Marta Vive
di Bruno Barbera
Marta vive. Ma non nel senso che è morta e che dobbiamo sorbirci uno di quegli slogan conditi da celtica sui muri della città, è viva e mi ricordo il sapore che c’era dentro la sua bocca, tra labbra e gengive, era rugiada e morfina insieme. Avrei potuto infilare una cannuccia in quello spazio e succhiare la saliva mentre lei la produceva, succhiare all’infinito.
Non sono d’accordo, rispondo a me stesso. L’infinito non è contemplabile per definizione, e la conclusione si manifesta sempre quando la saliva finisce, le bocche si fanno secche e non possono più articolare parole, questa è la morte e non c’è desiderio che tenga.
Lei è morta, dunque, morta sul serio. E sappiamo tutti chi è stato il mandante. Sei stato tu quando hai deciso di accartocciarla come un opuscolo informativo su sé stessa che lei ti aveva consegnato, e tu sei riuscito a dimenticarti della provenienza, della delicatezza della carta, e hai solo considerato svagatamente che degli opuscoli si è soliti liberarsi il prima possibile. O forse è perché non credi nelle lettere che formano le parole, e non hai mai avuto la pazienza per leggere un libro di mille pagine come fa la gente che muore insieme.
Non è così, mi rispondo ancora. Lei è morta, e su questo non ci piove, ma il mandante è un altro. È morta per fare spazio. Perché dal suo cadavere in decomposizione sbocciassero fiori, cosicché la natura fosse finalmente contenta.
Fuori è estate, mentre un turbinio imperterrito di foglie gialle, rosse e marroni mi definisce da dentro. Il mio colorito rimane però imperturbabile, non tradisce alcun indizio all’esterno.
È solo la storia di Marta che ho da raccontare a poter dare un’idea dei miei sommovimenti interni, ma mi sembra ormai da tempo che qualcuno abbia iniettato del botulino nella mia lingua, e quando succede questo le lingue non possono più articolare parole. E a ben vedere non si tratta solo degli organi della fonazione, sono i miei occhi che non saranno mai i tuoi, e il tuo cuore che non sarà mai il mio, e di conseguenza le parole non basteranno, diceva qualcuno.
Allora perché quando parlavo con lei le nostre, di parole, si intrecciavano semplici come paglia di un cesto, e brillavano anche se destinate a morire o forse già morte come le costellazioni, chiedo a me stesso. Ho sempre pensato alla comunicazione non verbale come a un atto insuperabile, che coinvolge epidermidi e mucose con esattezza chirurgica. Ed è vero, mi sembrava di sentire la sua aorta pulsare nel mio torace, la pelle dell’incavo dietro le sue ginocchia torturarmi il cervello, e la sua lingua tutt’altro che paralizzata sapeva lambire la mia e incidervi simboli disarmanti. Ma c’era pure, miracolosamente, dell’altro. Non hanno forse le parole, bellissime e vuote di impossibilità, a che fare coi miracoli?
Così avrei e non avrei cose da raccontare su di lei, e vago per i quartieri di periferia della città, chiedendo asilo a panchine e a spazi verdi come fossero scialuppe su un oceano di cemento.
Al funerale di Marta c’erano tante persone ma nessuna ha voluto parlare con me. Nei giorni seguenti ho ricevuto solo un sms sul cellulare, da un numero sconosciuto, ma era scritto con dei caratteri incomprensibili. Continuavo a rileggerli e mi pareva sempre di intuire che quei simboli avessero comunque un significato. A volte mi sembrava di essere sul punto di afferrarlo, e ripensavo a lei quando cercava di insegnarmi a leggere anche ciò che non si può leggere, come una foglia. Ma senza la sua voce viva a ricordarmi cosa fare, i caratteri di quel messaggio rimanevano alla fine solo un mistero piantato su uno schermo come chiodi in una bara senza nome.
