La Catabasi vorticosa della memoria. Una conversazione poetica con Andrea Donaera
di Chiara Donnini
All’inizio di marzo è uscita per l’editore fiorentino Le Lettere la raccolta poetica di Andrea Donaera, Le estreme conseguenze, nella collana novecento/duemila diretta da Diego Bertelli e Raoul Bruni. Ne parliamo qui con l’autore.
Chiara: Ciao Andrea, la prima domanda che vorrei farti origina dall’esergo della tua raccolta, Le estreme conseguenze. In apertura tu poni due narrazioni suggestioni che mi sembrano già un’esplicita dichiarazione di poetica: una di Alberto Savinio che racconta la fine del poeta Apollinaire, quasi al termine delle prima guerra mondiale, vista attraverso gli occhi dell’amico Ungaretti che sul letto di morte gli porta i sigari toscani: “La giornata è caldissima. Il grasso del poeta cominciava a decomporsi” e una di Walter Benjamin che si sofferma sul “rimuginatore”, collezionista e custode di ricordi reliquie, Baudelaire: “Il labirinto è la patria dell’esitazione. La via di chi teme di arrivare alla meta traccerà, facilmente, un labirinto”. Di esse mi si imprimono due parole immagini: il corpo e il labirinto.
Partendo dall’etimologia e dalla definizione di poesia, che deriva dalla parola greca poiesis, ovvero il fare, il produrre composizioni verbali in versi, cioè secondo determinate leggi metriche, o secondo altri tipi di restrizione e il cui slittamento semantico si trasferisce poi su tutte quelle opere o parti di opere ritenute particolarmente ispirate e suggestive, ti chiedo: cosa è la poesia per te? E’ soprattutto corpo (il corpo del poeta, il corpo del testo), quindi metrica, scansione rimica, restrizioni, o è soprattutto labirinto, quindi ispirazione, suggestione, smarrimento, incantamento?
Andrea: Per me la poesia è un accadimento: mi succede, mi capita. C’è alla base un processo di scrittura generale: a volte prende la forma di una storia, di un romanzo, di un racconto; altre volte mi piace provare a costruire dei versi, a comporre qualcosa in quella strana libertà che è la scrittura poetica. Ma sostanzialmente è tutto un grande discorso, tutto uno scrivere, che si conforma in base al momento o in base all’idea che sto provando a sviluppare. Sicuramente la poesia non è uno sfogo, non è una scrittura di getto – anzi, è la scrittura a cui dedico più tempo, più rigore, più riscrittura e più revisione. Perché ho degli obiettivi e delle intenzioni, quando mi capita tra le mani la scelta poetica: dare concretezza e corporeità ai concetti – non (solo) descrivere qualcosa, esporre un pensiero, ma farlo emergere con una sorta di natura tattile. Un fatto visionario, naturalmente, ma un buon motore, per me, nella ricerca di scrittura. E poi l’intenzione principale, sin da quando ho cominciato a scrivere (non solo poesia) è quella di evocare – non solo qualcosa, ma qualcuno: la poesia per me è un esercizio di negromanzia, un tentativo (quasi sempre disperato) di riesumare, attraverso la parola (nella sua vocazione più magica possibile), qualcosa o qualcuno che non c’è più, smarrito dietro. E dato che, nella vita, brucio tutti i ponti alle mie spalle, c’è parecchio materiale che può essere soggetto a un atto negromantico.
C: Ecco, parli di poesia come negromanzia, che era, sì, l’evocazione dei defunti ma aveva anche uno scopo divinatorio. Da questo slittamento origina la mia seconda domanda: la poesia tra il monito delfico “conosci te stesso” e il tentativo di comprendere il mondo, la metafisica, tra la narrazione mitica di ciò che accade, epos, e la comprensione ultima del senso, telos. Come diceva William Blake tradotto da Ungaretti (ecco che ritorna): Vedere un mondo in un granello di sabbia e un cielo in un fiore selvatico,/tenere l’infinito nel cavo della mano e l’eternità in un’ora: la discesa nell’animo del poeta consente al poeta di vedere anche l’altro da sé? La poesia che fa introspezione, fa anche metafisica?
