Quel piccoloborghese di Maigret: brevissima fenomenologia di un successo

Illustrazione di Ferenc Pintér

 

di Sergio A. Dagradi

I romanzi e i racconti del commissario Maigret sono indubbiamente tra i più letti e diffusi nell’ambito della letteratura poliziesca, e non solo. Milioni le copie vendute, traduzioni in più quaranta paesi e cinquanta lingue: e poi le trasposizioni cinematografiche e televisive, che hanno ulteriormente contribuito al suo successo presso il grande pubblico, anche grazie agli attori che prestarono il volto al personaggio, da Jean Gabin a Gino Cervi o, più recentemente, da Rowan Atkinson a Gérard Depardieu. Un successo enorme, ma spiegabile, credo, con l’intonazione piccoloborghese – più che nazional-popolare – del personaggio. Sono i modi, i gesti, le abitudini, ma ancor prima gli ambienti e gli oggetti che ammantano il celebre commissario di quell’aura così piccoloborghese alla cui identificazione risulta difficile sfuggire.

Una brevissima fenomenologia del piccoloborghese

Definire brevemente la petite bourgeoisie risulta al contempo sociologicamente difficile ed economicamente più agevole. Piccoli proprietari, piccoli commercianti o contadini semi-autonomi, ideologicamente – come mostrato esemplarmente ad esempio da Sylos Labini – risultano più difficilmente identificabili, in quanto non portatori di una ideologia forte e coesa che li renda qualificabili come classe, piuttosto come ceto. In tal senso, la mentalità piccoloborghese emerge in negativo a difesa di quei valori o di quelle istituzioni che la rappresentano quando questi sarebbero o sembrerebbero loro sotto attacco. Attacchi che comporterebbero una messa in discussione dello status acquisito, un loro peggioramento: nel guado tra una condizione economica più affine alla working class, e l’aspirazione a uno stile di vita da upper class, ogni sgretolamento è percepito come insidia da rintuzzare immediatamente. Ecco allora la difesa della famiglia patriarcale, della casa, della chiesa; ma anche la repressione di ogni libertà e autodeterminazione sessuale, un avversione alle organizzazioni partitiche (soprattutto di ispirazione socialista, o peggio) e, più in generale, verso la politica e le sue istituzioni; e, ancora, la ricerca del capro espiatorio spesso individuato nello straniero o nell’altro in generale, anche quale formula auto-assolutoria rispetto ai propri fallimenti, percepiti sempre in un limitato orizzonte individuale, personale e mai inquadrati in una lettura di più ampio respiro. Essere piccoloborghese assurge all’identificazione di una mentalità gretta e infingarda: tendenzialmente conservatrice se non apertamente reazionaria o, addirittura, fascista. Parafrasando Paul Nizan, la piccola-borghesia rappresenterebbe il cane da guardia dell’ordine borghese.

Quel piccoloborghese di Maigret

Il commissario Maigret sembrerebbe dunque incarnare, lungo gli oltre settanta romanzi e i quasi trenta racconti scritti da Simenon, l’idealtipo del piccoloborghese. A partire, ovviamente, dall’essere un poliziotto, dall’essere tutore di un certo ordine che sembra messo in discussione a trecentosessanta gradi, giorno dopo giorno, ma che al contempo sembra refrattario – nella narrazione del suo autore – a quei mutamenti sociali che effettivamente hanno attraversato il Novecento: dalle prime apparizioni agli inizi degli anni Trenta (anche se l’invenzione del commissario risale ad alcune novelle pubblicate nel ’29 sulla rivista Détective) alle ultime, quarant’anni dopo, il mondo di Maigret sembra immobile, immutabile e refrattario a ogni cambiamento, esattamente come ipostatizzato nell’immaginario e nelle speranze di ogni piccoloborghese.

