vino e di acqua per la funzione, oppure svuotava l’acqua dei fiori in un tino nero. Poi, quando ero vestita anche io, ci sistemavamo il colletto bianco a forma di mezzaluna sulla nuca. Gli altri bambini e i loro nomi non me li ricordo, ma ci sistemavano il colletto e noi a loro, specie a chi aveva sotto una maglia col cappuccio — in questo caso dovevamo infilare il braccio nella veste per schiaccialo il più possibile perché non facesse l’effetto di una gobba. Ma i ricordi di Dio e della sua cosiddetta casa sono così dolorosi che alla fine non ricordo che il marmo bianco dappertutto, il dolore alle ginocchia e lo sguardo della nonna. Ricordo che servivo la messa e tutte le cose, i paramenti e il basalto e la voce patriarcale dei vari parroci che si avvicendarono nella mia infanzia, una sfilza di don Arnaldo, don Antonio, don Ludovico; tutti loro creavano una guaina attorno i miei organi, come una busta che non mi faceva respirare, e pure loro era la mano che la stringeva, e mi impediva di ridere come una pazza nel silenzio siderale dell’enorme cosiddetta Casa di Dio. O forse dovrei dire Casetta, o Capanna. Un’asfissia dal senso ambiguo, dicevo. Un dolore generale. E ora, come adulta so che solo due sono le possibilità: l’avere un senso e il non averlo. Il resto appartiene a mondi senza parole. Non parlerò del senso di quel dolore (il dolore non ha mai senso), ma della sua fine e di come la mano lasciava la busta per farmi ridere.
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Alla fine della messa io e Giovanni uscivamo dal portone davanti, svoltavamo a sinistra, percorrevamo una salita, salivamo alcune scale e ci avvicinavamo a un posto molto più sacro della chiesa, nonché, se è vero che la sacralità si misura in altezza, molto più in alto di questa. Salendo alcune scale ripide e limpide, oscurate da alte pareti di roccia calcarea, nel segreto e nell’umido del colle salivamo fino a vedere tutto il paese, malilluminato, le luci delle case le cui porte sono già tutte chiuse per la notte, e davanti a noi la chiesa. La chiesa e il suo orologio vicinissimi, ora, questo come un fratello gigante, ghiacciato; noi ne misuravamo l’altezza con la mano sulla fronte. Sembrava che nessuno potesse sapere quando eravamo lì, che fossimo in una tasca di Dio e invece proprio le leggi di mia madre avevano reso quel posto l’unico in cui io e Giovanni potessimo stare a giocare. Lì, diceva, potevamo leggere l’orario a qualunque ora della sera. Lì eravamo costretti dalla sua sicurezza, che non può essere che una sicurezza abominevole e malsana, dalla sua preoccupazione, che quando il divieto del tempo era superato saremmo tornati a casa, prima che il mondo delle cose reclamasse la mia estraneità. Lunare, illuminato per tutta la notte l’orologio della chiesa scortava i miei pensieri e quelli di Giovanni, senza il minimo rumore, come un dio tranquillo.
Dio, aiutami a descrivere questo posto, non per lo sforzo, ma per la gioia, per la gioia. Era, il posto, solo una piccola corte scavata nella roccia, rientrante di tre lati rispetto alla strada piastrellata, come una stanza ricavata nel paese, senza un lato e senza il tetto: due case bianche e abbandonate perimetravano due lati, coi loro portoni verdi malchiusi, come le facce degli apostoli nelle deposizioni — tenuti bloccati da lunghi catenacci e dai loro doppi giri; l’erba, lì, cresceva a ciuffi alti tra le piastrelle messe dagli operai dimostrando che il paese non era dell’uomo. Al centro c’era una cabina elettrica semiaperta, grigia giorno e notte, come se il suo colore non potesse cambiare né con la luce né con le stagioni, con l’anta pericolosamente semiaperta e un grosso catenaccio utile a dissuadere solo esteticamente gli avventori come i colori degli insetti più minuscoli e indifesi. Tra i ciuffi d’erba le leve dell’elettricità del quartiere erano tutte scoperte, e forse, pensavamo noi, con un certo sforzo la cabina poteva essere aperta del tutto, e, il paese tutto, spento. Chissà perché nessuno ci aveva mai pensato.
