Da “Sonetti e specchi a Orfeo (da R. M. Rilke)”
[Da Sonetti e specchi a Orfeo da R. M. Rilke. Scritti come Epitaffio (Valigie Rosse 2023) pubblichiamo una traduzione “a specchio” e il saggio conclusivo dell’autore.]
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di Luciano Mazziotta
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2.XXI
Canta, mio cuore, i giardini che non riconosci, i giardini
come versati nel vetro: impenetrabili e fatti di luce.
Acqua e Rose di Esfahan o Shiraz.
Cantale in estasi, esaltale: non le somiglia nessuno.
Dillo, mio cuore, che a loro non sai rinunciare.
Dillo che di te dicono i fichi che si maturano.
Che tu tra i rami fiorenti ti corrispondi a questi
come si corrispondono i venti levati al volto.
Lascia il pensiero errante di una rinuncia a questa
scelta che ti è successa, questa: quella di esistere.
Filo di seta tu: sei entrato ormai nell’intreccio.
A qualunque tra le figure sei avvolto fin dall’interno
(fosse pure l’istante di origine dell’angoscia)
senti: questa dice la trama, la trama radiosa. Tutta.
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2.XXI
Dopo decenni d’indugi scrivi la parola cuore, scrivilo in prosa senza cesura o ragione, e fingi sia a scriverlo un altro, una voce non tua che ti assolve dal secolo che desertifica sempre, come se il male che strozza il tuo battito fosse quel male non degno di essere detto e rivelasse di più sull’adesso la parola arrivata da cento anni fa. E questa dizione incoerente, se la compari alla fonte, si insozza di sette catastrofi e ora filtrata da un vetro convesso è irriconoscibile a scriversi. Wolle die Wandlung, Cambiati forma: se hai creduto che fosse l’unica svolta l’errore, sceglilo allora per ritrovare la quiete. Non c’è altro da dirsi da dentro la corda intrecciata che ti contiene e ti soffoca ma non permette mai di morire del tutto: tutto qui esige si sopravviva al rovescio, anche se nella terra cosparsa di fichi caduti i piedi si incollano al vincolo come un tappeto sul quale è cucito il tuo globo. E quel puntino minuscolo che provi a scucire si porta con sé un gomitolo tanto compatto che per sbrogliarlo si formano nodi più fitti o dune che coprono tutte le porte d’uscita. Wolle die Wandlung, ché niente più ti assomigli. E se anche qualcuno ti riconosce, forse ha sbagliato persona, perché dove erano strade sono ora dune di sabbia, e di tuo, da lì sotto, sbuca soltanto la testa.
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Negare, chiudere, sottrarre: cinque w su questo libro.
Was
Sarebbe molto più facile definire questo libro per negazione, dire quello che non è, anche a dispetto di ciò che appare. Chiunque lo sfogli, prima di leggerlo, potrebbe avere l’impressione che si tratti di una traduzione di ventisette Sonetti a Orfeo, situati sulla pagina sinistra, accompagnati, sulla pagina destra, da una sorta di commento. La prima impressione inganna. Se, in effetti, ho operato una cernita, sottraendo gli altri ventotto dei cinquantacinque testi che compongono il libro di Rilke, non posso arrogarmi il diritto di definire traduzioni quelle dei sonetti selezionati. Non sono traduzioni, né tantomeno traduzioni d’autore. Non sono neppure riscritture, né ancor meno parodie. Adotterei in questo caso una formula suggeritami da una vera traduttrice quale Giusi Drago che, a proposito della mia appropriazione, ha parlato di Traduzioni incoerenti. Sulle incoerenze o le coerenze delle incoerenze specificherò meglio in seguito, quando mi concentrerò su come è fatto questo libro; intanto è opportuno qualche appunto riguardante la pagina destra, ovvero quegli apparenti commenti che sono emersi in qualità di specchi. Come i ventisette sonetti incoerenti, ventisette sono gli specchi. Di nuovo è necessaria la negazione: non sono commenti. Sono delle ekphraseis, in prosa, di cui Rilke è un suggeritore. Le prose, gli specchi, speculano, per l’appunto, talvolta sulla traduzione incoerente stessa, talvolta riflettono idee filosofiche e di metapoetica, talvolta approfondiscono elementi autobiografici mascherandoli con una patina di suggestioni rilkiane e di studi su Rilke, in un unicum stilistico e narrativo che riproduce, come le due sezioni dei Sonetti a Orfeo, due fasi del mondo: la glaciazione, nella prima parte, e la desertificazione nella seconda, senza soluzione di continuità. Ulteriore insegnamento rilkiano: non tutto è scindibile, non si può scindere lo Jubel dal Leiden, non si può scindere la fine glaciale dal cammino verso il deserto.