Di abitazioni e ambienti

La cifra prima di questo immobilismo è rappresentato da un lato dalla casa rifugio di boulevard Richard-Lenoir, dall’altro dal suo ufficio al 36 del Quai des Orfèvres. Sono due luoghi che immobilizzano la freccia del tempo, riconducendo a spazialità ogni narrazione e quindi anche a ripetizione degli stessi gesti e delle stesse interazioni.

A casa, pertanto, gli elementi che contribuiscono a creare stabilità sono gli odori che provengono da quella cucina che rappresenta il regno della signora Maigret, le pantofole e la giacca da camera dei giorni di riposo, da indossare con un volume di Dumas in mano, o il bicchierino da bere dopo le cene familiari coi parenti. In ufficio c’è la stufa famigerata, gigantesca nell’immaginario quasi come la corporatura del commissario, sempre accesa, sempre riattizzata dallo stesso; e poi i colleghi nell’ufficio attiguo, con i quali si alterna durante gli interrogatori, anche loro cadenzati secondo riti immobili (la cosiddetta ‘canzoncina’). E se a casa è la stabilità della coppia tradizionale a riempire di senso quegli spazi e le loro ritualità, al 36 di Quai des Orfèvres sono le gerarchie, le ripartizioni dei compiti, le figure sempre uguali che si muovono tra i corridoi, l’‘acquario’ e i vari uffici (del direttore, della scientifica, di colleghi) a dare senso al tutto.

La famiglia Maigret è una coppia rassicurante, senza mai alcun dubbio sulla fedeltà reciproca, finché morte non li separi. Mai che Maigret – a differenza del suo autore – provi non dico un’attrazione, ma financo una minima vibrazione per una delle tante donne, molte piene di fascino e di bellezza, con le quali ha occasione di relazionarsi nelle sue inchieste. Ancor più al di sopra di ogni sospetto la moglie, casalinga devota, interamente presa nell’accudire il loro appartamento – rigorosamente in affitto –, oltre che il commissario. Paziente, sempre presa a fare qualcosa di utile per la casa o per qualcuno, in una ottimizzazione del tempo degna appunto di ogni cultura piccoloborghese. Mancano i figli a completare il quadro idilliaco, ma quasi a rafforzarlo per ossimoro, ecco emergere ogni tanto il ricordo della figlioletta morta prematuramente, per ricordarci che la vita è dolore eppur bisogna andare avanti.

Anche la famiglia del Quai des Orfèvres è rassicurante: i nomi degli ispettori vengono scanditi da tutti con sicurezza, a partire da quelli di Janvier, di Torrance, di Lognon; i collaboratori della scientifica e della balistica hanno un rapporto quasi intimo col nostro ispettore. Il rispetto delle gerarchie è implicito nei loro comportamenti: anche laddove intervengono delle violazioni e delle piccole irregolarità, queste si inquadrano sempre nella conferma e rafforzamento di quei meccanismi e di quegli organigrammi di potere costitutivi della sicurezza del mondo piccoloborghese. Piccole e innocenti trasgressioni, per così dire, che non minano mai l’ordine istituito, semmai intendono rafforzarlo, in barba a quella burocrazia che sembra sempre un intralcio, più che un aiuto alla giustizia. Trasgressioni che appaiono sempre giustificate, pertanto, e giustificabili in nome di un interesse ritenuto evidentemente superiore al rispetto di qualsiasi principio di legalità: il mantenimento appunto dell’ordine istituito.

