La casa e l’elicoide
di Mario Temporale
La casa di nonna Natalia era una delle case del bambino quando ancora era bambino e nient’altro. Era grande, troppo grande per affezionarcisi, e stranamente vecchia.
Il bagno era in cortile, o meglio la casa aveva dei rubinetti per lavarsi e anche un lavatoio di pietra per i piatti e il bucato, ma il gabinetto era in fondo al cortile, in una stanzetta minuscola vicino al letamaio e prima della stalla dove vivevano due mucche.
La casa di nonna Natalia era solo un’altra casa dove il bambino era di passaggio, ma era più gentile delle altre perché il bambino si sentiva libero. Nessuno badava a lui, anche se era solo un bambino. Si sentiva un bambino giudizioso. Non voleva contrariare gli adulti perché sapeva che nulla li rendeva più nervosi di un bambino che li contrariava. Gli adulti nervosi hanno paura di perdere qualcosa, di perdere le macerie luccicanti che hanno trovato quando hanno lasciato l’infanzia, e per questo possono diventare aggressivi.
Il bambino voleva evitare di rendere gli adulti nervosi, ma per qualche ragione nella casa di nonna Natalia le cose apparivano più semplici, anche evitare le paure degli adulti pareva più semplice. Forse nonna Natalia era più adulta, un oltre-adulto, e non si lasciava turbare dai bambini, da lui in particolare. Lo lasciava giocare e amministrare il suo tempo a piacimento, doveva solo avvisare dove andava se usciva di casa, ed essere puntuale per il pranzo e per la cena. Il bambino era sorpreso ma anche confuso, avrebbe voluto che la sua casa fosse come quella della nonna, dove non doveva preoccuparsi di contrariare gli adulti, o di trovare modi per difendersi dalle loro paure.
Il bambino era un oggetto allo stesso tempo fragile e potente, con la sua sola presenza poteva indurre l’adulto a pensarsi debole e inutile. Quando ciò accadeva l’adulto era pericoloso. Nella casa di nonna Natalia il pericolo non era percepibile, ma il bambino sapeva che quella non era la sua casa, non lo poteva essere. Quella che era la sua casa non era accogliente come questa, però era un luogo a cui il bambino si stava abituando e forse affezionando perché c’erano i suoi giochi. Il bambino temeva che se fosse rimasto in questa casa avrebbe perso tutto ciò. La casa di nonna Natalia era un luogo di passaggio anche perché non conteneva i suoi giochi, quelli rimanevano nella sua camera nella casa dove viveva coi genitori. Perché non si poteva avere entrambe? Perché non ci si può sentire a casa dappertutto?
Nonna Natalia parlava poco, e il bambino non era abituato a fare domande agli adulti. La nonna parlava la lingua dei genitori, forse quella del telegiornale non la conosceva, perché non la usava mai. Col tempo il bambino imparò quella lingua, anche se non era sicuro di poterla parlare e in cuor suo temeva di fare una cosa sbagliata parlandola. Se fosse stata una cosa giusta i genitori l’avrebbero usata dal principio con lui, invece di cercare di domare la lingua del telegiornale.
La nonna non aveva di questi pensieri, era un oltre-adulto, e a lui stava bene così. Un oltre-adulto parla poco, quasi niente, perché non possiede parole o forse ne possiede troppe. Il rapporto tra la nonna oltre-adulto e il bambino era fatto di silenzi, e forse anche per questa ragione sembrava funzionare. Però delle domande il bambino ne aveva. Aveva molte curiosità e le teneva per sé, confidando che un giorno si sarebbero, così, per magia, improvvisamente svelate. In qualche modo avrebbe trovato risposta a tutti i suoi dubbi.
Un giorno vide la nonna seduta al tavolo intenta a scrivere una lettera. Aveva sgomberato accuratamente il tavolo, e passato la tovaglia cerata con lo straccio per eliminare ogni possibile macchia d’unto. Aveva tolto bicchieri e il posacenere, e aveva aperto una lettera della figlia emigrata in Australia.
In alto, sulla parete a lato del tavolo, campeggiava una fotografia incorniciata dei genitori del nonno, degli ultra-nonni. Era una fotografia insolita, perché era grande come un quadro, incorniciata artisticamente come un quadro, e appesa con il lato superiore scostato dal muro di alcuni centimetri. Gli sguardi della coppia di vecchi eleganti, serafici e autoritari, incombevano su tutti come un altare dorato. Più che una foto di famiglia, pareva la foto di un despota temuto e di sua moglie, un Checco Beppe di provincia o un visconte dimezzato.
Sotto gli occhi dei vecchi padroni di casa, da lungo tempo defunti, la nonna, con indosso gli occhiali che di solito tirava fuori solo per leggere le necrologie nel giornale locale, e in mano una penna bic nera, appariva concentrata come non l’aveva mai vista. All’arrivo del nipote, la nonna mise via le carte e la penna, e le infilò nella dispensa, in uno scomparto che conteneva cose di carta che di solito ai bambini non interessano.
