Cavalcare la tigre. Sull’economia dell’attenzione di Jenny Odell

di Lisa Ginzburg

 

Può sembrare curioso recensire ed elogiare (ovvero riconoscere il molto che si è appreso leggendo) un libro la cui struttura originaria calibra e insinua la possibilità di  una decostruzione – o quantomeno di una messa in discussione  – della mente “attenzionata” dal virtuale; e farlo su questo amato luogo (sito) di officina culturale e di scambio che a internet in qualche maniera deve la vita (Nazione Indiana è pur sempre avamposto del progresso del condividere saperi in rete). Può sembrare curioso ma non lo è, perché Jenny Odell, artista californiana e docente alla Stanford University, da giovanissima osservatrice e contraffatrice del reale quale è, da intellettuale prima, da artista subito poi, sa cogliere le derive della virtualità restituendole in un ragionamento stringente e solido proprio perché mai banalmente e direttamente critico. Stringente nella sua ariosità, solido per come de-costruttivo in senso radicale, ovvero in grado di assumere una posizione argomentativa molto più sottile di come sarebbe stato discutendo l’abuso di internet tout court.

Come non fare niente. Resistere all’economia dell’attenzione (Hoepli 2021) trova nel termine  “abuso” il primo tassello di un suo ideale lemmario.  Abuso della nostra attenzione (peculiare a  ciascuno di noi, tanto quanto comune alla nostra collettività interconnessa, e nell’eccesso di connessione, interdipendente) è prima parola, Uhr-parola, implicita al sottotitolo perché ad esso sottointesa. Il sistema in cui viviamo, dice Odell, attua questo abuso imponendo una economia dell’attenzione perpetua, e sottrarsi a detta economia è (sarebbe) potenzialmente in assoluto il gesto più democratico perché quello più anti-sistemico.

“Attenzionata”, inestetico aggettivo, sgradevole da ascoltare e prima ancora da scrivere. Senza dubbio. Eppure, proprio di attenzione attenzionata  le pagine di Jenny Odell si occupano, e proprio di quella ci danno la misera misura. Spiegandoci che la nostra facoltà di attenzione è in ostaggio, e che svincolarla dalle catene che la serrano significa avere l’ardire liberatorio, una volta riconosciuti e perciò sciolti i lacci delle notre dipendenze, di sviscerare un tema che di fatto è IL tema. Quello dell’attenzionamento della nostra attenzione. Attenzionata, l’attenzione ha perso di forza, e lo ha fatto per la sua coatta condizione di frenesia ipercinetica.

Già: perché il punto non è il prestare attenzione, di per sé attività salubre e tonificante per la mente (la stessa Odell pratica da anni con molta passione e dedizione il birdwatching, un tipo di agire in cui l’assoluta concentrazione mentale coincide con un esercizio sinestetico di ascolto, silenzio, incanto della Natura, cattura dei suoi suoni, e durante il cui esercizio proprio nella concentrazione massima la mente incontra il proprio vuoto autorigenerante). Il punto è un altro, ed è l’economia di stessa attenzione, ovvero il suo orientamento. Prima regola, riorientarla evitando la frenesia, perché come il grande romanziere  Stevenson nel 1877 argomentava nel suo Una apologia degli oziosi : “la frenesia è sintomo di una mancanza di energia”. Seconda regola, non temere il vuoto e il nutrimento spirituale che esso porta in sé: al contrario, andarne in cerca, e per far questo, accettare di muoversi in un dimensione che è di verticalità. Ovvero, come rabdomanti del cibo per lo spirito, dove si senta di avere trovato un ubi consistam, plaghe di senso, lì stare, sostare, affondare i piedi, che vuol dire focalizzare completamente la testa distogliendola e sottraendola alla schiavitù di migliaia di distrazioni di opposta e sconcertante depauperizzazione del senso.