Marta, giovane e determinata, aveva lasciato l’università per fare l’arrotina, l’arrotina e l’ombrellaia, e riparare le cucine a gas. Quando ci eravamo incontrati aveva affilato i miei sensi, mi aveva riparato sotto l’ombrello della sua amabile risolutezza, e poi mi passava anche endorfine. Formato granulare, come l’oki per il mal di gola, in pratiche bustine da portare in tasca sempre con sé. Sapeva bene che l’anedonia non se ne va mai da sola. Da quando è morta, a questa città io chiedo asilo e una risposta, a volte mi muovo seguendo la distribuzione dei tombini, e spesso cerco la vicinanza al suolo per ricordarmi il punto di vista della terra sulle cose.
Le lettere non andrebbero mai aperte, bisognerebbe rispettare il riserbo e il vincolo dell’inchiostro che non avrebbe mai voluto denudarsi sotto forma di parole intellegibili, mi dico quando penso.
Le lettere dell’alfabeto sono le ossa di un messaggio; i muscoli e i tendini e i legamenti ce li metteremo noi, soffiandoci reciprocamente parole soffici dentro la bocca, mi dico quando penso a Marta.
Un giorno, su una panchina, mi arriva finalmente la sua risposta a un mio improvvido messaggio. La combinazione delle sillabe che ha selezionato è perfetta, tagliente come la lama di Dio. Dio non ha forse a che fare coi miracoli? Ho percepito un taglio miracolosamente penetrante quando lei è morta, e un altro ancora quando ora mi scrive affilata e definitiva.
Prima di essere lama e prima di essere morta Marta però era mia, e prima ancora di essere mia era un sogno rimasto in sospeso, enorme ma tascabile, da portare sempre con sé, come un accendino che non si scarica mai perché mai utilizzato.
Perché almeno questo credo di averlo letto su un libro, e per una volta mi pareva che la verità fosse impressa nella cellulosa come la vita nelle nervature di una foglia, le cose si consumano come candele, e l’unico segreto per preservarle è non accenderle, al prezzo di non sentire il profumo come quello di Marta. Ma allora perché alcuni a questo mondo risolvono l’enigma della persistenza, trovano la formula chimica che arresta la scissione e cristallizza il sorriso, e custodiscono tutto questo come un segreto, chiedo a me stesso.
Quando viene meno anche il sostegno delle panchine vorrei sedermi sui marciapiedi, per essere ancora un po’ più vicino al centro della terra e delle cose. Poi penso che di questo passo mi consumerò i pantaloni e che forse sarebbe stato meglio non consumare mai niente, soprattutto lei, ma d’altra parte un desiderio appagato e uno che non lo è sono due facce della stessa tragedia, diceva qualcuno. Non c’è scampo. La tragedia in questione si incarna in una moneta che, proprio da un marciapiede, lancio in aria per decidere non ricordo più cosa e poi ricordo che non importa da quale lato atterri, perché tanto cadrà dentro a un tombino, e in quei liquami essere testa o croce è la medesima cosa.
Mi muovo. Periferia fuori e periferia dentro, casermoni scrostati che altro non sono se non ricordi conservati male e ammuffiti.
Marta ora probabilmente fluttua per la strada, e si è ricamata una nuova veste fatta apposta per emanciparsi dai miei sporchi sobborghi. Per dimenticare il brutto insieme a tutto il bello, perché erano due facce della stessa interazione e finiscono nello stesso secchio della raccolta differenziata. Così ora forse è ignara delle insurrezioni di fantasmi, del ghigno delle macchine che tramano nel buio, del suono dello tsunami prima dello schianto. Ignara come se fosse morta e fredda, come se fosse ancora in una stanza buia dalle librerie vuote e pericolanti, sola insieme a me.
Quando la sogno indossa contemporaneamente la sua gonna grigia a pieghe, i pantaloni della tuta che usava in casa, una camicetta bianca, una maglietta che non ricordo più cosa ritraesse ma aveva un che di commovente tenerezza, la collana di perle, nessuna collana di perle, il trucco che le avevo suggerito con molto garbo di usare con parsimonia, il suo colorito naturale fatto di capillari e gioia nell’incontrarmi.
La sogno, mi guarda. E dice sempre la stessa cosa.
