Silvia Federici: «dal corpo magico al corpo macchina»
È recentemente uscito per D Editore Oltre la periferia della pelle di Silvia Federici. Un’opera che non pacifica, un libro che – tanto negli affronti quanto nei dialoghi – interroga radicalmente gli scenari dei femminismi contemporanei, e il corpo come luogo ancora profondamente politico nel suo continuo farsi e disfarsi.
Ospito qui uno dei frammenti centrali per la riflessione sul capitalismo come macchina disciplinare.
Il corpo nel capitalismo: dal corpo magico al corpo macchina
In Calibano e la Strega (2004) ho affermato che la “storica battaglia” intrapresa dal capitalismo contro il corpo è scaturita da una nuova prospettiva politica che ha posizionato il lavoro come la fonte maggiore dell’accumulazione, concependo perciò il corpo come la condizione di esistenza della forza lavoro e come l’elemento principale di resistenza alla sua spesa. Si spiega in questo modo la crescita delle biopolitiche intese tuttavia non come un generico “gestire la vita” ma come un processo che storicamente ha richiesto costanti innovazioni sociali e tecnologiche oltre alla distruzione di tutte le forme di vita incompatibili con l’organizzazione del lavoro capitalista.
Al riguardo ho identificato l’attacco alla magia avvenuto nei secoli XVI e XVII e l’attuale crescita della filosofia meccanica come siti prediletti per la produzione di un nuovo concetto di corpo e dell’emergere di nuove collaborazioni tra la disciplina filosofica e lo Stato del terrore. Tutti e due hanno contribuito, sebbene con strumenti differenti e su registri diversi, a produrre un nuovo paradigma concettuale e disciplinare, concependo un corpo privo del suo potere di autonomia, fisso nello spazio-tempo, capace di uniformare, regolare e controllare tutti i suoi comportamenti.
Nel Sedicesimo secolo, la macchina della disciplina era già all’opera per perseguire la creazione di un individuo adatto al lavoro astratto e che fosse al contempo costantemente da riorganizzare a seconda dei cambiamenti nell’organizzazione del lavoro, delle forme di tecnologia dominante e della resistenza a essere assoggettato.
La resistenza ci mostra come, mentre nel XVI secolo il modello che ispirò la meccanizzazione del corpo era una macchina esterna, del tipo della pompa o della leva, nel XVIII secolo il corpo si fosse già evoluto in una macchina più organica, che si muoveva da sola. Con la diffusione del vitalismo e della teoria degli “istinti” (Barnes e Shapin, 1979, p. 34), abbiamo una nuova concezione del corporeo, che spiana la strada a un tipo di disciplina diverso, meno basato sulla frusta e più dipendente dal gioco di dinamiche interne, un possibile segno dell’interiorizzazione dei requisiti disciplinari imposti dal processo lavorativo, conseguenza del consolidamento del lavoro salariato.
Il salto più rilevante fatto dalla filosofia politica dell’Illuminismo nell’ambito dell’arsenale di strumenti richiesti dalla trasformazione del corpo in forza lavoro è stato però il giustificare scientificamente la disciplina del lavoro e l’eliminazione di qualsiasi devianza da essa. Rimpiazzando l’attrattiva esercitata dalla stregoneria e dall’adorazione del diavolo, la biologia e la fisiologia del XVIII secolo hanno giustificato le gerarchie razziali e di genere e la creazione di diversi regimi disciplinari, sviluppando contemporaneamente una divisione sessuale e internazionale del lavoro. Molto del progetto intellettuale dell’Illuminismo ruotava attorno a questo sviluppo, nonostante abbia inventato la razza e il sesso (Schiebinger, 2004, pp. 143-83; Bernasconi, 2011, pp. 11-36) o abbia prodotto nuove teorie monetarie che intendevano i soldi come uno stimolo a lavorare, piuttosto che come indicatore di una ricchezza del passato (Caffentzis, 2000; Caffentzis, in fase di pubblicazione). È vero che non possiamo comprendere la cultura e la politica dell’Illuminismo – i dibattiti tra monogenisti e poligenisti, la ricostruzione della fisiologia maschio/femmina come due generi incommensurabilmente diversi (Laqueur, 1990, pp. 4-6), gli studi di craniologia che “dimostravano scientificamente” la superiorità del cervello maschio e bianco (Stocking, 1988) – senza collegare questi fenomeni alla naturalizzazione delle diverse forme di sfruttamento, specialmente quelle al di fuori del parametro legato al salario.