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Ho già detto che il mio peccato è la dimenticanza. Ma la memoria riguarda il mio corpo e dunque la mia vita attuale. Quando io ricordo io vivo, o rivivo, proprio nel mio corpo — come una zanzara, morta, attraversata da una scossa elettrica rivive il movimento. Non c’è memoria se non nel corpo, Signore, e io ora non ho e non sono che quello, ovvero una lingua e due arcate di denti, una lingua e due chiostre di sedici denti ciascuna, e il resto è perso chissà dove nel cosiddetto tempo, e solo ciò che è rimasto — una lingua e due arcate di denti — ora ti parla da chissà dove. Ma io rivivo, rivivo le mie ossa di bambina, la mia schiena appoggiata ai muretti, i colori della sera che mi accarezzano le cornee, il leggero calore del gomito di Giovanni sul mio, i rumori della casa del Giudice rivivono come bagliori nei miei neuroni. Perché terminata la funzione io e Giovanni, nella nostra cosiddetta stanza, ci accucciavamo sotto la finestra di cui solo la mia schiena e le mie orecchie sanno qualcosa: il terzo lato della nostra camera senza soffitto era la casa del Giudice. Seduti col sedere per terra e le spalle sulla sua casa, con la pelle fresca d’estate, parlavamo sussurrando sotto un’ampia finestra aperta, che lasciava uscire il vociare di una TV attraverso una grande zanzariera posizionata a non più di un metro da terra e a un centimetro dalle nostre teste. I nostri racconti, le nostre storie avvenivano lì, a ridosso della casa del Giudice e del suo fratello pazzo, e dei rumori che questo produceva, e che uscivano senza ostacolo. Noi guardavamo alcune immagini di cani che cadono sullo schermo del telefonino di Giovanni e ridevamo, parlavamo di scene immaginarie come la caduta del parroco o dei vecchi in generale e ridevamo. Dentro sicuramente si sentiva tutto. Noi sentivamo la TV, i gemiti del fratello del Giudice e le parole gentili della Nuora. Volendo dirla da scrittori — e perché no? — eravamo appoggiati a una specie di balcone shakespeariano, per cui gli attori fanno finta di non sentirsi e parlano da soli, ma non è così.
All’ora di andarcene, ci alzavamo da terra e urlavamo al fratello del Giudice pazzo, pazzo, pazzo e dietro la zanzariera alcune ombre si animavano, si gettavano sulla zanzariera come esseri dentro giganti ecografie, disperdendoci nella notte.
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La maggior parte degli abitanti del paese diceva che la casa era del Giudice, l’altra del fratello. Ma questo generava una certa incertezza. Alcuni la chiamavano la casa del pazzo e altri la casa del Giudice. In realtà a nessuno interessava la casa. Quella interessava solo ai vecchi, perché avevano conosciuto il padre di entrambi e il suo mestiere: poi negli anni erano stati buttati a terra il bancone, gli scolatoi, i rubinetti, portati via ganci, corde, messi via i pannelli che reggevano i coltelli, lavate le fessure del pavimento con la candeggina e riverniciato con cura ogni angolo, ma per i vecchi quella casa rimaneva il Macello.
Dicevano che il Giudice lo tenesse in casa con sé e sua moglie per amore, e che non avrebbe voluto nient’altro per lui, tantomeno l’idea di internarlo lo aveva mai toccato in vita sua. Così è l’amore alcune volte, specie tra due dissimili. Dicevano: il macellaio ne ha fatti due e due devono restare.
L’amore difficilmente ha conosciuto forme così alte tra dissimili di questo genere. Alto e possente il Giudice e incredibilmente basso il fratello. Il Giudice era sempre vestito con abiti leggeri; persino d’inverno era difficile vedergli non dico un cappottino di lana, ma addirittura una giacca, qualcosa per coprirsi gli avambracci, come se un caldo magmatico lo torturasse di continuo, oppure, io penso, lo costituisse. La privazione dalle cose inutili lo aveva portato a una solidità che si riferiva anche alla sua temperatura, al suo corpo tremendo, e della sua equità — che vuol dire potere — si parlava spesso in paese così come della sua corporatura: monolitica, omerica, l’una e l’altra. La sua testa glabra, la mancanza di sopracciglia e barba, ma soprattutto di ciglia, nascondeva pensieri di una sicurezza tale che nessun pelo avrebbe potuto intaccare. Ora le mie fantasie di malata mi danno l’idea di un uomo composto da un unico materiale: se stesso, uguale in tutte le parti del corpo, senza giunture, muscoli, organi ma Giudice in ogni parte.
In una notte invernale, dicono, era stato visto guidare nudo all’interno di una vecchia Panda, nella sicura speranza di non essere visto, verso le strade di campagna che portano alle scogliere. E forse più di una notte, dato che in molti dicono di aver visto questa scena, in numerose zone della campagna buia, e ovviamente dicono anche che pioveva, e che erano sicuri che dietro il volante ci fosse proprio la sua testa nuda — e nudo persino il suo corpo pantagruelico, e le sue carni giganti.