Il rapporto con la figlia emigrata appena maggiorenne in Australia era la cosa più cara e dolorosa che la nonna avesse. Era un legame speciale, molto diverso da quello che aveva con gli altri figli. Tutti i genitori hanno un figlio prediletto, ma di solito non vogliono che si capisca chi è. Nell’ambiente contadino in cui era vissuta la nonna, vigevano altre regole. Quella figlia nata presto e partita troppo presto, era una presenza speciale anche se viveva a quindicimila chilometri di distanza, dall’altra parte del globo. E poi chi era partito, ed era rimasto nell’emigrazione, era sempre più importante, agli occhi di un genitore come degli altri paesani, di chi era rimasto in patria o, peggio ancora, di chi era rientrato dall’emigrazione senza essersi fatto “una posizione”.
Il bambino capiva che sua madre non era importante come la zia dell’Australia. Forse se fossero rimasti nell’emigrazione anche lei sarebbe stata importante per la nonna. Di certo sarebbero stati più importanti perché avrebbero potuto infilare dei soldi nelle lettere, o portare dei regali a Natale o in estate, e farsi attendere da un anno all’altro. Il bambino sapeva che la ragione per cui non erano rimasti nella città di Q. era lui. Lo aveva detto la madre in un momento di paura o rabbia, che erano la stessa cosa. Più momenti di paura o rabbia.
La nonna aveva un segreto. Il bambino lo aveva capito quel giorno che l’aveva vista scrivere una lettera e lei se ne era quasi vergognata, o forse era solo che non voleva essere disturbata. Il bambino sapeva che non tutto quello che fanno gli emigranti è bello da raccontare. Lo stesso valeva per la zia dell’Australia. La nonna lo sapeva, e non voleva che nessun altro lo sapesse. Forse era quello il suo segreto, ma il bambino non osava chiederglielo. A cosa servono le parole se non si possono usare per chiedere?
Il bambino passava molto tempo in solaio, un solaio grande, lungo e grande, dove c’erano pannocchie e fagioli ad essiccare, mobili vecchi e una bicicletta tutta nera che sembrava non aver avuto mai altro colore. Il bambino immaginava di essere in un giardino-palazzo tutto suo. Quel solaio gli appariva così grande e lontano da tutto. Era perfetto.
Il mucchio di chicchi di granturco era una montagna dei desideri. Passandogli accanto ed esprimendo un desiderio si poteva credere che si avverasse. La macchina in cui si infilavano le pannocchie per sgranarle era un edificio misterioso, dove c’erano degli spazi nascosti in cui tenere i segreti.
Il mucchio di tutoli era più alto di quello dei chicchi, e il suo colore rosso scuro contrastava con il giallo della montagna vicina. Le due montagne, rossa e gialla, erano al centro del solaio e dominavano la visuale come due enormi pagliacci travestiti da regine. Una delle finestre era sempre aperta perché da lì veniva calata la carrucola con il cesto di vimini per portare su le pannocchie. La carrucola era fissata alla trave del tetto, sopra la finestra, che poi come tutte le finestre del solaio era strana, perché partiva quasi dal pavimento, era in basso, perché il soffitto era basso. Era una finestra perfetta per il bambino. Però la corda era molto grossa e per fare un nodo servivano delle mani che il bambino non aveva ancora; mani grandi da adulto.
La corda sciolta occupava una larga porzione del pavimento tra la finestra e la montagna rossa. Era attorcigliata in forme casuali e la si poteva ordinare creando un elicoide. Un elicoide vicino alle montagne, quella rossa e quella gialla, era la combinazione ideale del palazzo-giardino. Nessuno avrebbe potuto oltrepassare questi sbarramenti. Il bambino aveva visto i film western e si era identificato con gli indiani perché dovevano difendersi dagli invasori. Anche se nei film li facevano vedere cattivi il bambino sapeva che gli indiani non lo erano fino in fondo, o non lo erano proprio. I cowboys non c’entravano niente con la natura, erano degli intrusi, degli intrusi invadenti. La natura era in sintonia con gli indiani. Anche un bambino lo poteva capire, perché gli indiani non perdevano tempo a costruire per distruggere, a distruggere per costruire, ma prendevano quello che la natura gli dava: se era poco o tanto a loro non importava.
L’elicoide formato dalla corda lunga e grossa era uno sbarramento ideale per proteggere il campo degli indiani. Solo degli invasori con l’aereo l’avrebbero potuto superare ma i cowboys l’aereo non l’avevano.
Il tempo del solaio era diverso dal tempo del cortile e dal tempo della cucina della nonna. Era un tempo senza tempo. Però il bambino sapeva che il tempo del solaio a un certo punto doveva combinarsi con il tempo del cortile e con il tempo della cucina della nonna. Così si affacciava alla finestra, quella sempre aperta, e scrutava l’orologio sul fianco del campanile. Aveva imparato a leggere i numeri romani e di questo era orgoglioso. E anche se si dimenticava di guardare il campanile, le campane gli avrebbero ricordato il passaggio del tempo. Dodici rintocchi, mezzogiorno. Un rintocco, l’una. La vita del paese era regolata dalle campane ed era difficile sbagliarsi, una volta imparate le ore.
Immagine di Harry Strauss da Pixabay