Ciao.
Sono il tuo personale incidente automobilistico, interno e al rallentatore, il frastuono delle lamiere risucchiato dalle pareti insonorizzate del cuore.
Cosa ne farai?
La natura ha voluto che lei fosse morta perché ha un suo preciso piano che prevede il ricambio e la trasmutazione, e io non sono stato altro che un mezzo, un burattino mosso dai suoi capricci.
Siccome la natura comanda e noi obbediamo, al posto di Marta sorgerà quindi un campo fiorito, di fiori bianchi, il cui profumo sarà lo stesso che Marta usava. Sarà anche l’odore naturale della sua pelle e quello di tutte le cose che lei sapeva dire e delle matasse di pensieri che mi chiedeva a volte di dipanare, e io non sempre ce la facevo, e tutti questi odori potranno così incastonarsi nel cuore di qualcuno e offrire sollievo anche solo per un momento ma non a me, non per me, perché io a quel campo fiorito non avrò accesso, ci sarà un cartello con la mia faccia e su scritto “io non posso entrare”. Oppure potrò entrare, ma i miei recettori dell’olfatto saranno inerti per il sortilegio maligno che ho attirato su me stesso, e tutto quello che potrò fare sarà solo leggere un cartello piantato in mezzo ai fiori con su scritto “questa è Marta”.
Quando a novembre esco dal laboratorio con il periodico referto della mia vita vorrei piangere, sedermi su un marciapiede come un mendicante ma senza elemosinare, o almeno non palesemente. Solo piangere, piangere così per piangere e stare a vedere se per caso qualcosa succede, ma questo qualcosa devo sempre dannatamente farlo accadere io, ed ecco che allora la vedo all’improvviso sbucare da un angolo della strada, venirmi incontro e sollevarmi lo sguardo, sfiorandomi il mento con le dita. Le cose che lei sapeva dire offrirebbero un’iniezione di botulino alle mie ghiandole lacrimali e anestesia alla mia posa dolente da mendicante. Anestesia, perché di questo si tratta, non è una cura.
Ma allora perché quando Marta indossava il suo camice e praticava l’anestesia persino il crepuscolo della sua stanza sembrava splendente e sincero come costellazioni, chiedo a me stesso.
Lei è morta, e questo è palese. Però vive, solo che vive lontano da queste strade, dove i desideri rotolano nei tombini e laggiù si decompongono e dalle grate allora esce un fumo che però non ha l’odore di Marta.
Sul soffitto della mia stanza vedo al rallentatore lei e me mentre scherziamo a bassa voce in una chiesa, ci prendiamo un po’ gioco di quel Dio e dei suoi miracoli. Invece che un gesto di pace ci scambiamo endorfine attraverso le nostre dita intrecciate morbidamente come il braccialetto che lei portava legato alla caviglia. Eppure, dal soffitto a volta della chiesa, posso anche scorgere i miei occhi che continuano a cadere sulle candele liturgiche, che dovrebbero simboleggiare l’intreccio tra uomo e Dio, mi dico, ma ora mi sembra piuttosto che consumandosi scandissero e mi comunicassero il tempo prima della fine, meglio dell’orologio più spietato al mondo. E mi chiedo se per caso gli occhi di Marta, rischiarati dal riverbero delle fiammelle, fossero già capaci di scrutare dentro di me al punto da scorgere i germi di quella fine.
La morte vuole concime anche me, lo so bene, ma a me sembra di non avere ancora finito qui; vorrei seguire le tracce di Marta, entrare nei negozi dove entrava lei, mangiare quello che mangiava lei, essere schizzinoso su tutta una serie di piccole o grandi cose, dormire nel suo letto e nella sua stessa posizione liquida con gli arti gettati sul letto come schizzi su tela.
Vorrei diventare Marta, ed essere lei anche solo per una volta, e non soltanto aver avuto il limitato privilegio di ascoltarla parlare. Anche se Le parole sono bellissime, mi ripeteva. Non ci avevo mai creduto ma quando lo diceva lei e quando le sue sillabe rifinite e articolate giocavano a incastrarsi come in un tetris con le mie mi sembrava che fosse tutto dannatamente vero, che la verità fosse impressa su quelle sillabe come una scritta nel marmo. Ed è quando lei ha smesso di parlare che il gioco è finito.