L’essere fuori posto del piccoloborghese

Da questo ambiente e da questa mentalità piccoloborghese il commissario non riuscirà mai a distaccarsi. In missione preferisce le locande agli alberghi: quando questi incarichi sono destinati a durare mesi tenderà ad affittare piccoli appartamenti già ammobiliati dove soggiornare anche con la moglie; ritiratosi in pensione realizza il sogno di una casettina in riva al fiume, con un po’ di terra attorno. Del resto in missione all’estero – per esempio a New York – si sente fuori luogo, fuori contesto. Come in imbarazzo lo si avverte sempre, nei romanzi o nei racconti, quando deve frequentare hotel di lusso, cene di gala o l’alta società. Più a suo agio nei bistrot o nelle brasserie. È la zona di confort, oltre la quale, sul versante opposto rispetto all’ambiente della high society, troviamo certi locali ambigui, certi night club, spesso in aree malfamate della città. Lì il suo modo di relazionarsi è verticale: non è tanto l’esercizio del potere, che pur rappresenta, a imporre la sua forza, ma prima ancora la propria morale. Nell’apparente accondiscendenza con cui si relaziona ad alcuni sfortunati fuorilegge, o quando si mostra maggiormente comprensivo verso, per esempio una prostituta, è perché intuisce nel loro immaginario il desiderio irrealizzato e difficilmente raggiungibile di condurre una vita normale, ossia piccoloborghese: la sua. In tal senso la morale a prima vista venata di umanismo si trasforma in moralismo piccoloborghese di difesa di un mondo. Il proprio, ovviamente.

L’altro, lo straniero e l’ebreo

Il rapporto con l’altro – e in particolare con lo straniero, ma anche con l’ebreo (per lo meno nelle opere che precedono la seconda guerra mondiale) – diviene così un altro indice della mentalità piccoloborghese con cui agisce e opera il nostro commissario. L’altro è infatti percepito sempre tendenzialmente con sospetto, con diffidenza, sebbene mai (altro tratto piccoloborghese) fino ad esporsi pienamente in manifestazioni xenofobe o antisemite. Molto, in particolare, ci sarebbe da scrivere sui continui rimandi agli ebrei, sull’indulgere nella descrizione del loro carattere, della loro indole, in alcune pagine fin della loro fisiognomia, ma questo ci porterebbe ben oltre i limiti di questo articolo. Del resto se il commissario Maigret è oramai in pensione durante l’occupazione nazista di Parigi (anche se ricompare in servizio nel 1946, lasciando quindi qualche dubbio di ordine cronologico …), è invece assai dibattuto, come noto, l’atteggiamento che tenne lo stesso Simenon durante quel periodo. Sospettato di collaborazionismo, salvo essere poi assolto, il rapporto con gli occupanti tedeschi fu meno lineare di quanto dica la conclusione delle vicende giudiziarie. Quanto meno Simenon fece parte di quella palude di ignavi che, con atteggiamento tipicamente piccoloborghese, non scelsero apertamente da che parte stare, cercando di trarre profitto dai cambiamenti di vento.

Una chiesa, nessun partito 

Da questo punto di vista anche il rapporto con la politica è significativo nella narrazione del commissario Maigret. Così com’è tipico della mentalità piccoloborghese, Maigret non aderisce a nessun partito; non solo, non sembra neppur interessarsi alla politica o farvi riferimento esplicito nelle sue inchieste, se non – nei rari casi in cui traspare direttamente o indirettamente il suo giudizio – per parlarne ovviamente male, per criticarla, per nutrire dubbi sulla reputazione e la dirittura morale di deputati, senatori, consiglieri comunali e quant’altro. Nei romanzi e nei racconti di Maigret la politica è il luogo per antonomasia del malcostume e del malaffare, lontana dalle esigenze e dal sentire immediato della gente: e se i giudizi non escono direttamente dalla bocca del commissario, vi è un silenzio assenso nelle sue non repliche.

La religiosità di sottofondo è un altro dei tratti peculiari della mentalità del nostro commissario. Religioso, ma non troppo, verrebbe da chiosare. Come molti piccoloborghesi la fedeltà alla religione tradizionale – non importa se cattolica, islamica o induista, quindi – si esprime più a livello di un’adesione generica, che in atti concreti. Maigret lo si vede raramente, e per obblighi in un certo senso lavorativi, partecipare a qualche funzione; però spesso ricorda e con nostalgia la sua fanciullesca esperienza di chierichetto. Il che ci riconduce alle sue umili – ma non troppo – origini contadine: il padre era l’amministratore del castello di Saint-Fiacre e delle sue proprietà agricole. E nella nostalgia si mescola sicuramente il ricordo di una fanciullezza e del suo mondo rassicurante, ma anche una religiosità peraltro in netto contrasto con lo stile di vita dell’autore.

