Divise senza corpi. Mitopoiesi di Erich von Stroheim
di Gabriele Doria
“L’uomo sano tollera la nudità. Negli uomini e negli animali. L’uomo perverso non la tollera. L’uomo sano percepisce ogni abbigliamento come oggetto erotico. Per l’uomo sano ogni abbigliamento deve apparire spudorato […]”
Adolf Loos, Nudità
“You’re born naked and the rest is drag”
RuPaul
I.
Ne l’Image-mouvement, parlando del naturalismo nel cinema, Deleuze spiega che esso “non si contrappone al realismo, ma ne accentua i tratti prolungandoli in un surrealismo particolare”, quello del mondo originario, che “si definisce in virtù di un inizio radicale, una fine assoluta, una linea di massima pendenza”. Il mondo originario è ciò che ribolle sotto tutti gli ambienti.
L’immagine naturalista per Deleuze, l’immagine-pulsione, si compone di simboli e feticci, pulsioni e frammenti, pezzi strappati ad un ambiente reale che ne rivelano tutta la violenza e la crudeltà, il fondo terribile. L’oggetto della pulsione è sempre l’oggetto parziale, il frammento strappato, il feticcio: “quarto di carne, pezzo crudo, rifiuto, mutandine, scarpa”. La pulsione lacera, disarticola, e la perversione è la sua derivazione, la sua espressione nell’ambiente derivato. Non si tratta tanto delle qualità intrinseche della conquista possibile, perché la più grande gioia è “nella potenza di scelta, nel desiderio di cambiare ambiente per esaurirlo”, per quanto ripugnante, disgustoso possa essere. E’ un rapporto costante predatore-preda.
Nel cinema naturalista, ad esempio, il falso ricco penetra nell’ambiente povero per catturarvi le sue prede (in Bunuel, e più tardi in Losey, si considera invece il fenomeno inverso, forse più terrificante, “più prossimo alla iena che sa attendere”, del servo che penetra nell’ambiente ricco) ma “poveri o ricchi, le pulsioni hanno lo stesso destino: fare a pezzi, accumulare rifiuti, costituire il grande campo d’immondizie e riunire il tutto in una grande, generalizzata pulsione di morte.”
II.
E’ nella veste impeccabile del militare, sciabola tra le gambe, mani guantate sull’elsa , che appare in Blind Husbands (1919) il “tenente” von Steuben (cito dalla didascalia che lo presenta: “un millantatore che usa l’uniforme da ufficiale per compiere più facilmente le sue furfanterie”) interpretato dallo stesso von Stroheim. Nella sequenza iniziale è già mostrato tutto l’impianto su cui poggerà la trama, attraverso i movimenti della macchina da presa nel ristretto spazio diegetico della diligenza che porta i nuovi ospiti alla pensione. Siamo al confine italiano-austriaco, Monte Cristallo, Cortina. I tre personaggi mostrati alternativamente sono il dottor Armstrong, impassibile lettore di giornale, la signora Armstrong, che giocherella civettuola col velo del suo cappellino, e per l’appunto von Steuben. Il militare è fin da subito impegnato in un’esibizione sia per la dirimpettaia che per gli occhi dello spettatore. Quando la signora Armstrong decide infine di togliere il velo, scoprendo gli occhi e il viso che il militare stava da tempo cercando di decifrare, inizia il gioco di malizia e seduzione tra questi due compagni di perversioni. In tutto ciò il signor Armstrong viene definitivamente relegato nel terreno amorfo dell’irrilevanza, neghittoso in ogni occasione almeno fino a che il desiderio, sotto forma di gelosia, lo spinge a riaffermare i suoi diritti, e lo condurrà su un inaccessibile pinnacolo dolomitico insieme al suo rivale, col segreto intento di ucciderlo. Quando scoprirà che infedeltà non vi era stata, “se non nella volontà perversa dello spettatore di crederci”, sarà troppo tardi. Steuben, come tutti i personaggi di Stroheim, va incontro al suo disfacimento, al proprio personale precipizio.