Non che Jenny Odell consideri la virtualità come processo, e nemmeno come risorsa: piuttosto, nel corso della sua analisi la vaglia nella sua progressiva valenza di onnipresenza, dunque nel suo significato di deriva psichica. Questo di per sé rende la prospettiva del suo libro attraente e convincente, da seguire (Barak Obama lo conta tra le sue letture preferite, e non è certo il solo). Come non fare niente  ha del talismano, perché dalla sua lettura si riemergere diversi, in qualche modo pacificati, e se ciò accade è proprio perché la tigre (dell’attenzione attenzionata, frenetica, coatta, mai verticale perché mai completamente in nostro autonomo possesso), una volta che la si sia guardata negli occhi, la si può cavalcare.

Siamo quello che pensiamo, ma anche, siamo ciò cui decidiamo di pensare, di prestare attenzione. L’attenzione, questa sconosciuta. Qualcosa che non a caso si presta (give), perché l’amministrarla è in nostro potere ma, se abusata o manipolata da altri, ci sfugge di mano.  Nell’esattezza chirugica del Deleuze di Pourparler, “il problema non è più quello di fare in modo che le persone si esprimano, ma di procurare loro degli interstizi di solitudine e di silenzio, a partire dai quali avranno finalmente qualcosa da dire.(…) Le forze della repressione non impediscono alla gente di esprimersi, al contrario la costringono a farlo”.

Silenzio, e la lentezza del ponderare e del riflettere, del tacere e del temporeggiare. Mai come ora, ecco le armi umanissime e nascoste (ai più) di cui disponiamo per sottrarci a un sistema che ci costringe quotidianamente a interessarci e prestare la nostra attenzione a  cose che in verità non ci interessano, non interessano il nostro spirito, quello verticale, che affonda in profondità nella Terra e di lì estrae i tesori (le risorse) necessari per orientarsi, scegliere, decidere. Affondare i piedi nella Terra peraltro vuol dire rispettarla, perché un’ecologia della mente (ossia una gestione non onnivora, non frenetica e dissennata, invece oculata e consapevole della nostra facoltà di attenzione) è la miglior riposta in termini di libertà personale che possa venir data anche alla crisi climatica, oltre che a quella antropologica e culturale.

Leggete Jenny Odell e capirete cosa intendo. Leggetela con apertura, disponibili a lasciarvi trasformare da questo libro indipendente, sovversivo, rivoluzionario proprio perché refrattario a qualsiasi definizione.

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1 commento

  1. Il continuo saccheggio della nostra attenzione è un problema che mi tormenta. In treno non si riesce più non dico a leggere, ma nemmeno a starsene con i propri pensieri, perché in sottofondo ci sono sempre il continuo “plop” di chi mette like su Facebook, i vocali di infinite conversazioni su Wazzup ascoltate senza auricolari, gli improvvisi scoppi di audio provocati dai video scrollati sui vari social. Per quanto mi riguarda, questo panorama acustico ha ormai distrutto quasi completamente il leggendario “piacere del viaggio”.
    La frase che citi di Deleuze, Lisa, dice già tutto: senza gli “interstizi di silenzio” non avremo più nulla da dire, ed è sempre più complicato ritagliarseli, perché impera l’ipercomunicazione come unica sintassi possibile, dagli smartphone all’abnorme quantità di mail cui ci stiamo abituando, considerandola peraltro “gratuita”, mai conteggiata nei tempi di lavoro.
    Comunico ergo sum, avviandoci a diventare dei contenitori vuoti, fintamente o inutilmente collegati tra noi. Certo, bisogna staccare ogni volta che si può, autodisciplinarsi, in modo da recuperare il silenzio – ma che fatica opporsi quotidianamente al ritmo planetario o quasi.
    Dovrò provare il Birdwatching…

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Lisa Ginzburg ha scritto i romanzi Desiderava la bufera (Feltrinelli 2002), Per amore (Marsilio 2016, Au pays qui te ressemble, Verdier 2019), Cara pace (Ponte alle Grazie 2020, candidato al Premio Strega), le raccolte di racconti Colpi d'ala (Feltrinelli 2006, Premio Teramo 2007) e Spietati i mansueti (Gaffi 2016, Premio Renato Fucini 2017), i mémoir Malìa Bahia (Laterza 2007), Buongiorno mezzanotte, torno a casa (Italo Svevo 2017) e Pura invenzione. Dodici variazioni su Frankenstein di Mary Shelley (Marsilio 2018). Collabora con Avvenire.
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