Molta gente passa a salutarla al campo. In quei casi io devo tenermi lontano. La cosa strana è che, anche a debita distanza, mi sembra di sentirla rispondere a quelle persone, e forse sembra così anche a loro, perché parlano con fare sempre più concitato. Non so se è una banale allucinazione collettiva dettata dalla ritualità del rapporto che abbiamo con i morti oppure se Marta è davvero viva, e le sue parole sono le migliori che si potrebbero mai immaginare, sono petali e polline che si spargono nell’aria e offrono i suoi segreti e i suoi più recenti sospiri al cuore di qualcuno che non sono io.
Ho seguito il fumo dei tombini, l’unico odore che avevo a disposizione, fino a febbraio, quando l’ho intercettata attraverso la vetrina di un negozio di vestiti che lei era solita frequentare. Eppure ricordavo di averla vista poco tempo prima, attraverso una patina di fluido disilluso che mi velava gli occhi, scolpita nel marmo. O meglio, era il suo nome scolpito nel marmo, ma il suo nome È Marta. Cioè, voglio dire, lei è le lettere del suo nome. Le lettere non funzionano, provo a ricordare a me stesso. Sono solo l’anticamera delle parole, e questo dice tutto.
Allora perché le lettere del suo nome su una lapide pesano come un baule gonfio di lettere scritte da Marta, dove annotava tutte le cose che lei sapeva dire ma per qualche ragione non mi ha mai detto e che mai saprò, ora quel baule lo hanno seppellito nel campo fiorito che è lei, chiedo a me stesso.
Marta affonda nella memoria. Lì è viva ed è chiusa in una stanza piena di librerie vuote pronte a crollare al suolo. Non posso fare altro che gridare, gridarle Marta, stai attenta! Stai per morire! Lei mi sorride e prende le mie mani nelle sue. Solo allora mi rendo conto che le mie, di mani, sono sporche di sangue, e che lo stesso sangue macchia il suo vestito all’altezza dell’addome. Allora mi dice, con quel sorriso che è carta di caramelle e carta vetrata assieme, Non ti preoccupare, sarò fiori, e la gente verrà ad annaffiarmi e tu non dovrai curartene più, non dovrai più curarti di me. Avrei voluto dirle che in realtà io desideravo prendermi cura di lei fino alla fine, desideravo solo quello e con tutto il cuore, solo che la fine era venuta a bussare prima del previsto alla mia porta, e quando avevo visto il suo volto orribile scavato nella carne dell’assenza non avevo saputo fare altro che cedere terrorizzato. Così è andata che Marta l’ho dovuta uccidere io, per volere della fine, come anche per volere della natura. Questo avevo e questo ho, ripeto a me stesso. A parte una panchina e il mangime da dare agli uccelli, ma non sono né abbastanza piccolo né abbastanza vecchio per farlo.
Marta sdraiata nel campo guarda gli uccelli volare e riempire i vuoti dei cieli, contornare le nuvole e disegnare tratti da bambini, e le si riempiono gli occhi di grazia. Finché sarà capace di leggere le lettere incise in quelle traiettorie, non sarà morta. Avrà parole da regalare a chi sarà capace di dare loro un peso che le tenga a terra concrete, e una leggerezza che le lasci poi librarsi nell’aria, con il profumo di lei che si mescola a tanti altri appesi all’orizzonte.
Quel giorno di inizio febbraio, quando l’ho vista nel negozio, ben presto i suoi amici se la sono portata via, probabilmente avendo intuito che ci fossi io nelle vicinanze. Non credo avessero avuto bisogno di vedermi in faccia, dovevano piuttosto aver colto delle piccole vibrazioni nelle sue palpebre, come un tic nervoso o forse i prodromi di un disturbo post traumatico da stress candidamente legato al fatto che io l’avevo uccisa.