L’invincibile fascino per la divisa, per il portamento aristocratico e militare, allarga il campo a una questione fondamentale nel cinema di von Stroheim: il feticismo della veste. Come scrive Cappabianca, Stroheim non indossa la divisa, “vi sembra nato dentro, intrattenendo con essa quei rapporti di perfetta familiarità e di aderenza plastica, che gli altri non riescono a stabilire neppure col proprio corpo.”
Ancora: abbigliarsi seguendo pedissequamente le regole, offrirsi con la massima rigidità al reticolo delle convenzioni prefissate, significa offrirsi alla gioia narcisistica di un esibizionismo puro, un modo di essere completamente nudo in scena. Il von Steuben/von Stroheim accuratamente incartato, che assale l’inquadratura, rappresenta l’ingresso dell’Assolutamente Altro, che increspa lo schermo e instaura la dittatura del desiderio. In Baudrillard: “solo il rito è violento, solo la regola del gioco è violenta, perché pone fine al sistema del reale: questa è la vera crudeltà […] e la perversione in questo senso è crudele. […] Perverso non è ciò che trasgredisce la legge, ma ciò che sfugge alla legge per abbandonarsi alla regola”, quindi forma ritualizzata, cerimoniale.
Le codificazioni rigide dell’Impero asburgico dovevano pretendersi incrollabili quanto l’immutabile apparato che le sorreggeva e il culto della divisa non ne era espressione secondaria. Già nella nostalgia letteraria mitteleuropea, in opere come Radetzkymarsch di Joseph Roth, ma anche in un film tedesco come L’ultima risata di Murnau, in cui la rovina di un uomo inizia con la perdita del suo diritto a indossarne una, sia pure da portiere, la divisa rappresenta quel baluardo di ordine e armonia in contrapposizione ai presagi della finis Austriae, emblema di un universo familiare, centrato sui propri rassicuranti cardini, ma anche proiezione semi-conscia di un’identità basata sul vuoto, lavorio immaginativo di un io lacerato.
(E’, non a caso, Robert Musil a parlare della condizione di quelle mosche rimaste intrappolate in quella materia “vischiosa, tossica e gialla” della carta moschicida Tangle-Foot, le quali, inseguendo in volo rassicuranti principi di stabilità e regolarità hanno finito in realtà per negare se stesse e quella vita che volevano rappresentare e col vedere svanire per sempre ogni possibilità di riprendere il volo.)
III.
Il fantasma della vecchia Europa da bancarotta metafisica che cerca di infiltrarsi nella serenità coniugale della coppia americana, è un portato di quella più grande invasione europea nella Hollywood degli anni trenta ( David Robinson parlerà ironicamente di Ernst Lubitsch come dell’ invasore straniero coronato dal successo più duraturo).
In un clima affamato di cliché europei, registi come Max Ophuls o Ernst Lubitsch dovranno ricreare nostalgie patrie sotto forma di cartoline, misura di un duplice straniamento, Polibio dalla parte dei vincitori (inquietudine espressa molto più tardi da un altro esule della diaspora, Billy Wilder: “ We wondered where we should go now that the war was over. None of us – I mean the émigrés – really knew where we stood. Should we go home? Where was home?”)
Tra produttori affamati di immagini di “un’Europa impastata di differenze di classe e fantasie romantiche”, il punto di riferimento privilegiato diviene Vienna, segno e simbolo al pari solo di Parigi. Vienna come “città dei paradossi” (Musil), delle lotte di classe da operetta, in cui padroni e straccioni si trovano fianco a fianco a ubriacarsi nelle stesse bettole, accomunati dall’avversione verso il borghese emergente dal suolo sfaldato dell’impero durante gli ultimi giorni dell’umanità.
