Matteo Bianchi: «ogni nome si conficca nel flusso di un tempo»
di Matteo Bianchi
sei inediti e una riflessione inaugurale
Davide Conti – Modern Paint
La poesia, oggi come mai, appare lo strumento simbolico dell’indipendenza dai canoni ermeneutici e ideologici eterocliti, come quelli sociali e politico-culturali, proprio come manifestato da Luzi, nel dialogo Presso il Bisenzio, e da Pasolini con l’inquietudine di non riuscire a essere allineato ad alcuna idea preconcetta. Dagli esordi con Fischi di merlo (2011) a L’amore è qualcos’altro (2013) sino a La metà del letto (2015), il processo poetico è sempre stato fondamentale per trasformare il portato di realtà che non riuscivo a giustificare razionalmente. E tale disarmonia mi allontanava via via dal rapporto con gli altri, ma di più, dalle interazioni invisibili con il mondo esterno. Per questo la poiesi si è rivelata un approccio al quotidiano con cui assorbire ciò che mi impressionava delle vite altrui, ma senza imporre a me stesso una doverosa consapevolezza, per poi restituirlo con uno stile riconosciuto, con un verso capace di disinnescare la durezza dei vissuti più dissonanti dal mio. Ho inteso da subito la mia Metà come una presa di distanza dall’io spaventato e vulnerabile per ritrovare una dialogo collettivo. Con Fortissimo (2019) e con gli inediti di Christopher (2022), invece, l’ampiezza metaforica quanto ritmica del linguaggio poetico smonta in determinati momenti epifanici, coincidenti con la negazione delle scadenze accessorie e delle ripetizioni convenzionali, la vista del reale schiacciato dal presente, dalla logica imperante dell’hic et nunc; parimenti l’elaborazione di un lutto o lo stravolgimento di una nascita ci separano da una parte di noi, come un colpo di tosse che stacca dal respiro le scorie velenose. L’eco del passato mi aiuta a essere presente, mi rammenta che i rami degli alberi davanti a casa, o dietro al posto di lavoro, restano nudi sotto il tono di una stagione.
Ho scelto di indagare alcuni passi dell’exemplum cristiano poiché già insiti nel mio panorama immaginifico, volgendomi a parte della traversata narrativa di Hesse, in particolare a Siddharta e a Il lupo della steppa. E se il Nuovo Testamento mi ha guidato al ricongiungimento con una prospettiva corale attraverso un dolore condiviso, lo stesso dolore che mette a nudo senza possibilità di impostura, ho sempre considerato inesauribile il bacino biblico in termini di archetipi. In Christopher, oltre all’isolamento sociale a cui è condannato il protagonista del poema, motivato peraltro dalla biografia travagliata del performer Christopher Channing, è centrale la questione del tempo. Ispirandomi alla passeggiata nel cimitero di Spoon River di Masters, sono convinto che grazie al medium poetico chi raccoglie le testimonianze, credendo nella dignità del racconto, riesca a interloquire con il passato sotto ogni lapide. Si compone così il mosaico di un’umanità di concezione dantesca, soggetta a una ciclicità rigenerante, ma visibile solo dopo essere usciti dal cerchio terrestre, «l’aloia che ci fa tanto feroci»; mentre ogni nome si conficca nel flusso di un tempo immemore con la propria singolarità passeggera, vibrante e imprescindibile solo se messa in relazione alle altre, ma di per sé insignificante. La ratio del mito, inoltre, emerge dal puro meccanicismo storico e da ogni tentativo, letterario o meta-letterario, che voglia inglobare la spiritualità nella realtà, per tracimare nella rivalutazione di un’energia vitalistica pure, aderente alle dinamiche del tempo in cui sorge, ma non coartata dalle medesime. E penso ad Alessandro Ceni, «se sulla soglia / al rovinìo tra i rami delle merle / hai visto il figlio discendere sul padre / e aprirsi alle parole / per dirgli la parola che non salva (…)». Semplificando Heidegger con disonore, imbastisco un discorso sulla trasformazione del reale, delle memorie e dei fatti contingenti da parte del linguaggio poetico che con meno parole di altri linguaggi riesce a significare la quotidianità con continui rimandi a ogni altra epoca umana.