Da quanto detto fino ad ora la totalità del libro dovrebbe essere composta da cinquantaquattro testi, ed ecco che interviene un’altra incoerenza, ancora una eccezione che conferma la regola. I testi, in realtà, sono cinquantacinque, come i Sonetti a Orfeo, dal momento che, a fare da transitus tra la prima e la seconda parte, ho inserito un sonetto autografo con epigrafe tratta dalla Apocalisse di Giovanni. Ho immaginato questo sonetto come quella linea di nero che separa l’originale dalla copia, come “il punto più oscuro che si trova sempre sotto la lampada.” C’è un’altra ragione e la ragione è nel numero. Nell’Apocalisse di Giovanni si ripete più volte l’invito a valutare l’importanza del numero, dei numeri, e anche in questo caso il numero ha un suo ruolo primario. I testi devono e dovevano rimanere cinquantacinque, per un motivo filosofico e orfico. Cinquantacinque è un numero palindromo e non credo sia un caso che tanti siano i testi dei Sonetti a Orfeo; non lo è che siano cinquantacinque quelli di Sonetti e specchi a Orfeo. Il palindromo rappresenta la circolarità infinita senza via d’uscita, l’attorcigliarsi e ritornare sempre allo stesso punto che, forse, è anche una caratteristica non solo dell’opera rilkiana, ma proprio dell’Ur-Orfeo: quell’Orfeo che fugge dalla Tracia e ritorna a farsi smembrare in Tracia, il semi-dio che scende nell’abisso a mani vuote e risale dall’abisso a mani vuote, il cantore che fa sempre la scelta sbagliata, proprio alla luce del suo muoversi agevolmente, fallendo, nel mondo del doppio. E doppia è anche la tonalità nell’alternarsi di sonetti e specchi.
Vorrei che questo libro fosse letto come una composizione musicale in due tempi: da una parte il suono flebile, aperto, di uno xilofono nella pagina sinistra, nei sonetti, dall’altra un tonfo, cupo, claustrofobico, nella pagina destra, gli specchi. I sonetti sono la piuma che sale, gli specchi il macigno che cade.
Wie
Per quanto abbia voluto mettere in discussione il concetto di fasi, nonché, orficamente, il concetto di dialettica – l’alternanza sonetti e specchi non è dialettica ma sincronica – è innegabile che abbia conseguito la forma attuale attraverso fasi di lavoro successive.
Il primo momento è stato la traduzione, fedele, di tutti i Sonetti a Orfeo: questa è stata finalizzata soprattutto a comprendere il senso di alcuni passaggi dei testi che mi restavano oscuri – e in alcuni casi continuano a rimanere tali. Comprendere, d’altra parte, prevede ancora due possibilità: prendere per poi allontanare o prendere per impossessarsene definitivamente. Tra le due vie potenziali ho scelto quella dell’impossessamento, e qui è iniziata la seconda fase.
Non essendo una traduzione richiesta, non avendo nessun vincolo di tipo economico né di tipo filologico, i ventisette sonetti sono stati selezionati incoerentemente, così come incoerentemente sono stati rimodulati i superstiti.
Una certa continuità l’ho voluta mantenere espungendo i quattro sonetti dedicati a Wera Ouckama Knoop. L’epigrafe ai Sonetti a Orfeo recita, infatti: “Scritti come monumento funebre per Wera Ouckama Knoop”; i Sonetti e specchi non sono più questo. Sono un monumento funebre e basta, un epitaffio collettivo forse per l’umanità, forse per una parte di me, o ancora per tutti i miei e i nostri morti, con la consapevolezza di non poterli riportare in vita, ma anche con una piccola invidia per il loro status di esseri (o non-esseri) conclusi. Ho sottratto, ancora, ma, sottraendo, alcuni testi sono rientrati qua e là, citati o parafrasati negli specchi. Valga per tutti il Wolle die Wandlung che apre il sonetto II.12. Escluso il testo da questo libro, il suo incipit ritorna come refrain nello specchio 2.XXI.
Se in merito al che cosa avevo parlato di negazione, in questo frangente, dunque, è il caso di parlare di sottrazione, di rimodulazione o, ancora più incoerentemente, di sostituzione. Gli Dèi, ad esempio, fatta eccezione per Orfeo, li ho sempre sostituiti: sono diventati mostri, abitanti dell’altrove, spettri, a volte gli spettri di tutti, molto più spesso i miei spettri, tanto nei sonetti quanto negli specchi.