Von Stroheim va oltre, e non solo col tempo pretenderà di ricostruire in scala 1:1 intere porzioni di questi sogni esotici da cartolina (in Foolish Wives, del 1921, ricostruirà la piazza centrale di Montecarlo) ma a uso e consumo del meccanismo produttivo Hollywoodiano si costruisce l’immagine dell’aristocratico decaduto e decadente, austro-ungarico, (raddoppiando quindi i connotati di messa in scena e recitazione) corrispondente a quel forsennato ideale di perfezione che esibiva sulla scena, lui figlio di un modesto cappellaio immigrato ( il “von” di Erich von Stroheim è auto-attribuito, come von Sternberg, e von Trier ). Stroheim sarà quindi corpo-divisa realizzato nella vita reale, archetipo in vita rimodellato dall’industria, muovendosi all’interno della quale riuscirà a far coincidere ogni gesto ogni parola alla maschera che non toglie mai (quella da cui il vero dandy secondo Barbey D’Aurevilly beve il proprio sangue che cola, rimanendo mascherato) per poter arrivare a spendere il proprio mito come moneta sonante. Da quel momento, sarà Erich von Stroheim per sempre, nelle memorabili parti tagliate su di lui (e non potrebbe essere altrimenti) da Renoir ne La grande illusion (1937), e da Wilder in Sunset Boulevard (1949), così come nella parte che sceglierà per sé stesso, interpretata fuori da un film, sul set di Greed (1924), quando da regista orienta il costo (inteso come valore monetizzabile, e quindi reclamizzato) verso gli abissi dello spreco, ovvero tutto ciò che non può avere un immediato impatto col pubblico e quindi, per l’industria, irrecuperabile.
IV.
In Foolish Wives (1921) questa volta l’antagonista è il falso conte Karamzin, avventuriero, spacciatore di denaro falso e seduttore senza scrupoli, che si accompagna alle false principesse Olga e Vera. Colei che questa volta cercherà di irretire nelle sue trame è la moglie dell’ambasciatore americano Hughes. Karamzim è fisso, stretto nella divisa attillata, “sigaretta che appartiene alla sua bocca non meno di quanto il monocolo appartenga al suo occhio”, si tura il naso per proteggersi dagli odori dell’esterno, si muove con precisione millimetrica.
Non sapessimo dell’appartenenza di Stroheim all’area della Mitteleuropa, basterebbe la forza con cui si impone fin dal primo film il nodo del rapporto Servo-Padrone. La smorfia di disgusto dell’elegantissimo damerino trascolora in desiderio oscuro, che lo attira nelle delizie “del basso”, “degli inferiori”. L’oscura disponibilità alla degradazione spingerà il Karamzin di Foolish Wives verso una domestica e una ragazza ritardata, ed è una pulsione di morte. Archiviato il tentativo di seduzione della ricca donna americana, mentre la città dorme e il suo volto acuminato super-carezzato dalla macchina da presa è irretito da un fumo espressionista sotto la luce spiovente del lampione (Stroheim usa l’espressionismo come Bunuel il surrealismo: se ne serve, ma per finalità del tutto diverse, quelle di un naturalismo onnipotente), la maschera di cera von Stroheim, tra poco maschera mortuaria, si lascia a sua volta sedurre dal basso istinto. Sorpreso nella camera della giovane catatonica dal padre di lei, sarà fatto a pezzi e chiuso in un sacco, gettato nelle fogne attraverso un tombino. Parallelamente alla rovina di Karamzim, avviene quella delle due complici, che finiscono arrestate dalla polizia. Privata della parrucca bionda da principessa russa, Olga, come del resto Vera, non si rammarica poi troppo: “impersonava quella parte da tanto tempo, che aveva finito per crederci anche lei.” Confessione che d’altra parte potrebbe essere di Stroheim stesso.
V.
Karamzim è uno straniero, dice di essere nobile, ha portamento militare, viene da un paese lontano (la Russia) nel paese del gioco (Montecarlo); Stroheim è uno straniero, dice di essere nobile, ha portamento militare, viene da un paese lontano (l’Austria) nel paese d’un altro gioco (Hollywood). L’equazione lampante tra personaggio e autore non è meno evidente tra Montecarlo e Hollywood: entrambe sono piene di perdenti, rovinati al gioco, che hanno voluto nonostante tutto giocare, entrambe sono piene di divise senza corpi, al di qua o al di là della castrazione che le attende. Inquietante e rivelatore, come notato da Cappabianca, è il personaggio impassibile dell’ufficiale in mantellina nera, in Foolish Wives. Lo troviamo all’inizio impettito e quasi alieno all’ambiente circostante, quando non raccoglie il libro appena caduto a Madame Hughes (Karamzin, in agguato, ne approfitterà subito per farsi notare con la sua galanteria da rettile). Successivamente, all’interno di un ascensore, ritroviamo Mme Hughes e l’ufficiale. A lei cade la borsetta, l’uomo resta nuovamente impassibile, e accade la sconcertante scoperta: quella che si credeva sprezzante alterigia è invece mancanza, assenza: l’ufficiale è senza braccia. La divisa nasconde un vuoto, “la forma ha divorato il corpo che avrebbe dovuto vestire”. Il “fantasma del corpo senza braccia”, scrive Cappabianca, senza braccia per dirigere, è quello che attenderà Stroheim alla fine della sua parabola.
