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Filosofia del gaming: “la cameretta delle meraviglie”

 

 

 

È da poco uscito per Tlon Edizioni il libro Filosofia del gaming. Da Talete alla PlayStation di Tommaso Ariemma. Ospito qui un estratto particolarmente sorprendente: La cameretta delle meraviglie.

 

Capitolo sette

La cameretta delle meraviglie

 

Le camere dei bambini e degli adolescenti sono state pensate, negli ultimi cinquant’anni, come uno spazio soprattutto ludico. A partire dagli anni Ottanta, e ancora di più negli anni Novanta, sono state il laboratorio di una nuova forma di amicizia: tra i più giovani e una macchina – console o personal computer –, attraverso il videogame. Un’amicizia non per tutti, soprattutto all’inizio. Sono state le sale giochi a far arrivare inizialmente il videogame al vasto pubblico. Spazi di condivisione in aperto contrasto con la cameretta borghese, uno spazio ideale invece per nerd e ragazzi poco inclini a socializzare.

L’immaginario dei videogame è nato grazie soprattutto alle sale giochi, con i loro mitici cabinati. Ma, sempre di più negli anni, le sale giochi sono andate incontro a un inesorabile declino. L’avvento delle console e del personal computer, e soprattutto della rete, hanno reso tale esperienza superflua, trasformando al tempo stesso il nostro abitare. Potendo essere giocato sempre di più a “casa”, anche il videogame ha cambiato o potenziato alcune caratteristiche (ma di questo parleremo più avanti).

Oggi un genitore si affaccia nella cameretta dei propri figli, spesso preoccupato dall’estrema concentrazione, se non proprio dallo stato di invasamento in cui si trovano davanti al loro videogame preferito, dimenticando il proprio invasamento quando aveva la loro età, davanti a un videogioco di qualità probabilmente inferiore.

La sua cameretta era già, però, una camera delle meraviglie o lo sarebbe diventata presto. Ovvero: un luogo dove si sarebbero raccolti insieme – grazie a console e computer – arte e tecnica, spirito e macchina, gioco e serietà.

La cameretta degli adolescenti, a partire degli anni Ottanta e Novanta, va pertanto vista come una vera e propria “riattivazione” delle camere delle meraviglie (le cosiddette Wunderkammer o Kunstkammer): quel luogo insolito che eruditi e principi tendevano a realizzare tra il xvi e il xviii secolo, raccogliendo insieme minerali e oggetti curiosi, opere d’arte e macchine, nonché dei singolari “automi”.

Una forma di collezionismo bizzarro, a prima vista. Ma nelle Wunderkammer, nelle camere delle meraviglie, vi si trovava accostato e unito ciò che poi abbiamo pensato in maniera separata: arte e scienza, bellezza e tecnica, gioco e utilità.

Nell’esperienza del gaming – nella stanza profonda che spesso lo rende possibile – ciò che nelle camere delle meraviglie era semplicemente raccolto e collezionato adesso prende vita, mettendo in moto e combinando i propri elementi. Quelle collezioni bizzarre già secoli fa avevano indicato la strada, portatrici di una grande filosofia nascosta: tra forme naturali, artistiche e meccaniche non vi era contraddizione, tutto rientrava in un grande impulso giocoso e creatore della natura.

Un luogo utopico, uno dei primi tentativi di pensare il caos del mondo, dove potevano ritrovarsi insieme luoghi e tempi diversi, attraverso dei semplici oggetti.

A permeare sempre di più le camere delle meraviglie sarebbe stata l’idea che il corpo umano fosse una macchina: il visitatore della stanza sarebbe stato così l’elemento che avrebbe completato la collezione, e rafforzato il legame tra meraviglia naturale, meraviglia artistica, meraviglia meccanica.

Un’idea, quella del corpo-macchina, sostenuta soprattutto dalla filosofia di Cartesio, che nel corso dei secoli abbiamo considerato come un modo riduttivo di pensare il corpo. Arte e tecnica si sarebbero separate sempre di più, e l’umano sarebbe stato concepito appartenente al regno spirituale dell’arte e non delle opere tecniche e meccaniche.

Cartesio – in opere celebri come L’uomo (1633), Discorso sul metodo (1637), Meditazioni metafisiche (1641) – ha pensato il corpo come una macchina radicalmente distinta dall’anima. Eppure ha pensato entrambi in qualche modo collegati, uniti grazie a una parte del corpo. Il problema, a questo punto, non è tanto considerare riduttiva l’equazione tra corpo e macchina quanto quella di avere un’idea riduttiva della macchina stessa.

Una macchina è, innanzitutto, qualcosa che ha bisogno di altro per muoversi. Una macchina, in senso moderno, non è Dio. Ha bisogno dello spirito umano, ad esempio, o dell’energia degli elementi naturali. Nei pressi di una macchina noi vedremo sempre qualcosa di vivente. Anzi, spesso proprio le macchine fanno brillare la vita delle cose che credevamo inerti: impulsi elettrici, radiazioni, cose che il nostro corpo – macchina capace di collegarsi ad altre macchine – non riusciva nemmeno a percepire.

A questo punto la definizione di gaming data da Alexander Galloway è quella che più fa propria l’eredità delle Wunderkammer e della filosofia cartesiana. Per Galloway, infatti, il gaming raccoglie

l’intero apparato del videogame. Si tratta di un medium culturale potente, che coinvolge un vasto numero di macchine organiche e di altrettante macchine inorganiche. Inserito all’interno dei sistemi di informazione della società millenaria, questo medium è destinato a ricoprire un ruolo significativo nel tempo che verrà.

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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