Investimenti e disinvestimenti ( dettagli)
di Giorgio Mascitelli
Nelle scorse settimane campeggiava nelle stazioni della metropolitana milanese una réclame recante lo slogan Investi in borse, non in borsa. Confesso che la cosa che mi ha più colpito, essendo io fuori target per il prodotto pubblicizzato ed essendolo forse per qualsiasi merce, a giudicare dalle scarne e generiche proposte pubblicitarie che mi rivolge l’algoritmo, è la perfetta tempistica dell’uscita dei cartelloni, appena pochi giorni dopo il crollo delle borse a seguito del fallimento della Silicon Valley Bank e della successiva crisi del Credit Suisse. Di fronte a tanta prontezza devo dire che mi sono chiesto se esistessero anche gli instant billboard, esattamente come ci sono gli instant book.
Naturalmente non so come sia andata, anche se mi piacerebbe saperlo, quello che è certo è che una simile pubblicità rappresenta un piccolo sintomo di un cambiamento nell’immaginario contemporaneo. Difficilmente dei pubblicitari, infatti, affiderebbero la sorte di un prodotto a un messaggio, per immagini e per parole, che non sia codificato entro un sistema di valori accettato positivamente nella nostra società e proprio questo dato di fatto contiene un segnale inquietante per broker, banchieri e affini.
Dunque il messaggio della réclame è quello che sarebbe meglio investire il proprio denaro in un oggetto di moda che, anche se non privo di un valore pratico, ha evidenti finalità voluttuarie piuttosto che vedere andare in fumo i propri risparmi nei giochi speculativi di borsa. Non si tratta di una novità in assoluto, in fondo nell’avanguardia novecentesca possiamo trovare affermazioni analoghe, per esempio ne Il codice di Perelà di Palazzeschi, quando l’omino di fumo incontra il banchiere Teodoro Di Sostegno, quegli si affretta a spiegare all’illustre interlocutore che loro due a ben vedere si occupano della stessa materia perché se Perelà è di fumo, lui stesso, si potrebbe dire, è di carta e pertanto sa cos’è il fumo. Ma questo per gli operatori finanziari non è mai stato un problema perché Palazzeschi era uno scrittore, perdipiù futurista, ed è normale che gli artisti dicano verità del genere o collochino della statue a forma di dito medio alzato davanti all’entrati della borsa. Di diversa natura è la stessa affermazione, la stessa battuta, fatta da una pubblicità per due motivi: in primo luogo perché pubblicità e borsa fanno parte della stessa parte di mondo, quella dei valori solidi che reggono la società, quella del progresso, quella delle formiche, e in secondo luogo perché, a differenza degli artisti d’avanguardia, i pubblicitari conoscono e rispettano il valore del vecchio adagio popolare ‘scherza con i fanti, ma lascia stare i santi’ e mai e poi mai giocherebbero con valori portanti e socialmente condivisi perché la loro mission ne sarebbe danneggiata.
In altri termini il fatto che sia uscita una pubblicità di tale tenore testimonia che sempre di più tra le idee diffuse nella nostra società vi è quella di accostare i giochi di borsa a quelli d’azzardo; naturalmente poi i pubblicitari propongono come alternativa non il risparmio ma di collocare il denaro in beni più piacevoli e godibili dell’accumulazione, peraltro molto aleatoria, ma il segnale che ormai uno dei fondamenti più seri della religione informale del nostro tempo, la borsa, sia considerato alla stregua di un giocattolino inaffidabile è chiaro. Probabilmente questa trasformazione è dovuta al fatto che quindici anni tra una crisi e l’altra sono troppo pochi, specie se la società non si è ancora ripresa del tutto da quella precedente. Forse non è nulla, è solo una réclame che sparirà nel giro di pochi giorni o forse ci stiamo avviando a vivere una di quelle fasi storiche transitorie in cui le idee dominanti non sono quelle delle classi dominanti.