Contro il metodo

Ultimo aspetto sul quale vale la pena soffermarsi è il metodo del commissario, vera cartina al tornasole per le nostre argomentazioni. A differenza di altri celebri investigatori – come il logico Sherlock Holmes, col proprio metodo abduttivo, o il razionale Poirot, con le sue ‘celluline grigie’ – Maigret non ha propriamente un metodo. O meglio, il suo è il lasciarsi immergere nel caso, nelle atmosfere; l’identificarsi con le situazioni e i protagonisti delle stesse, soprattutto con la vittima. Una volta giunto alla totale identificazione con quest’ultima, la soluzione è come se emergesse per soprammercato. Il rifiuto della ragione, del rigore logico, dell’argomentazione rigorosa appaiono come la pars destruens di quell’atteggiamento che vede invece come caso estremo l’emozione, il comun sentire, la ‘pancia’ avere il sopravvento nel prendere una decisione. Nella migliore delle ipotesi il cosiddetto ‘buon senso’. Ma, se è il buon senso piccoloborghese che sembra presiedere alla possibilità di un felice svolgimento dell’intrico, occorre ricordare che è proprio il buon senso a erigere le ghigliottine.

 

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5 Commenti

  1. Mi sembra che l’autore non abbia capito nulla del personaggio Maigret, sicuramente borghese, nei gusti e nelle abitudini, ma mai “piccoloborghese”, con tutto ciò che il termine connota in fatto di ristrettezza mentale e difesa dei propri meschini privilegi.
    “Essere piccoloborghese assurge all’identificazione di una mentalità gretta e infingarda: tendenzialmente conservatrice se non apertamente reazionaria o, addirittura, fascista”.
    Direi quantomeno che siamo proprio fuori strada, o meglio (anzi peggio), che si vuole ridurre il personaggio a schemi precostituiti, che per nulla gli appartengono.
    Per giungere, inevitabile, a riproporre per l’ennesima volta le accuse di collaborazionismo di cui Simenon fu oggetto. Accuse mai dimostrate, e proprio in ciò traspare chiaramente la meschinità dell’autore del pezzo, nell’alludere senza portare alcuna prova. La macchina del fango.

  2. Si tace, ovviamente, dei rapporti quantomeno difficili di Maigret con la gerarchia. Del suo fastidio nel frequentare le aule giudiziarie, ove il potere manifesta la propria disumanità. Degli scrupoli, delle ansie, che gli crea la consapevolezza del rischio che le sue indagini possano condurre ad una condanna a morte, e che comunque il sospettato, solo in quanto tale, potrà avere la vita distrutta. Si fa di Maigret un fautore della ghigliottina, e qui si cade nel ridicolo. Consiglierei, all’autore del pezzo, di rileggere, ma probabilmente di leggere, quantomeno “Una testa in gioco” e “Maigret si confida”, forse gli avrebbero evitato di scrivere tante sciocchezze