A: Credo che tutta la metafisica sia un modo di fare introspezione – e viceversa. Se scavo troppo e troppo avidamente, in fondo, dentro di me, e scopro un demone antico che mi abita da sempre… è difficile non chiedersi come sia potuto accadere, anche in termini non mondani.
C: Ricollegandoci alla prima domanda sul significato della poesia e del poetico, tu, Andrea, sei riconosciuto anche come narratore in prosa (Io sono la bestia, 2019 e Lei che non tocca mai terra, 2021 sempre NN Editore) e qui infatti alterni una narrazione in versi a una narrazione in prosa. Puoi dirci del senso e dei pesi che hai voluto dare alle due forme in questa tua raccolta?
A: Come accennavo poco sopra, per quanto mi riguarda, da anni, sto semplicemente scrivendo un unico discorso, il quale assume diverse forme. Si sta sviluppando un unico mondo di scrittura, con personaggi, idee, luoghi, temi, forme, stili, che ricorrono e si rincorrono. Questo libro di poesie è una sorta di spin-off del racconto “La notte delle ricostruzioni” (Tetra, 2022), ma contiene anche pezzi dal romanzo “Io sono la bestia”, senza tralasciare che il protagonista è l’Andrea di “Lei che non tocca mai terra”, e inoltre ci sono prose da “Una Madonna che mai appare” (la silloge che fu pubblicata nel XIV Quaderno di poesia contemporanea edito da Marcos Y Marcos nel 2019).
C: Sempre a proposito della struttura della raccolta, scegli di usare una seconda persona singolare nei versi, un tu, e una seconda persona plurale, un voi, nella prosa. Ci puoi parlare di questa tua scelta in termini formali e in termini simbolici? In che relazione stanno tra loro?
A: Nella mia ottica rappresentano l’incapacità del protagonista di dire io – di dirsi, di definirsi, smarrendosi in una ricerca plurale, sia esso uno specchio fantasmatico o una collettività dove mischiarsi. Ho imparato questa tensione tra smarrimento di sé ed esposizione lirica in uno dei miei romanzi preferiti: “Un uomo che dorme” di Perec – al quale queste poesie devono molto.
C: Collegandoci al tu noi ancestrale che narri – ancestrale perché racconta di una terra ancestrale, il Salento, e perché origina dal tuo passato, l’adolescenza – in che senso questa raccolta è anche una narrazione di formazione? Da quali domande interiori parte, quali segreti racchiude? E quali sono i sentieri di crescita che traccia – lineari, ricorsivi? E, infine, a quali desideri, sogni aspira, ritorna?
A: La ricerca di una “golden age” della nostra vita – un’epoca in cui tutto era bello e niente andava storto – credo sia drammaticamente fisiologica in ogni essere umano: circoscriviamo un momento, lo mistifichiamo, e a quel frangente connettiamo un falso passato splendente da far corrispondere a un presente che non ci soddisfa. Questo succede a me con l’adolescenza, e questo processo torbido e poco sano è una delle colonne portanti del palazzo di carta che sto provando ad allestire con i romanzi, i racconti e queste poesie. Inoltre, attraverso un percorso di analisi, ho finalmente constatato con nitidezza un elemento: ancora oggi scrivo per gli stessi identici motivi per cui scrivevo quando avevo quattordici anni. Non è una cosa buona, ma la letteratura, per me, è anche capitalizzare le cose poco buone che ci riguardano.
C: Grazie, Andrea, per averci raccontato un po’ del poetico che ti abita e ti dico arrivederci con una tua suggestione.
Es
Ricordi d’essere stato certo, un tempo:
d’essere davvero solo corpo-schizo:
tutto macchina, tutto desiderio:
tutte cose che non saprai mai più:
sai solo che non era e non è vero –
sai che non sai quali sono le cose
vere:
hai letto che nel cervello non sono presenti i ricettori
del dolore; ti hanno detto che le cellule del cervello
crescono con il passare del tempo; pare che il cervel-
lo abbia una memoria tra i tre e i mille terabyte; è
certo che l’80% del cervello sia costituito da acqua:
eccetera: ed ecco:
e quindi: sai solo che sei una macchina:
ma rotta, stanca, ferma:
tanto inferma da non essere più
(e tu non sei più tu:
se mai ci fosse stato un qualche tu).