La poesia non dice niente

di Daniele Barbieri

 

Cosa ci importa in fondo di cosa dice la poesia? Non che sia irrilevante, ma non dobbiamo commettere l’errore di valutare quello che dice la poesia come valutiamo quello che dice la prosa. La musica non dice nulla, ma noi amiamo la musica. Amiamo la musica perché i suoi andamenti – senza dire alcunché – rimandano ad altri andamenti, musicali e non, e li ricombinano e in questo modo li trasformano, così che il mondo prima e dopo la musica non è lo stesso, perché le relazioni tra le forme e le associazioni tra loro sono cambiate. La poesia sembrerebbe fare la stessa cosa, e tuttavia la poesia, essendo fatta di parole, dice. Ma il dire della poesia sembra essere unicamente il modo di generare un’ulteriore dimensione di forme che si mettono in relazione con forme, rimandandole e ricombinandole, e così facendo trasformandole, in modo che il mondo prima e dopo la poesia non è lo stesso.

Quello che la prosa dice configura direttamente il mondo, pretendendo di dargli direttamente forma. La poesia gioca a fare finta di fare la stessa cosa, ma quello che conta è il gioco, non la forma dichiarata. Persino le eventuali grandi verità che la poesia esprimerebbe contano più per l’effetto “espressione di grande verità” che per quanto pretestuosamente ci insegnerebbero. La poesia, insomma, è una musica del senso, oltre che del suono, in cui il senso risuona con il suono e con il mondo. La ricchezza del senso permette alla poesia di recuperare il gap che avrebbe nei confronti della musica, la cui ricchezza sul piano del suono è indubbiamente maggiore.

Leggo su Nazione Indiana le parole che Nadia Agustoni dedica a Cristina Annino. Mi percorre un brivido. Ma non è per la mancata scoperta di chi sia cacciatore e chi cacciato, non è per il febbraio di pianura, né perché tutto sia un libro – in sé, un’antica banalità. È che l’andamento delle parole che esprimono queste finte verità richiama collegamenti e relazioni ben più significative. È che questa commistione di profetico e affettivo, con il richiamo alle parole della Annino, questa tonalità del suono e del senso arriva ad attraversarmi lasciando un segno profondo quanto nessuna delle affermazioni contenute in questi versi potrebbe mai fare.

Cosa mi importa in fondo di cosa questi versi dicono? La dinamica con cui lo dicono è in verità assai più significativa e coinvolgente. Estremizzando un poco, ma forse nemmeno troppo, potremmo dire che come la musica è una modulazione costruttiva sull’andamento dei suoni, la poesia è una modulazione costruttiva sull’andamento delle parole, per il loro suono così come per il loro senso, giacché le parole sono fatte di ambedue le componenti. Ridurre i versi a quello che dicono è come ridurre le frasi della musica a quello che dicono: niente.

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11 Commenti

  1. Giusto per il piacere della discussione perché in realtà se mi trovassi di fronte qualcuno che mi chiede insistentemente che significato ha la poesia, risponderei come Daniele Barbieri. Ma vorrei fare una riflessione a partire dalla musica: è vero che la musica non significa nulla, ma è altrettanto vero che quando ascolto La fanciulla e la morte, le cui note non significano nulla, mi dispongo ad ascoltare quella composizione orientato in un certo modo dal titolo e se per esempio si chiamasse Le ondine del Danubio o non avesse titolo, la recepirei in modo radicalmente diverso. Mi piacerebbe di meno? Credo di sì, anche se non ne ho la controprova e questo perché è il titolo schubertiano che invera e dunque semantizza quella tensione senza parole che percorre quella musica. Allo stesso modo anche materiali di per sè semantici come le parole nelle poesia, il compito della poesia mi sembra un inveramento del senso ossia un essere all’altezza di ciò che evoca oppure magari di fallire grandiosamente questo inveramento approdando però a qualcos’altro di imprevisto, ma che è sempre senso. Credo sia per questo che antepongo Baudelaire a Rimbaud