In generale, quindi, ho proceduto a cambiare alcuni versi, a rimodularli, in alcuni casi a parafrasarli, in altri a riscriverli del tutto, in vista, soprattutto, di una necessità tonale, o, potrei dire, di timbro.
Se ciò che denota il timbro è soprattutto la domanda o l’esclamazione, nei sonetti ho riscritto in forma assertiva tutte le domande retoriche, così come tutte le esclamazioni. Le domande e le esclamazioni rilkiane aprivano la possibilità di futuro. Io ho voluto chiudere. Allo Staunen esclamativo, allo spiraglio di speranza, ho preferito il silenzio assertivo. Anziché riprodurre il Fragen come palcoscenico e postura tonale del dubbio, ho scelto di dare al dubbio il ruolo di protagonista muto, togliergli la voce perché non fosse neppure immaginabile una risoluzione. L’asserzione non lascia via di scampo. “Il disastro – scrive Blanchot – è la domanda senza risposta, il silenzio assoluto dopo una richiesta.” Se nel corso del secolo si perdono le risposte alle domande, se si perdono i tentativi di sciogliere il dubbio della domanda, l’asserzione diviene la forma laconica sospesa nel vuoto cosmico. Il disastro, qui, si dà per assodato. Per questo tra slancio negativo e positivo di Rilke ho fatto pendere tutto sempre verso il negativo.
Wann
Il quando è non solo l’oggi, anzi non lo è proprio. Seppure i Sonetti a Orfeo siano stati pubblicati nel 1923 e questo libro esca cento anni dopo, non con intenti celebrativi, ma ricorsivi, la dimensione temporale in entrambi i libri è totalmente indecifrabile, antiaderente. Non aderiscono a niente, se non a un tempo indefinibile. Si ricordi anche la riflessione di Heidegger, con il suo saggio celebrativo del 1946 in occasione del ventennale della morte di Rilke, dal titolo Wozu die Dichter in Dürftiger Zeit. Che cosa è cambiato dal 1923, dal 1946, dal sempre? Il Dürftig heideggeriano, a ridosso dalla fine della seconda guerra mondiale, tematizzava un tempo che avesse bisogno di qualcosa, quel qualcosa potenzialmente esperibile e significabile dai poeti che fossero riusciti a guardare l’abisso – in quel caso Hölderlin e Rilke. Noi, cento anni dopo, non abbiamo la possibilità di vederlo (E dirsi poeti suscita sempre un senso di nausea). Non si può osservare qualcosa entro il quale si è avvolti. Quindi il quando è questo tempo qui, un tempo non solo “mancante e bisognoso” ma un tempo mancato, un tempo che non può essere riempito, e un tempo, ribadisco, in cui il disastro si dà per assodato. Questo è l’oggi, il mio oggi, il senso della fine priva di possibilità di slanci ricostruttivi, né di fiducia in qualcosa. Ma non posso arrogarmi il diritto di parlare per tutti, e parlo solamente a titolo personale.
Il mio approccio alla poesia è stato sempre di tipo razionale. Ora, per quanto anche questa operazione lo appaia, in realtà si tratta del libro in cui mi sono lasciato alle spalle ogni tipo di razionalità e per questo è così tanto difficile scrivere quanto sto scrivendo, dare un ordine e far rientrare questa raccolta all’interno di un quadro di poetica. Quando è stato scritto, quindi? La prima fase di traduzione, coerente o incoerente che fosse, è avvenuta dieci anni fa, nel 2012. Ero un giovane appena uscito dall’università. Da una parte ci avevano fatto credere che il mondo si spalancasse dinnanzi a noi, dall’altra, in verità, una volta scoperto l’aperto il mondo si chiude e risponde che ognuno è uno dei tanti nessuno nel circuito del niente. Il 2012 è stato un anno bizzarro, in cui si viveva tra attese e superstizioni. Con un dolore di sottofondo irrazionale e sempre allontanato – se non schernito – ci si aspettava allora l’avverarsi della profezia dei Maya. Non so se si sia verificata o meno, ma la catastrofe prima o poi arriva e, per quanto nessuno ne sappia qualcosa, di certo ognuno avrà vissuto la propria personale piccola fine del mondo. Si tratta pur sempre di catastrofe. Nell’attesa della catastrofe, in momenti vissuti addentrato nella percezione della catastrofe, ho cominciato a leggere e tradurre Rilke, e da allora non ho più smesso, mentre si sono succeduti microcataclismi privati in attesa di quello universale e più grande. Che è arrivato e non smette mai di arrivare. Ma non mi riferisco alla pandemia.
