Il Bambino
di Valerio Paolo Mosco
Massimo Cecchini, Il Bambino, Neri Pozza, 2023
Il Bambino di Massimo Cecchini è un romanzo prezioso, inconsueto per la letteratura italiana. La storia è comune, se non anonima, e scandalosa al tempo stesso. Il termine scandalo ha un’etimologia greca e il suo significato è quello di pietra di inciampo, l’inaspettato che può accadere a chiunque e che interrompe il percorso. Lo scandalo ne Il Bambino è la nascita di un figlio gravemente disabile in una famiglia borghese normale, tipica degli anni ’70 ma più in generale del mondo borghese del benessere economico e dell’edonismo ad esso associato.
La nascita del Bambino non dà tempo alla famiglia di ragionare: essa è sopraffatta dai bisogni di un essere bisognosissimo, che non può vivere senza il supporto di uno o più esseri umani caritatevoli. Date le necessità la famiglia si allarga con l’arrivo di una coppia di domestiche filippine anch’esse assorbite dalle necessità del Bambino, per poi allargarsi ancora con gli autisti, ovvero dei giovani che portano il Bambino a fare ciò che lui ama di più, viaggiare in macchina di notte.
Simone Weil, che ha messo al centro della sua riflessione la carità, ha scritto che “amore è cura costante”. Attenzione: l’amore non implica attenzione costante, ma semplicemente coincide con essa, una coincidenza che necessariamente implica la devozione. Una devozione che nel quotidiano, come tutte le devozioni ripetute, diventa rito, con le sue regole e i suoi tempi, nel caso specifico della famiglia regole e tempi dettati dal Bambino. La devozione trasformata in rito e in seguito persino in liturgia, intensifica i legami fino al punto di cristallizzarli. La peculiarità, ben compreso dal libro di Cecchini, è che queste trasfigurazioni avvengono senza colpi di scena, senza sussulti, come normale e paradossale evoluzione delle cose. La devozione, sembra raccontarci Cecchini, ha un aspetto non razionale, insondabile, non particolarmente distante da una dose di follia.
Nella devozione la critica è come sospesa, messa da parte: il rito della cura assorbe il cuore e la mente: qui sta la sua forza ancestrale e qui sta il suo limite. Il valore di ciò non può essere pienamente compreso dagli esterni: il rito di sua natura tende a chiudersi in sé stesso, da qui quell’intimità condivisa di cui scriveva la Weil. La famiglia tende perciò nel tempo a identificarsi con il Bambino. Le sue necessità coincidono con quelle del Bambino fino al punto che il l’oggetto della cura è come se prendesse il sopravvento, diventando un alibi per allontanare e poi dismettere le relazioni del mondo esterno.
Cecchini racconta ciò con una prosa piana, compatta, chiosata da ponderate riflessioni, mai assertive e che più che altro non scivolano nel sentimentalismo, in quell’empatia grossolana del tutto inappropriata allorquando si tratta di argomenti realmente gravi, ovvero di quella dimensione, ineludibile dalla vita, denominata tragico. Sembra Il Bambino un libro francese, alla Flaubert: circospetto e indagatore al tempo stesso, che mantiene un pudore e un ritegno attraverso i quali in filigrana traspare un’attenzione al prossimo che fa sì che un racconto privato, anzi del tutto privato, si eleva a narrazione collettiva. “Empatia”, un termine abusato, del tutto appropriato alla straripante letteratura cortigiana e subalterna, che sembra camminare spedita, fiera del suo sentimentalismo d’accatto, ma che inciampa alle volte su delle pietre a terra non viste, inaspettate. Una di queste pietre di inciampo è Il Bambino di Massimo Cecchini.