  2. Eppure, ‘l’argomento’ non mi pare irrilevante. Che la poesia di Agustoni citata sia anzi un testo in memoria, nato da una perdita, radicato in una occasione molto reale (forse la più reale che c’è) mi pare dica non quanto la sua modulazione, ma proprio insieme ad essa, nell’intreccio con essa. Certo, leggiamo e non sappiamo ancora ‘niente’ delle persone storiche coinvolte, ma se leggiamo ‘bene’ quello che le parole ‘dicono’, sappiamo di un colloquio sul potere, di una ricerca tra fisico e metafisico, di un rapporto totale con la poesia, forse persino di due poetiche che continuano a interrogarsi (“dopo”). Mi sembra che sia importante dirlo perché ho paura che questa idea, di per sé semplice e pulita e direi assodata (in poesia il come conta quanto il cosa) rischia subito di condurci verso certi universali che oscurano proprio le cose di cui invece la poesia parla e vuole parlare. Per esempio, per rimanere al caso dato, che è morta una grande poeta, per certi versi difficile e per lo più trascurata, che abitava il suo talento in modo assoluto e anticonvenzionale.

  3. Rispondo congiuntamente a Giorgio Mascitelli e a rm, perché l’obiezione comune riguarda l'”argomento”. Intanto sottolineo il fatto che io non ho detto che la poesia non “significa” niente, ma che non “dice” niente. La musica palesemente significa, ma lo fa evidentemente senza dire; e per la poesia le cose sono molto simili, salvo per il fatto che la poesia è fatta di parole, le quali, tra l’altro, sembrano sempre “dire” direttamente qualcosa. L'”argomento” è qualcosa di molto simile a quello che in semiotica si chiama “ancoraggio”: un’indicazione sufficientemente chiara del tema, che indirizza l’ascolto (o la lettura). Il titolo, quando c’è, indubbiamente “dice”; ma il titolo non è la musica, e non è nemmeno la poesia – e non sempre c’è. In poesia (ma talvolta persino in musica) qualcos’altro può fungere da ancoraggio, limitando l’ambito della nostra possibile interpretazione (o indirizzandola verso un grandioso fallimento, come suggerisce Mascitelli). Ma per creare l’effetto estetico, ovvero per indirizzarci verso un’interpretazione emotivamente interessante, l’ancoraggio si limita a mettere in campo un tema, che entra poi nel gioco dei rimandi che il testo costruisce e gestisce. Io non credo che il privilegiare queste letture trasversali ci conduca verso alcunché di universale, né in poesia né in musica, e in poesia più chiaramente che in musica: affermare che la poesia non “dice” quello che sembra dire non implica che non si riconosca un senso alle parole, e che questo senso non indirizzi l’interpretazione. Nei versi di Agustoni non si dice mai che Annino sia morta, se non – implicitamente – nel titolo; non si fa nessuna lode della sua poesia, o del suo isolamento in vita. Tutto questo emerge di traverso, senza che venga “detto”, mentre la letteralità del discorso sembra andare invece altrove, sembra (quella sì) “condurci verso certi universali che oscurano proprio le cose” a cui si sta facendo riferimento. In musica l’assenza evidente del dire ci costringe a cercare il senso in altri modi. Il mio appello per la poesia è a capire che le cose non sono in verità molto diverse, e che il livello a cui la poesia “dice” (in quanto fatta di parole, che per loro natura dicono) non è mai quello del suo vero senso.

  4. Il Lonfo non vaterca né gluisce
    e molto raramente barigatta,
    ma quando soffia il bego a bisce bisce
    sdilenca un poco e gnagio s’archipatta.

    È frusco il Lonfo! È pieno di lupigna
    arrafferia malversa e sofolenta!
    Se cionfi ti sbiduglia e ti arrupigna
    se lugri ti botalla e ti criventa.

    Eppure il vecchio Lonfo ammargelluto
    che bete e zugghia e fonca nei trombazzi
    fa lègica busìa, fa gisbuto;

    e quasi quasi in segno di sberdazzi
    gli affarferesti un gniffo. Ma lui zuto
    t’ alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi.