Ho in mente una catastrofe indefinibile, astorica, e percepita ora dopo ora. A dieci anni di distanza dal 2012, ho iniziato a rendere più incoerente quanto poteva anche lontanamente apparire coerente, l’ossessione si è accresciuta e con lei la necessità di tematizzarla e farla rimbombare attraverso qualcosa che non fossero solamente i sonetti, ma gli specchi che di questa esperienza sono come un’eco infinita, pur con scopi terapeutici e di distanziamento. Distanziamento che non è ancora avvenuto, almeno fino a quando non saluterò il libro definitivamente.
Warum
Non ho mai creduto all’idea di una poesia consolatoria. Non ho mai cercato consolazione nella poesia, né credo di aver scritto un libro consolatorio. Ma questi sono pensieri altrettanto incoerenti e quello che in realtà devo dichiarare è che la poesia di Rilke, verso dopo verso, sonetto dopo sonetto, elegia dopo elegia, mi ha confortato, assistito, consolato, nonché ricondotto alla presa di coscienza di me, della mia lingua e della lingua tedesca.
Tradurre tradendo, o tradire traducendo, mi ha sollecitato in silenzio il pensiero nei momenti di buio, soprattutto perché arrivasse presto la notte. La traduzione mi ha impegnato, il primo tradimento mi ha fatto conoscere, il secondo, ovvero la scrittura degli specchi, sui quali ho lavorato incessantemente per sette mesi, dopo i dieci anni trascorsi sui sonetti, mi ha assistito.
L’oratore greco del V secolo a. C., Antifonte, da quanto riporta Plutarco, “proclamò pubblicamente di poter curare dalle paure attraverso i logoi.” Il verbo curare, in questo contesto, è therapeuein. Il perché di Sonetti e specchi risiede anche in questo verbo. Therapeuein non significa soltanto curare, indica qualcosa o qualcuno che sta accanto, vicino, qualcuno che fa da scudiero. I Sonetti a Orfeo mi sono stati vicini nei momenti di buio, gli Specchi stanno vicini, vicinissimi ai Sonetti a Orfeo. Non li curano, non li perfezionano, stanno accanto a loro, come sostegno ad una autorità, per far dire loro quel qualcosa in più che avrei voluto dire io. Lo scudiero, però, si trova sempre in una posizione speculare e di subordinazione: questo valga tanto per il me traduttore-traditore quanto per gli specchi.
Proprio alla luce di questa subordinazione, gli specchi-scudieri non avrebbero potuto essere in versi. Scrivere poesia, scrivere creativamente, in generale, significa sempre riconoscere i propri limiti. Se avessi posto accanto ai sonetti di Rilke dei versi miei, il rapporto sarebbe stato di imitatio-aemulatio. Il confronto con il modello non avrebbe avuto senso, né tantomeno avevo in mente un’idea parodica o di riscrittura. Ho dovuto scegliere una forma che non so se mi fosse più congeniale, ma che di certo mettesse al centro la differenza tra l’originale (tradito) e il riflesso. Mi sono confrontato con il limite della mia lingua e con il limite della conoscenza della lingua tedesca. Tornerei al flebile suono dello xilofono affiancato al macigno che cade. Perché scrivere questo libro in questo modo? Forse per scandire in due tempi sincronici, in passi affiancati gli uni agli altri, il ritmo di una processione verso la fine.
Ma c’è un altro warum. Da anni la critica si interroga sulla necessità cogente di superare il Novecento, e quando non lo fa, si scaglia direttamente su quella vaga poetica indicata altrettanto vagamente e sprezzantemente come simbolismo. Guardare il Novecento, guardare al simbolismo, essere troppo vicini alle scritture del Novecento, e soprattutto del primo Novecento, scrivere in tonalità apparentemente simboliste sembra un’accusa – se non una condanna. Quando una volta mi capitò di sentire, “morirete simbolisti”, io, d’altra parte, avrei voluto rispondere “magari!”. Questo libro è quel magari esteso per una sessantina di pagine.
Wo
Tutto quello che ho detto finora appare di per sé anche troppo autoesplicativo. Il dove posso risparmiarmelo, oppure, in breve, brevissimo, ribadire soltanto che l’ho scritto qui, in questa lunga lettera d’addio.
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libro superlativo!