La meraviglia è di tutti
di Valerio Paolo Mosco
Luca Molinari, La meraviglia è di tutti. Corpi, città, architetture, Einaudi, 2023
Il libro di Luca Molinari La meraviglia è di tutti (Corpi, città, architettura) è un libro ottimista. Il sinonimo di ottimismo in architettura è progetto. Progetto, ovvero dal latino “getto avanti”, prevedo. La tanto criticata modernità è stata senza dubbio progettuale; ha prospettato non solo forme nuove, ma anche stili di vita nuovi: nuovi e collettivi. È stato, quello della modernità, il tempo delle grandi narrazioni volte al futuro, in cui ciò che era di valore era ciò che “gettava avanti” il genere umano. Nei primi del Novecento Max Weber andava ripetendo che “le idee cambiano il mondo” e la sua affermazione sembrava provata dai fatti: le idee cambiavano il mondo, non certo sempre in positivo. Poi il moderno è imploso in sé stesso; le narrazioni, accumulatesi nel tempo, hanno mostrato il loro lato oscuro; la modernità da promessa era diventata un meccanismo implacabile e stritolante: Rousseau aveva ceduto il passo a Hegel e la libertà era diventata l’incubo del bene comune imposto. Già dai primi anni Sessanta era diventato allora necessario decostruire la narrazione moderna, scegliere di essa alcuni frammenti e scartarne altri. Al limite era necessario anche dissacrarla, rendere il profetico, come scriveva Nietzsche, canzonetta da strada. La postmodernità, ci ricorda Molinari, ha avuto questa funzione che ormai, dopo più di mezzo secolo, possiamo consegnare alla storia. Ogni epoca paga un prezzo, è inevitabile. Se allora il prezzo della modernità è stato il dirigismo repressivo, quello della postmodernità è stato il relativismo debilitante, il comprimere la narrazione ad evento personale, edonista e triste al tempo stesso.
Ancora Max Weber aveva parlato all’inizio del secolo scorso di “disincantamento del mondo”, una profezia avveratasi proprio nella postmodernità. Molinari prende le distanze sia dal moderno che dal postmoderno: per lui (e in ciò concordiamo) sia il progetto impositivo che quello dissacrante sono archiviati dalla storia. Da dove ripartire allora? Molinari chiama questo punto di ripartenza la “meraviglia”. Il termine è chiaramente una metafora; in esso confluiscono il recupero dello stupore di fronte a ciò che si distacca dal mondo inflazionato e corrivo, ma anche meraviglia come recupero di una sensorialità che troppe immagini, troppi intellettualismi e sperticate interpretazioni, ci hanno fatto perdere. A riguardo l’autore parla di “imprevedibilità controllate”, ovvero di progetti che sono imprevedibili in quanto attivano in noi sensazioni e riflessioni tali da farci vedere in maniera diversa ciò che stiamo vedendo e vivendo. In fenomenologia ciò accade attraverso un’azione preventiva, l’epoché, ovvero la sospensione delle aspettative, o meglio la disattivazione di quel processo analogico che, inconsciamente, preclude il vedere il nuovo o l’inaspettato che dir si voglia. Il progetto dunque come dispositivo per un coinvolgimento, possibilmente pubblico, che ci aiuti a rinsaldare quelle relazionalità che il digitale, il Covid, l’eclissarsi dello spazio pubblico, tendono a negarci.
La meraviglia per Molinari non riguarda, come siamo abituati a considerare, lo stupore di fronte alla forma strabiliante, chiusa in se stessa, che al limite ci sovrasta, ma la meraviglia di sentirsi trasportati in un’atmosfera in cui restauriamo noi stessi e lo facciamo con gli altri, supportati dall’architettura e dallo spazio che ci circonda. In altre parole (e in ciò Molinari riscopre il primo Romanticismo) la meraviglia è l’arte di re-incantare il mondo. Aveva scritto Novalis che la meraviglia è prendere il noto per portarlo sulla soglia dello ignoto, prendere il corrivo e farlo affacciare sullo straordinario, prendere il dimenticabile e renderlo indimenticabile. Molinari tra le righe del libro descrive questa architettura della meraviglia: essa sarà capace di produrre opere “resistenti e imperfette”, che più che risposte riusciranno a porre domande. Sarà un’architettura accessibile e collettiva, ma non spudorata e invasiva; il suo carattere principale sarà allora un’assertiva fragilità, un proporsi senza invadenza ma un rimanere nel nostro animo per ciò che essa stimola, per ciò che essa attiva. Meno formalismi dunque, ma forme asservite al loro dovere di stimolare il vivere sociale, anzi la meraviglia di un vivere sociale che l’architettura ipotizzata da Molinari, avrà il dovere di stimolare e proteggere. Esiste oggi questa architettura? Per Molinari esistono esempi di uno sforzo di re-incantare il mondo, delle testimonianze di resistenze attive che la globalizzazione sparge continuamente in giro, spesso in posti inaspettati. Su queste pietre di inciampo fatte architettura dobbiamo affidarci per ipotizzare ancora una volta il futuro. Programma utopico e realista al tempo stesso, come devono per altro essere i programmi che possiamo fare oggi, non per noi ma per il loro futuro.