Da piccolo, diceva mio padre, portava i quarti di maiale in spalla, dalla valle del paese fino al Macello, e non sudava; lui di qua, sulla sinistra, e suo fratello di là, sulla destra, agganciati per i gomiti per bilanciare il peso verso l’interno, come in uno specchio, senza la minima goccia di sudore, i polpacci glabri scintillavano — diocane, diceva mio padre, pensando al ragazzino. Addirittura quando per arrivare al Macello si prendevano strade strettissime, utilizzate al tempo delle devastazioni degli arabi, e non si riusciva a camminare appaiati, anche lì, col suo quarto di maiale, avresti potuto vedere solo la scia del sangue, ma non una goccia di sudore dalla fronte, dagli avambracci.
Se rientrava presto ci nascondevamo per vederlo passare: prima di entrare si appoggiava alla cabina elettrica, riprendeva fiato e poi proseguiva. Aveva certe volte un grande e nero giaccone di pelle con le maniche tranciate sotto il gomito, opera probabile di un vecchio attrezzo del Macello, con cui doveva aver liberato qualche nevrosi per farla uscire dal buco slabbrato delle maniche.
⁂⁂⁂
Signore, ascoltami, mentre ora ti dico come ricordo quando giocavo con il pallone davanti alla mia casa, con tanti bambini di cui vedo le ginocchia appuntite dalla corsa o dal volo e nessun dolore per ciascuno, e quando qualcuno tirava la palla tutti correvano giù per la discesa della collina come biglie in un imbuto, urlando tra le auto che “è tardi!” e nella luce appena accesa dei lampioni io li guardavo scendere e gridare a tutti i passanti “non siamo stanchi”, “non siamo stanchi” e poi anche io mi precipitavo con le scarpe che si slacciavano nella corsa e la giacca che si sbottonava, tanto eravamo folli come girandole
“tu sei stanca?”
“chi?”
“torniamo, prima che arrivino i nostri genitori?”
“oggi non torneremo!”
“e poi?”
E c’era sempre vento, e i nostri giubbotti erano tutti aperti e le cerniere si toccavano tintinnando, spargendo i desideri come cade la polvere delle falene quando si alzano in volo, fino al muro in fondo alla valle.
Se il ricordo è l’unico mezzo per la redenzione e il perdono, Signore, allora il ricordo è preghiera.
Quel giorno raggiungemmo il nostro solito posto con Giovanni, sudati e per mano, seduti sotto la zanzariera del Giudice sicuri di essere colpevoli. E io dissi:
“Io è da quando sono piccola che soffro, non mi piace la vita”
E lui non rispondeva.
“Ho sentito la mamma dire che la vita e il dolore nascono insieme, che il dolore prima della vita o dopo la vita è impossibile, e quindi la vita è il dolore”
E lui non rispondeva.
“Era di là nella cucina? Eri di là nel soggiorno?” diceva
“Non me l’ha detto, io l’ho sentito, nel suo alito. Mentre faceva le cose, nell’ordine in cui faceva le cose, nell’ordine delle cose disposte sulla cucina, in come aveva messo i piatti e la scopa, e nell’ordine in cui disponeva le cose per mangiare e in quello del tempo in cui mi lasciava da sola ed usciva e quello in cui ritornava; e quando se ne va, ecco: se n’è andata ed è rimasto un solo ordine. Ogni altro ordine crollato, ogni universo finito, per farne nascere uno solo e le sue regole, ogni volta, e restiamo soli Giovanni”. E neanche noi parlavamo con le parole ma con l’ordine in cui facevamo le cose.
Ma Giovanni non riuscì a dire che è falso, e ci stringemmo tra di noi e facemmo sguardi rapidissimi. Passò il tempo, e quel giorno, e altri, e ogni giorno più o meno prendevamo un biglietto e scrivevamo: la vita e il dolore nascono insieme. La vita è dolore. E ne prendevamo un altro e scrivevamo: la vita e la gioia nascono insieme. La vita è gioia. E forse non importava poi tantissimo che fosse vero o che fosse falso, come potevamo credere che era vero o falso? Scrivevamo solo su un lato e lo ripetevamo ad alta voce. Certi eventi, avevo la sensazione, quando sono accaduti, quando si è saputo insomma che i genitori sono succubi di tale legge divina, o addirittura sono demoni e emissari di quel tale dio che fa sì che siano vere o false le cose, questi eventi insinuano il dubbio che i genitori non abbiano niente di rassicurante, e viene paura persino di dormire nei loro letti, quando questi eventi sono accaduti. E si insinua il dubbio secondario che tutti i genitori del mondo siano a quel punto di questo genere, se lo è stato uno, e allora ogni genitore è nemico dei propri figli, e ogni figlio si sentirà sicuro quando sarà da solo. Uno di quei giorni presi il mio letto, che era ancora stretto nella camera dei genitori, e cercai di trascinarlo verso la stanza dove dormiva mia sorella. Mio padre mi fermò e io non seppi che dire.