Allora ho dovuto lasciar perdere e sono andato al campo fiorito per salutare Marta. Stavolta non c’era nessuno, e vista la stagione nemmeno il muro mistico eretto dal suono delle cicale. Solo silenzio, come una singola lettera resa afona e disinnescata dal gelo dell’inverno ancora regnante. Così mi sono potuto avvicinare e no, non ho sentito alcun profumo, e quando poi ho alzato lo sguardo al cielo non c’erano nemmeno uccelli. Anche loro dovevano essere in giro a cercare Marta perché essere guardati da lei, da quei suoi occhi, dava tutt’altro senso alle loro traiettorie, dico a me stesso.
Quello che ho, oggi, è che lei è morta in un incidente quattro anni fa, ed era estate, anche se le foglie autunnali già vorticavano dentro di noi, ma ne facevamo un gioco e le leggevamo con le dita sfiorandone le nervature come fossero braille. Un normale, così avrebbe dovuto essere, normale tratteggio lungo una carta autostradale. Poi la negligenza, quella stria nera delle cose che scivolano via, quella che distingue l’omicidio volontario dall’omicidio colposo, ma a me sembra che sia lo stesso, perché il peso specifico non cambia. Poi solo il frastuono delle lamiere, risucchiato dalle pareti insonorizzate del cuore. Cosa ne faremo? Non so, Marta, sono passati quattro anni e ci sto ancora pensando, sai. Se però la smettessi di comparire dietro le vetrine e andare in giro con i tuoi amici per me sarebbe tutto più facile. Nel campo che tu sei io vorrei addormentarmi ma anche talvolta non tornare più, e risparmiare a me stesso almeno una delle tante sfumature del tuo volto che pure vado ancora cercando, così intanto proverò a scrivere una lettera come mi hai insegnato e proverò a spedirla mettendo i fiori come destinatario.
Clack, era il rumore che facevano le ossa della sua figura esile con le mie quando la stringevo a casa sua come negli spazi verdi oasi tra il cemento.
Le ossa non sono solo ossa, mi dicevo allora, sono il codice di un messaggio. È vero, non funzionano senza i muscoli, i tendini e i legamenti, ma niente funziona se non funziona qualcos’altro.
Marta, non conosco con precisione l’alfabeto di cosa ho fatto, ma forse importa più quello di ciò che non ho saputo fare. Sono i libri non letti quelli che finiscono per assorbire inchiostro e restituire sangue e così i tuoi vestiti, una volta ricoperti solo di lettere, saranno per sempre macchiati. Io però lo so che respiri altrove e in un altro tempo, che hai fatto del marmo un ciondolo e che stai studiando di nuovo il volo degli uccelli, stavolta non solo per innaffiare il tuo cuore come vorrei poter fare io con i fiori del tuo campo, ma anche per trarne splendide previsioni per il tuo futuro. Ora che ho capito che hai un futuro scritto in quelle chiazze scure e volatili nel cielo, Marta, ho capito anche tutto il resto. E cioè che quella libreria vuota che si è schiantata per terra non era in camera tua, era la mia, e ha ceduto alla gravità proprio perché inutile e impotente; i libri che non ho mai avuto la struttura per leggere ora sono tuoi, te li sei presi e mai avrei potuto avere qualcosa da ridire. E i tuoi vestiti macchiati di sangue sono in realtà i miei, perché i colpi che ti ho inflitto hanno trapassato il tuo candore e si sono ritorti contro di me; mentre per quanto riguarda i fiori bianchi nel campo, la verità è che li ho piantati io, così come il cartello “questa è Marta”. Su quella lapide di marmo, ora lo leggo chiaro come mai mi è successo in vita, c’è invece scritto il mio nome. E adesso che vedo le sue lettere scavate così nitide nella pietra capisco davvero, anzi mi ricordo davvero, qual è il potere delle parole: era nella pienezza che solo il tuo, di nome, poteva addizionare ad esse, mentre ora giace nella sottrazione tra quelle che tu mi dicevi e quelle che ormai non puoi dirmi più.