Le acque di Istanbul
di Ornella Tajani
Mentre passeggio nel distretto di Beyoğlu, la grossa area in cui si trova piazza Taksim, mi sembra che Istanbul contenga tutte le città che ho visto sinora: a poco vale fare una lista, da un lato perché finirebbe inevitabilmente per dare un taglio, un ordine di priorità evocativa, a seconda di quale io scelga di menzionare per prima; dall’altro perché è probabile che contenga anche tutte le città che non ho visto.
Mi colpisce d’improvviso la netta percezione di quanto rapidamente la realtà divori l’immaginato. Con posti come questo, desiderati per anni, raccontati o suggeriti da testi letti e frammenti di vissuto, succede: ci si muove con un’idea già in testa, da arricchire, modificare, scuotere o, nei casi peggiori, confermare.
Che fine ha fatto la visione di Istanbul con cui sono arrivata? Avevo disegnato con la mente il quartiere dove avrei alloggiato, tracciato la linea della città orientale che sapevo di vedere dalla terrazza della mia casa-albergo; aiutandomi con Google Maps, avevo provato a registrare la conformazione particolarissima di una metropoli in cui si incontrano un estuario, un canale e due piccoli mari.
Questo incrocio di acque mi sembra il vero cuore di una sterminata città-mondo (15 milioni di abitanti, riportano i dati on line; 18 o addirittura 24, dice chi ci abita), una città-mostro, come la definisce la collega che mi accoglie e come ho modo di constatare quando, nel giorno delle elezioni, per sfuggire alla tensione andiamo a fare una gita a Büyükada, la più grande delle isole dei Principi, dove visse qualche anno Trotsky e dove Simenon andò a intervistarlo nel 1933 [1].
Durante la traversata vedo palazzoni e grattacieli continuare a spalmarsi senza sosta sulle due rive del mar di Marmara; è un flusso imponente, spaventoso e irresistibile.
Come in un esercizio di memoria, dunque, a distanza di ventiquattr’ore dall’arrivo provo a recuperare l’immagine vergine, curiosa di capire di cosa avessi riempito un toponimo che, già abbastanza ricco di suo, ne contiene altri due: Bisanzio, Costantinopoli, significanti che impariamo sui libri di scuola e che luccicano sulla lingua come oro. Ma non mi viene in mente niente, se non il fatto che forse l’avevo sempre raffigurata senza sole, col cielo bianco, pieno di una luce abbacinante: lo stesso che guardo il primo giorno dal battello. Questo cielo è l’unico ricordo che permane dell’Istanbul fantastica: il resto viene allegramente fagocitato dai tappeti di moschea calpestati, le salite ripide, la sconcertante quantità di tè che un essere umano è in grado di bere.
Faccio lezione in una delle università cittadine, gli studenti sono quelli che qualsiasi docente sogna: curiosi, motivati, intervengono di continuo. Trepidano nell’attesa di un’elezione che può cambiare il corso degli eventi e che senza dubbio, per molti di loro, cambia il segno del futuro. «Come vi sentite?», gli chiede la collega prima di cominciare; «cerco di non pensarci – risponde una ragazza -, ma non posso fare a meno di essere ottimista».
Domenica sera, mentre torno a casa e i seggi stanno per chiudere, la città si è svuotata rispetto al sabato, quando il fiume ininterrotto di persone (e di cose, e di merci) si rovesciava in ogni anfratto della città. L’esito non è quello sperato dalla studentessa, si va al ballottaggio con Erdoğan in vantaggio.
«Ogni discorso sulla Turchia comincia con la storia del ponte: “La Turchia è un ponte tra Oriente e Occidente”», mi dice ironico Giovanni, che vive a Istanbul da oltre vent’anni e lamenta la mancanza di profondità sulla complessa situazione in cui il paese versa. Commentiamo che in effetti è una di quelle frasi finto-risolutive per evitare, alla fine, di dire alcunché, come una colata di cemento che arresta lo sviluppo di ogni riflessione e problematizzazione.
Li osservo tutti, i ponti fra le due rive, e il penultimo giorno prendo il battello fino all’ultima località raggiungibile dal centro, Rumelikavağı, un nome che mi piace subito: scoprirò poi che vuol dire “Posto di controllo della Tracia”. Fotografo l’ultimo ponte sul Bosforo, oltre il quale comincia il Mar Nero.
A Rumelikavağı non c’è quasi nulla, come mi aspettavo. Vecchi che giocano a carte, adolescenti seduti a chiacchierare sulle panchine, bambini che corrono nei giardinetti. Un paesino tranquillo, sereno, che nulla ha a che vedere con il fermento a tratti insostenibile da cui sono partita: eppure è soltanto un quartiere della stessa città, a circa due ore di traghetto dal ponte di Galata.
Sono giorni in cui scatto prevalentemente foto di acque, è quel che il mio occhio seleziona, forse perché è un periodo in cui ho bisogno di sentire «l’univers en émanation», come Bachelard descrive la rêverie, la fantasticheria – associazione che gli viene in mente proprio camminando «près de l’eau».
Torno in Italia dopo una settimana che sembra durata almeno il doppio, per le densità sensoriale di quanto visto e per l’effervescenza, la tensione, l’altalena tra l’eccitazione e lo scoramento del periodo elettorale. Il secondo turno si terrà tra una settimana; sarebbe bello se l’esito rispondesse all’ottimismo della studentessa.
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[1] L’intervista si trova in G. Simenon, Europa 33, trad. Federica e Lorenza Di Lella, Milano, Adelphi, 2020.
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Mi hai fatto viaggiare, Ornella! Cosa pretendere dalla scrittura di viaggio, d’altra parte? (In realtà la scrittura di viaggio è la più pericolosa e insidiosa possibile. Quella forse, fra tutte, soggetta più facilmente agli stereotipi, ai compiacimenti, alle leziosaggini, alle meditazioni fuori porta. Passarci indenni, e anzi potenziarla, è privilegio di pochi.)
Grazie, Andrea. È proprio vero quel che scrivi sulla scrittura di viaggio: mesi fa avevo iniziato un racconto di Algeri per poi interromperlo, temendo un po’ proprio i rischi che menzioni. Forse conta abbandonare subito l’illusione di poter dire tutto e parlare di un luogo restituendo la misura di una percezione personale: evitare insomma di stra-dire o di tradire. Ad ogni modo, sono felice che il pezzo ti sia piaciuto.