Geografia umana dell’alterità e migrazione del corpo. Su “Isola aperta” di Francesco Ottonello
di Teresa Tommasini
Con un verso di Hart Crane «la memoria, affidata alla pagina, è stata rotta» si apre l’arcipelago di poesie che compongono Isola aperta (Interno Poesia, 2020, pref. Tommaso Di Dio, Premio Gozzano e Premio Internazionale di Letteratura Città di Como Opera Prima). È questa stessa epigrafe a introdurci in medias res nell’aura di declino e di infuturibilità del poeta e forse dell’intero genere umano. La prospettiva da cui il crepuscolo della rigeneratività viene osservato è la peculiarità di questa raccolta, non di rado affiancato dal tema del nostos, il viaggio attraverso cui l’autore ritorna presente a se stesso dopo essersi espatriato, vissuto come un esodo da sé per approdare ad altro, per “fare di sé un altro sé”, come recita il titolo shakespeariano Fai di te un altro te (con un’eco del sonetto X). Accanto al nostos si inserisce anche il tema del contrasto tra apertura e chiusura, intrinsecamente connesso all’idea di isola, da leggersi ora come antitesi memoria/oblio, ora evasione/reclusione, o ancora vita/morte. La sterilità, uno dei Leitmotive della raccolta, fa il suo ingresso sin dalla poesia d’apertura Sarai sterile, tua madre morirà per poi riverberarsi lungo tutta la raccolta, trovando terreno fertile soprattutto nella terza sezione – Censurato. Qui, la sterilità è indagata da una prospettiva omoerotica e viene resa attraverso diverse suggestioni: l’assenza della donna, punto di entrata e di uscita di ogni vita futura («La donna, ma verrà a mancare. […] una, una vita senza entrata»); l’acerbità dell’uomo (suggerita anche dal titolo della quinta sezione Una riproduzione acerba), ora destinato a scomparire come i «ragazzi acerbi» di Sterilità, ora destinato a rimanere «lì fermo per sempre» nel «verde / acerbo»; l’evirazione, declinata metaforicamente su un io alienato, «che non significa niente», a tal punto insignificante da essere “evirato dalla grafia” (come suggerisce il titolo della poesia Evirarsi dalla grafia). Solo attraverso l’espatrio, l’emersione e l’eccesso (còlto nel suo senso etimologico) l’io, nella poesia conclusiva della sezione Una riproduzione acerba (la già menzionata Fai di te un altro te), oltrepassa il limite fisico della sua origine biologica ed emozionale («Questo emergere è espatriarsi / oltre il latte materno e le galassie»), “lacerando” quell’insula («una piccola regione nella corteccia cerebrale […] Gli scienziati dicono che proprio lì si prenderebbe coscienza della mente e del corpo e, se vi subissimo un grave danno, saremmo per sempre slegati da noi. Ci troveremmo davanti a una totale assenza di empatia») di cui parla nella prosa Schwarzwald, 2015, accompagnata da una fotografia in bianco e nero, fino a infinitarsi nello sparire e a ricongiungersi con il suo nome: «vivi sbranando, sapendo sparire / una volta infinitamente per tutte / per finirla, per finirci, Francesco».
L’impossibilità di generare la vita apre a un’altra dominante della raccolta: l’io lirico autoriale sembra alla ricerca di un rispecchiamento consustanziale con il paesaggio che lo circonda. Si tratta però di un’identificazione instabile, così come instabile e straniato è il paesaggio rappresentato: siamo di fronte a una primavera in stato di crisi, in cui la forza rigeneratrice della natura deve fare i conti con l’imminente predestinazione allo sradicamento («io che faccio le radici / per essere staccato, per portarmi via») e con l’impossibilità di rinascita («vedo alberi senza oltre in me»). La potenza di questa crisi si fissa nell’immagine del vento, emblema di instabilità ma, paradossalmente, anche l’unica certezza rimasta («ora resta il vento / nel giardino fiorito della casa»).
La fragilità del ricordo affidato alla memoria con cui si apre la raccolta ritorna circolarmente nella poesia di congedo Affrancati Franco, affranchiamoci tutti. Dopo aver pianto «il mondo prima di me», dopo aver perso l’isola, essersi sradicato e censurato, quello che «resterà» dell’io poetico è «un solstizio, un corpo chiuso / nerissimo tra due mani impossibili». L’inizio di qualcosa di nuovo che ancora una volta è vacillante, tra il torrido e il gelo, si apre nel segno chiuso di una impossibilità: a essere persa è anche la potenzialità della memoria transitiva di ricostruire e traghettare definitivamente gli insegnamenti della storia verso il futuro. È una memoria fragile, fragile come la carta destinata a spezzarsi ma fragile anche per la portata di ciò che si scrive: «qualcosa che non esiste / se è esistito si perde». Eppure non è nel segno della disperazione passiva che Isola aperta si chiude, proprio l’accettazione della perdita e dell’isola aprono verso una tensione rinnovata: «Dimmi adesso perché scegli di vivere» recita il verso isolato finale. Rivolgendosi a un “tu”, indefinito quanto universale, emerge la voce di chi, dalla propria isola, con «un disperato gesto del domani», tende ripetutamente al tu-mondo interrogandolo sul senso immanente dell’esistenza.