La nostalgia per l’intero si fa col tempo manifesto di un’opera programmaticamente incompiuta, col colosso rinnegato Greed (1924) che diventa massimo monumento alla depense, del piacere perverso di lavorare in pura perdita, della minuzia spettacolare, mettendo su il set più inaudito e singolare mai realizzato per un film e gettando le basi perché questo sforzo enorme, inutile e controproducente, non sia visto da nessuno (progenitore del Kubrick di Barry Lyndon, che pretese i costumi di scena comprendessero anche indumenti intimi del Settecento). Le 42 bobine iniziali di Greed (circa sette ore di titanica durata) furono ridotte dai produttori, tagliando interi personaggi ed episodi, fino a 10 bobine (108 minuti). All’uscita, il film fu un fiasco.
La tendenza al gigantismo, il rovello del set che porta alla ricostruzione completa negli studios della Place Centrale di Montecarlo, del Casino, del Café de Paris, con interni dotati di soffitti (pratica avulsa dal contesto della scenotecnica dell’epoca, ripresa più tardi da Orson Welles) questo delirio di raddoppiamento della realtà, come per il Caden Cotard di Synecdoche New York, porterebbe al sospetto di un inconscio antagonismo, di un adoperarsi per precipitare. Per Cappabianca, si tratta del “privilegio accordato all’hic et nunc del cinema, al momento primigenio e irripetibile” che deve fare i conti con la sua riproducibilità tecnica, la sua maledizione e perdita di realtà (essendo il cinema, nelle parole di Carmelo Bene, “quanto è già abortito, un oltraggio all’attimo presente”, nient’altro che la natura morta del set) e quindi un inconscio senso di colpa verso il materiale girato e la pellicola impressionata, “tale da provocare, come coazione a ripetere, gli infortuni e le mutilazioni inferte ai film dopo le riprese.”
Allora ci si accanisce contro la “fine” tradizionale del film, perché mostrare la verità è mostrare quel di più che segue il tradizionale finale: quando si scruta l’uomo, lo si abbraccia tutto, ostinatamente ribellandosi al divenire familiare del rimosso, che diverrebbe un ex-non mostrabile riassorbito dal senso generale, ormai svilito. “Come ogni pratica artistica anche quella di Stroheim sarebbe quindi una pratica di nominazione del nulla.”
Barthélemy Amengual legge tutta la parabola di Stroheim alla luce di un divorante senso di colpa. Dalla rimozione conscia dell’infanzia e dell’adolescenza povere, fonti di possibili umiliazioni, nascerebbe un meccanismo di auto-punizione, una pervicace insistenza nel ripetere gli stessi errori, per andare incontro alle stesse fatali conseguenze.
I biografi scopriranno la verità sulle sue origini solo dopo la sua morte.
Coda
In Sunset Boulevard (1949), di Billy Wilder, Stroheim si trova interpretare una parte singolarmente crudele: se stesso. “Max von Mayerling” è un ex-regista, al servizio di una ex-diva dei tempi del muto (Gloria Swanson, realmente diva del muto e per di più diretta da Stroheim nell’incompiuto Queen Kelly) che riceve false lettere da ammiratori immaginari, scritte in realtà dal proprio maggiordomo nel tentativo di non farla impazzire di solitudine. L’idea delle lettere, confessò Wilder, fu di Stroheim.
A concludere una parabola di somma derisione, all’ex-regista verrà infine concessa dal connazionale l’agognata occasione di tornare a dirigere per un’ultima volta, nella finzione, ma sarà “un film-fantasma da girare per un attimo, lungo una scala, prima che il buio inghiotta definitivamente la vecchia star, il set, Stroheim e, forse, il cinema.” (Cappabianca)