Davide Conti – Modern Paint
Da Christopher
In ginocchio strofinavi lo smalto
di un piatto messicano fin de siècle.
In ginocchio sul pavimento del bagno
di un modesto atelier.
Spalmavi la cera abrasiva
sui decori dorati a mani nude,
piano, con le dita, e ti accanivi
dove l’ottone cedeva la luce
alla ruggine del tempo.
Insistevi con gli stracci e con le pezze
per lucidarlo, per levare
dai bordi il nero presagio
lasciato dagli anni.
Mi davi le spalle indaffarato
e benché il tuo buio
credessi di avermelo mostrato,
benché ne fossi persino convinto,
io non l’avevo mai notato;
di te mi era concesso soltanto
qualche fregio fugace
di un passato prezioso.
E ne rimandavo l’usura.
*
Era un moto istintivo.
Se volevi proteggere qualcuno
lo abbracciavi e, portandolo a te,
scoprivi la tua schiena.
Quando la luce era una minaccia,
ecco che compariva l’ombra.
Magari era per questo
che in te scorgevi più buio,
molto di più di quello che c’era.
A Jacques Lecoq
*
Ti scoraggiava il valzer
degli strumenti da cappello
vicino a Saint Luis:
«fare l’amore è circolare
e finale in tre quarti,
un, due, tre…
come un valzer straniero.
L’atto di amare si chiude a cerchio,
un, due, tre…
il quarto, lo spicchio voluto,
lo farebbe un quadrato,
spigoloso l’incastro dei rapporti».
Per te non c’era mai la luna piena.
*
Eravamo costretti, a volte,
a tralasciare certi particolari,
a fingere che la passeggiata fosse peggio
di quello che era, se messa a fuoco.
Non saremmo più riusciti, altrimenti,
a distogliere lo sguardo
dal brulichio infernale
del boulevard périphérique.
*
Sui marciapiedi sono tutti diversi,
ciascuno si appoggia alla terra a suo modo:
«c’è chi è tirato da un filo sottile
e chi cammina sospinto dal vento,
chi si pianta a ogni passo
e chi non si azzarda, in punta di piedi».
Noi finivamo a braccetto,
sincronizzati.
*
Entravi spesso al Sacro Cuore
per trovare pace
da un’estate ad ore,
nella cornice del tuo personaggio.
«In fondo all’androne il mosaico
del Cristo, una macchia
fervida di colore e,
a mano a mano che mi accingevo a Lui,
assumeva i tratti del dolore. Sfinito.
Mi sdraiavo sotto la sua croce».
MATTEO BIANCHI, trentacinque anni, si è specializzato in Filologia moderna a Ca’ Foscari sul lascito lirico di Corrado Govoni, sulla cui poetica ha curato l’Annuario govoniano di critica e luoghi letterari (La Vita Felice, 2020). Ha pubblicato le raccolte Fischi di merlo (Edizioni del Leone, 2011), L’amore è qualcos’altro (Empirìa 2013), La metà del letto (Barbera, 2015), Fortissimo (Minerva, 2019), e le plaquette Un’ombra in due (L’Arca Felice, 2014). È stato presentato su “Gradiva” sia da Giancarlo Pontiggia sia da Francesco Scarabicchi. Suoi versi sono apparsi in varie antologie, tra cui il Quadernario (a cura di M. Cucchi, LietoColle 2016), nel numero antologico di “Función Lenguaje” (n. 8, 2019) dedicato alla poesia italiana contemporanea, a cura di P. Ruffilli con le traduzioni di Josè Luis Reina Palazon, su “Poesia” di Crocetti, “l’immaginazione”, “Capoverso”, e le italosvizzere “Cenobio” e “Bloc notes”.
Dirige “Laboratori critici. Semestrale di poesia e percorsi letterari” per Samuele Editore, è redattore di Pordenoneleggepoesia.it e, come giornalista, collabora con le testate del Gruppo Sae, con “Il Sole 24 ore”, “Left” e Globalist.it.