Quando un giorno, ripetuta messa della conoscenza e della fratellanza mia e di Giovanni – e chi potrebbe essere diventato mio fratello se non chi avesse la disposizione giusta per conoscere le cose insieme a me – e chiestici
“È vero? È vero?”
“È falso? È Falso?”
sentimmo una voce uscire dalla zanzariera. Una voce, dicevo, che fluiva dalla zanzariera e ci solleticava i timpani elastici e spugnosi.
«Non bisogna credere che è vero, bisogna solo credere che è necessario. Parlo per esperienza, bambini, dietro le palpebre io ho visto, e ho visto chiaramente. Uno che ha visto dice cose vere? Chissà. Eppure è importante che vi dica. Un giorno mi diedero il caso di un uomo il cui crimine era troppo grande per ricordarlo — non voglio certo passare il mio tempo a ricordare le violenze del mondo, anzi, meno ne ricordo e meglio sto — per questo il carcere era diventato la sua nuova casa, e poi la sua nuova abitudine, e poi la sua natura e quindi la sua vita. Ma sentirete quanto la storia diventi interessante, e allo stesso tempo come mi inizierà a tremare la voce e la mascella al ricordo.
Un giorno gli dissero
“Dì che sai di essere qui, in carne ed ossa”
e che in questo caso lo avrebbero liberato dalla prigione in cui stava da oltre quarant’anni, incappottato come un cacciatore di montagna e rifiutando persino le posate che gli offrivano.
Quando glielo dissero non si mosse dalla sedia, dove regnava composto con le braccia sulle ginocchia, col cappuccio severamente tirato giù, né tremò alla voce dei due secondini che gli avevano sussurrato all’orecchio l’affare
“Devi solo dire che sai di essere qui, in carne ed ossa”.
Pensò che era fatta e nella sua mente si fece luce.
Pensò “ora mi alzo da questa sedia e dico loro che so di essere qui in carne ed ossa: io conosco persino le cuciture del mio cappuccio quando mi cala sugli occhi e le ciocche dei miei capelli, quando vanno di qua per il vento e quando restano ferme se non c’è il vento, e conosco le stelle anche se non le vedo e le scritture e le leggi di ogni uomo e ciascuno dei prigionieri con me e il peccato di ciascuno e si può dire che io li giudichi con certezza”.
Ma la cosa gli parve immediatamente intollerabile.
Dire che sapeva, innanzitutto, cosa voleva dire? Non valeva la pena nemmeno pensarci, tanto era difficile. Allora, dato che i secondini non gli sembravano brillare certo per acutezza, pensò che forse era meglio dire loro che nel suo cervello c’era l’idea che lui era proprio lì, in carne ed ossa. Davanti al loro alito fresco, allora, doveva solo dimostrare che le persone hanno le idee, e poi di avere un cervello. Ma improvvisamente si ricordò della grandezza di quella prigione e del suo crimine, dei suoi corridoi pressoché infiniti, e come uno sparo gli venne in mente che il suo cervello, indubitabilmente presente, né lui, mai, né sua madre o suo padre lo avevano mai visto. Mai, mai e poi mai,
“Dopo tutta questa vita — disse cercando l’orecchio dei secondini, che avevano tutta l’aria di scrivere su un foglio — dopo tutto quest’essermi pensato, dopo tutto quest’essermi esaminato, spulciato e per così dire elencato. Dovrò spaccarmi il cranio per dimostrare che ho un cervello e in esso l’idea di essere qui in carne e ossa? In carne e ossa, poi, il colmo, pensò, poiché le mie ossa non le ho mai viste nemmeno una volta. Dovrei tagliarmi la pelle, e poi i muscoli?”.
Il tempo era passato, i mesi sono come un soffio per i secondini che scrivono e scrivono, e forse anche il termine mesi non vuol dire proprio niente in questi posti, perché ciascuna parola, lì, non corrisponde che ad altre parole senza oggetto. Si mise in piedi, camminò e pensò: se cammino devo avere le ossa. Cosa può fare un grande pezzo di pelle se no? Cosa potrei fare se fossi fatto solo di pelle? Sarei come una palpebra, una busta. A grandi distanze gli altri detenuti, dietro grandi mura mangiavano e rifacevano i propri letti, cacavano e si raccontavano barzellette. Come avrebbero fatto senza ossa? Pensò agli atlanti di anatomia illustrati che le zie gli mostravano da bambino: sotto la pelle di tutti gli esseri umani ci sono le ossa, ma perché dunque anche la mia? Perché dunque anche la mia? E se fossi fatto di plastica pensò? Se dentro di me delle fibre di plastica dessero forma al mio corpo?