In questo contesto si è tentato di attribuire la diffusione di un meccanismo più organico, evidente nel XVIII secolo in tutto il campo della filosofia e della scienza, alla crescente biforcazione della forza lavoro, e alla formazione di un proletariato maschio e bianco, non ancora in grado di autocontrollarsi ma, come dimostrato da Peter Linebaugh in The London Hanged (1992), che accettava sempre di più la disciplina del lavoro salariato. Si è tentato, in altre parole, di immaginare che lo sviluppo della teoria del magnetismo nel campo della biologia, della teoria degli istinti in filosofia e nell’economia politica (per esempio si parlava dell’istinto a commerciare), e del ruolo dell’elettricità e della gravità nella fisica o nella filosofia naturalista – tutti presupponenti un modello di corpo più mente che non carne e che si spingeva da solo ad andare avanti – riflettano la crescente divisione del lavoro e, con ciò, la crescente differenziazione nel modo in cui i corpi venivano trasformati in forza lavoro. Si tratta di un’ipotesi che dovremmo esplorare maggiormente. Ciò che è certo è che con l’Illuminismo vediamo un nuovo passo nell’assimilazione dell’umano alla macchina, mentre visioni ricostruite della biologia umana forniscono una base per le nuove concezioni meccaniche dell’uomo e della natura.
La psicologia e la trasformazione dei corpi in forza lavoro nell’età industriale
Avrebbe dovuto essere compito della psicologia di fine Novecento perfezionare la costruzione dell’“uomo macchina”, destituendo la filosofia dal suo ruolo strategico. A causa della credenza nelle leggi psicofisiche e delle regolarità causali, la psicologia è diventata la serva del taylorismo, con il compito di contenere i danni causati dal sistema alla psiche dei lavoratori e di stabilire le connessioni appropriate tra umani e macchine. Il coinvolgimento della psicologia nella vita industriale si è intensificato dopo la Prima Guerra Mondiale, che ha fornito agli studi clinici una massa di soggetti uniforme e obbediente, provvedendo a creare un laboratorio formidabile per lo studio dei “comportamenti” e dei mezzi di controllo adatti a ciascuno di essi (Brown, 1954; Rozzi, 1975, pp. 16-17). Inizialmente preoccupata degli effetti del lavoro muscolare sul corpo, ma presto chiamata a far fronte all’assenteismo e ad altre forme di resistenza alla disciplina dell’industria, la psicologia è diventata rapidamente la scienza con il compito di controllare la forza lavoro. Più dei dottori e dei sociologi, gli psicologi sono intervenuti nella selezione dei lavoratori conducendo migliaia di colloqui, somministrando migliaia di test per scegliere “il miglior uomo per la mansione”, per scovare frustrazioni e decidere promozioni (Rozzi, p. 19).
Attribuire patologie intrinseche dell’organizzazione industriale del lavoro a una realtà preesistente, istintiva, (bisogni, inclinazioni, attitudini) e dare un’apparenza di scientificità alle politiche dettate solo dalla ricerca del profitto ha fatto sì che gli psicologi, fin dagli anni Trenta, fossero presenti in fabbrica, a volte in qualità di impiegati a tempo indeterminato, e che intervenissero direttamente nel conflitto tra lavoro e capitale. Come Renato Rozzi nota in Psicologi e Operai (1975), questo intervento nella lotta è stato cruciale proprio per lo sviluppo della psicologia come disciplina. Il bisogno di controllare i lavoratori ha costretto gli psicologi a riconoscere la loro “soggettività” e a adeguare le loro teorie agli effetti della resistenza dei lavoratori. La lotta per la riduzione dell’orario lavorativo, per esempio, è nata in un turbinio di studi medici sul problema della fatica muscolare, rendendolo per la prima volta un concetto scientifico (Rozzi, 20n, p. 158).
Tuttavia la psicologia dell’industria ha continuato a rinchiudere i lavoratori in una rete di costrizioni – il discorso delle inclinazioni, delle attitudini, delle disposizioni naturali – costruita sulla sistematica mistificazione dell’origine delle “patologie” e sulla normalizzazione del lavoro alienante. Il compito degli psicologi è stato quello di negare ogni giorno la realtà dei lavoratori, al punto che gli studi del periodo non hanno alcun valore, come sostiene Rozzi, se non quello di fornire un punto di vista storico o genealogico. È impossibile, per esempio, accettare seriamente teorie come quella della “propensione agli incidenti” (Brown, pp. 257-59), usate regolarmente negli anni Cinquanta per spiegare la frequenza di incidenti sui luoghi di lavoro statunitensi e sostenere l’inutilità dei miglioramenti apportati al luogo di lavoro.