  3. In riferimento ai due ultimi commenti precedenti, vorrei pacatamente replicare precisando quanto segue:
    – la definizione di “piccoloborghese”, anziché borghese, attribuita al commissario Maigret, non è una mia invenzione. Talmente è consolidata nella critica che addirittura alcuni dei racconti o dei romanzi dello stesso commissario vengono presentati dallo stesso editore italiano utilizzando tale aggettivo. Il primo che mi viene in mente, a riguardo, “La furia di Maigret”. Ma la cosa più sorprendente è che fu lo stesso Simenon a definirlo tale nella famosa Lettera che, nel 1978, volle indirizzare al suo personaggio in occasione dei 50 anni della sua creazione. Ma, evidentemente, neanche Simenon aveva letto con attenzione Simenon… Faccio comunque notare il carattere comunque dubitativo di quanto scrivo (“sembrerebbe”…)
    – rispetto all’accusa di collaborazionismo: se sicuramente non fu un collaborazionista attivo, la “non linearità” dei rapporti di Simenon con l’occupante nazista è esplicitamente sostenuta da Assouline nella sua biografia dedicata appunto a Simenon, apparsa agli inizi degli anni ’90, dove si definisce l’atteggiamento di quest’ultimo durante la Seconda guerra mondiale come coerente al fatto che Simenon stesso fosse un uomo di destra, conservatore e – definizione dello stesso Assouline – addirittura reazionario. Di un Simenon compromesso, seppur non collaboratore attivo come altri, ma tale da attenzionare comunque nei suoi riguardi l’opera del Comité national d’épuration des gens de lettres, parla sia Dan Franck (“Mezzanotte a Parigi”), che Di Rienzo recensendo quest’ultimo volume sulla “Nuova Rivista Storica”. Sicuramente era un’opportunista, che a fine guerra cercò di rifarsi una verginità girando con l’Humanité in tasca… Ma non bastandogli si rifugiò negli Stati Uniti. Per non parlare dell’atteggiamento apertamente antisemita del giovane Simenon (e invito l’autore della nota precedente a citarmi una sola pagine del commissario Maigret antecedente al 1945 dove l’ebreo non appaia secondo tratti stereotipati…), ricostruito dallo stesso Assouline, o di quello “un tantino razzista” di cui parla Ginzberg sul Foglio del 2 gennaio di quest’anno. La questione del collaborazionismo o meno non è pertanto così semplice neppure come vorrebbe far credere l’estensore della nota precedente…
    – sull’essere Maigret forcaiolo, invito a rileggere meglio la chiusura: è il buon senso che innalza le ghigliottine. Che in Maigret ci sia umanità, un rapporto anche conflittuale con la giustizia, le gerarchie ecc, sicuramente. Ma fino a quando tutto questo non mette in forse l’Ordine costituito. Questo almeno a me sembra.
    – infine, mi permetta: può scrivere che scrivo male, che ho commesso errori interpretativi (mostrandomeli), che non è d’accordo con la mia interpretazione… Accetto tutto e discuto di tutto. Tranne il gratuito insulto di cui mi ricopre accusandomi di “meschinità” senza né conoscermi, né aver letto null’altro di mio. Se vuole confrontarsi nel merito son qua; se all’insulto si riduce il suo non-livello di civiltà, la saluto per l’ultima volta

  4. Che il personaggio Maigret sia “piccoloborghese” è un truismo. Tutto il mondo di Maigret è tale, ma proprio in questo, e nell’immersione in quel mondo, sta il suo apparire come un personaggio reale e quotidiano.
    Se il fine ultimo di Sherlock Holmes e di Poirot è quello di épater le bourgeois, e per “bourgeois” qui va inteso il lettore, il fine di Maigret è quello di farlo sentire a casa sua e di rassicurarlo.
    Le categorie sociologiche nel mondo reale si intersecano e si mescolano, e tutti facciamo parte di più di una.
    Simenon, nella sua assoluta genialità di scrittore, si rivolge a quel mondo. Ciò che è fuori luogo nella critica qui sopra non sono quindi i fatti, che sono veri e ben riportati, ma il moralismo di fondo: l’idea che si sia comunque qualcosa di poco sano nell’essere piccoloborghesi.
    Come altri grandi scrittori, Simenon, consciamente o inconsciamente, coglie un fenomeno sociale e lo descrive. Non solo, in Maigret lo fa con la tecnica del romanzo poliziesco in un modo del tutto nuovo e creativo. Tuttavia, occorre ricordarsi che si tratta di fiction. La critica sociale dovrebbe rivolgersi a personaggi reali, perna il rischio di cadere nel moralismo.

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Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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