Ormai il tempo non produceva più nuovi ricordi nella sua mente, poiché era vecchio e le sue giornate uguali e i suoi pensieri gli stessi. Si chiese allora se qualcuno l’avesse mai visto. E si disse: finalmente saranno i secondini, che mi guarderanno e mi confermeranno che mi hanno visto qui, in carne e ossa, saranno loro a liberarmi. Ma si ricordò della grandezza di quella prigione e del suo crimine, dei suoi corridoi pressoché infiniti e questa certezza si impossessò di lui come un colpo di fucile si impossessa del buco che produce in un petto. E si disse: “Ma se mi chiederanno se per caso io non sia qualcuno che, somigliandomi terribilmente in tutto, mi abbia sostituito questa notte nel letto, entrando con le sue scarpe uguali alle mie, quelli come faranno, con il sospetto che io non sono io, a dire che hanno visto proprio me?”.
Pensò a quanto siano folli le persone… Ognuno va a letto con la propria moglie o con il proprio marito, e la mattina è convinto che quella sia la stessa persona della sera prima. Ah, pensò, se chiedessi loro: tu dormivi, è così? E come fai a sapere che sia la stessa moglie di ieri? Come puoi saperlo ogni mattina? Come dici io so ogni mattina? E mentre diceva questo, tenendo stretto il polso di un secondino febbrilmente, e sentendolo incredibilmente duro nonostante con la mano continuasse a scrivere e a scrivere, pensò: anche lui non avrà che ossa di plastica? “Anche tu, gli disse, anche voi, stringendo sempre più il polso ora anche dell’altro come un ramo che non si piega, non siete più quelli che mi chiesero di dire che ero qui in carne ed ossa? Siamo sull’orlo di un fosso, la colpa ci percuote, la mannaia del giudizio ci cala sulla testa fin da quando sappiamo parlare”.
L’uomo, dicono, pronunciò queste e poche altre parole nella notte seguente, ma nel silenzio e nel deserto della cella, così nessuno sa esattamente cosa disse, prima di avere la libertà. Ecco come ebbe la libertà: del suo corpo e nient’altro, trasportato la mattina dopo prima della sveglia degli altri detenuti, in una sacca gialla, fuori, il suo corpo libero dalle parole, ora che non ne aveva più. Neanche sui bigliettini ormai i suoi occhi avrebbero riconosciuto le parole, e se avesse avuto davanti i vostri, di bigliettini. I suoi occhi non sarebbero più consci di uno specchio davanti al quale si pone un foglio scritto. Aveva la bocca ma non le parole! E allora le parole dove stanno? Nelle leggi? In cielo? In dio? Nei vostri padri e nelle vostre madri? Nelle loro parole?».
Io smisi di stringere la mano di Giovanni, perché mi formicolavano le dita. Come un affogato che riemerge e vede il sole, ecco il gigantesco orologio alto nel cielo, illuminato da un alone luminoso, e quell’alone era la mia rabbia, la mia furia, la chiesa, tutto il paese si reggeva sulla mia grande rabbia, pensai, i formicai sotto di me, le piastrelle, le cantine, i palazzi diroccati, il campanile, i fiumi sotterranei, i movimenti geologici. E il campanile era così luminoso da infastidirmi gli occhi. Allora presi dallo sconcerto io e Giovanni, con una strana nebbia nel cervello — quella che di solito circonda le cose alte, i pensieri filosofici, il sole prima delle bufere — raggiungemmo la cabina elettrica e ognuno prese tre leve per ogni mano, e spegnemmo tutto insieme e finalmente, stanchi della luce, infastiditi dalla luce, per la prima volta, fu buio su tutto il paese, finalmente fu buio l’orologio. Fuggimmo, senza dire niente, come un branco di mosche.
“torniamo, prima che arrivino i nostri genitori”
“oggi non torneremo!”
“e poi?”
Ora la mia bocca sta da qualche parte su un letto, e noi siamo sull’orlo di un dirupo, siamo sempre più colpevoli e malati, sempre più colpevoli e rotti. Da quel giorno non baciai più mia madre né mio padre. E poi venne a piovere, e venne l’inverno, un inverno del cazzo.
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