La psicologia è stata essenziale anche al rimodellamento della riproduzione sociale, in particolare attraverso la razionalizzazione della sessualità. L’attenzione posta sulla teoria di Freud e sulla sua costruzione di una concezione della femminilità con basi biologiche, insieme alla sua messa in relazione con la crisi di fine secolo della famiglia della classe media (che Freud credeva essere scaturita dall’eccessiva repressione sessuale delle donne) hanno offuscato il contributo dato dalla psicologia alla disciplina della sessualità della classe lavoratrice, soprattutto a quella delle donne. È indicativa la teoria di Cesare Lombroso secondo cui la prostituta “nasce criminale” (Lombroso e Ferrero, [1893] 2004, pp. 182-92), ispirazione di tutta una serie di studi antropometrici a sostegno della convinzione che la donna che sfidava il ruolo assegnatole alla nascita compisse un salto all’indietro nella scalata dell’evoluzione. La costruzione dell’omosessualità, dell’inversione e della masturbazione come disturbi psichiatrici (si veda, per esempio, Kraft-Ebbing, Psycopathia Sexualis) e la “scoperta” di Freud dell’orgasmo vaginale nel 1905, fanno parte dello stesso progetto. Questa tendenza ha avuto il suo culmine con l’avvento del fordismo, la cui epocale introduzione del salario di cinque dollari al giorno garantiva al lavoratore i servizi di una donna, legando indissolubilmente il suo diritto alla “soddisfazione” sessuale al salario, rendendo al contempo il sesso una parte essenziale del lavoro delle casalinghe. Non è un caso se, durante la Grande Depressione, le donne proletarie che chiedevano l’elemosina venissero requisite dagli assistenti sociali se sospettate di “atteggiamento di promiscuità” frequentando per esempio un uomo senza alcuna prospettiva di matrimonio, e venissero poi messe in manicomi alla mercé di psicologi incaricati di convincerle a farsi chiudere le tube per riconquistare la libertà. Negli anni Cinquanta, la pena per le donne che si ribellavano era ancora più severa dato che si era scoperta la lobotomia, un trattamento ritenuto particolarmente adatto alle casalinghe depresse e fallite che avevano perso il gusto per il lavoro domestico[1].
La psicologia fu portata anche nelle colonie con la teorizzazione dell’esistenza di una personalità africana, giustificando l’inferiorità dei lavoratori africani rispetto a quelli europei e, su questa base, l’introduzione di differenze salariali e della segregazione razziale. Dagli anni Trenta in poi, in Sudafrica gli psicologi hanno ricoperto un ruolo cruciale nell’applicazione dei rituali di degradazione che, sotto il falso nome di “test per la tolleranza al calore” preparavano gli africani a lavorare nelle miniere d’oro, portandoli verso una situazione lavorativa che li privava di qualsiasi diritto (Butchart, pp. 93-103).
Uno sguardo al presente
Cosa abbiamo imparato da questa storia? Tre lezioni importanti. La prima, abbiamo imparato che la disciplina del lavoro capitalista richiede la meccanizzazione del corpo, la distruzione della sua autonomia e della sua creatività, e che nessun resoconto della nostra vita psicologica e sociale dovrebbe ignorare questo dato. La seconda, complici della trasformazione dei corpi in forza lavoro, gli psicologi hanno violato i presupposti della loro devozione alla scienza, ignorando aspetti chiave della realtà che avrebbero dovuto analizzare, come la repulsione dei lavoratori verso l’irreggimentazione che il lavoro in fabbrica impone sul corpo e sulla mente.
La lezione più importante è che la storia della trasformazione del corpo in forza lavoro rivela la profondità della crisi che il capitalismo si trova ad affrontare fin dagli anni Sessanta. È una crisi che la classe capitalista ha tentato di contenere con la riorganizzazione globale del processo di lavoro ma che è riuscita solo a rifocillare le contraddizioni alla base della sua nascita a un livello ancora più esplosivo, poiché diventa chiaro ogni giorno di più che i meccanismi che garantiscono la disciplina richiesta per la produzione del valore non sono più in moto. I movimenti degli anni Sessanta e Settanta sono stati un punto di svolta sotto questo aspetto, hanno espresso una rivolta contro il lavoro in fabbrica che aveva investito ogni articolazione della “fabbrica sociale”, dalla catena di montaggio al lavoro domestico, alle identità di genere funzionali a tutti e due. La depressione degli operai, la richiesta dei lavoratori di avere pause piuttosto che più soldi in cambio di più lavoro, il rifiuto femminista della naturalizzazione del lavoro riproduttivo e l’ascesa del movimento gay, seguito di poco dal movimento transessuale, sono davvero esemplari. Esprimono il rifiuto di ridurre la propria attività a lavoro astratto, di rinunciare alla soddisfazione dei propri desideri, di interfacciarsi al corpo come fosse una macchina, di determinare e l’intento di definire il corpo in modo indipendente dalla nostra capacità di funzionare in quanto forza lavoro.
[1] La lobotomia è stata pratica comune per oltre due decenni, diffusa per lo più negli Stati Uniti, dove negli anni Cinquanta quasi quarantamila persone furono sottoposte alla procedura, la prima eseguita nel 1936. Il picco di casi si ebbe nel 1949, quando si praticarono oltre cinquemila operazioni. Le lobotomie venivano eseguite anche in Gran Bretagna e nei tre Paesi nordici, Finlandia, Norvegia e Svezia. Gli ospedali scandinavi lobotomizzarono due volte e mezzo più persone per capita degli ospedali negli Stati Uniti. La stragrande maggioranza dei pazienti sottoposti a questa procedura era donna. Si veda Joel Braslow, Therapeutic Effectiveness and Social Context: The Case of Lobotomy in a California State Hospital, 1947-1954, in Western Journal of Medicine, vol. 170, n.5, BMJ, London 1999, pp. 293-96. Nonostante la perdita di spontaneità e desideri individuali, sia i dottori che i mariti ritenevano che le donne lobotomizzate traessero grande giovamento dall’operazione, consideravano l’abilità di cucinare, di pulire e di portare a termine le faccende di casa come parte integrante della ripresa post-operatoria.