    • Grazie! Questa di Maraini è un fantastico esempio estremo, da me da sempre molto amato. Ma il discorso vale anche per Sandro Penna, dove in apparenza tutto è chiarissimo.

  5. Risposta alla Domanda:

    Quale poesia scrivere nell’epoca della Fine della metafisica?

    La «nuova poesia» crea le sue «nuove» categorie ermeneutiche. La «nuova poesia» è nient’altro che «una messa in scena» con annesso e connesso la abolizione del simbolico.
    La nuova fenomenologia del poetico, la poetry kitchen, si muove all’interno di una zona di interoperabilità tra gli oggetti e gli attanti, una zona di discretizzazione di tutte le funzioni della trasduzione, essendo la trasduzione nient’altro che il processo di trasformazione (interoperabilità) degli elementi che non esistevano prima che prendesse luogo il rapporto di trasduzione; è solo un gioco di specchi – direbbe il mago Woland – un gioco di scacchi, di fuochi d’artificio, una collezione di figurine bizzarre, una bizarrerie. La «nuova poesia» preferisce la folla e il rumore al silenzio ovattato della poesia elegiaca, è affollata in modo assordante dalla presenza del «mondo», in essa si assiste al «mondeggiare» del mondo e al «coseggiare» delle cose con tutte le loro acrobazie e follie; heideggerianamente c’è la presenza della «terra», con tutta la sua pesantezza e voluminosità che ingombra. Le funzioni poetiche diventano meri espedienti. E gli espedienti diventano meri scambi di interoperabilità degli elementi del rapporto.

    Che altro è l’espediente della «pallottola» che nella poesia di Gino Rago attraversa ampi spazi e svariatissimi personaggi di plurimi tempi se non un colloquio costante con la morte?, con la sua presenza ingombrante?; che altro sono gli inciampi linguistici e gli shifter, gli scambi di Francesco Paolo Intini se non l’ossessione della pulsione di morte dei significati convalidati dalla pratica sociale?, che cosa sono quei «pendeloques» (ciondoli) di Marie Laure Colasson se non manifestazioni del «mondeggiare» degli oggetti ovunque si volga lo sguardo?, quel «mondeggiare» che avviene in una condizione di assenza di orizzonte?; le «descrizioni» di Vincenzo Petronelli in realtà sono espedienti che portano fuori strada il lettore, interpretano una variante di quel «mondeggiare» privo di mondo e di orizzonte che è nient’altro che la nostra epoca glocale. Secondo il filosofo marxista Slavoj Zizek la freudiana pulsione di morte deve essere adottata quale categoria centrale del capitalismo. La pulsione di morte abita il cuore del capitalismo odierno. La poetry kitchen è ossessionata dalla presenza di questa pulsione di morte che tenta di esorcizzare con un caleidoscopio di immagini, di figure, di icone, di avatar e di situazioni ultronee, ma si tratta pur sempre di un esorcismo, in realtà la pulsione di morte è la protagonista assoluta della poesia kitchen che avviene mediante una «messa in scena».

    La pop-poesia kitchen può essere letta da chiunque eserciti una professione utile ma non da un impiegato della pseudo cultura: un negoziante, un orologiaio, un barista, chiunque tranne che da un letterato.
    «Noi figli degli anni più belli», recita la pubblicità di Facebook. È vero, adesso noi, figli degli anni più belli abbiamo tra le mani un linguaggio di rottami, di rifiuti, di remainders, ed è con questo lessico che dobbiamo puntellare le nostre capanne per l’inverno che verrà. In distici, in tristici o in quadristici il kitchen è un discorso sulla tristizia del linguaggio de-politicizzato che usiamo tutti i giorni. Il fatto è che quel linguaggio si era decomposto già da tempo, il fenomeno era già da tempo sotto i nostri occhi, ma non volevamo vederlo. La decostruzione è già avvenuta e avviene continuamente tutti i giorni e tutti i momenti ad opera delle Agenzie emittenti dei media che emettono vomito linguistico profumato in miliardi di esemplari. Ma, gratta gratta, resta vomito. Così, ogni discorso diventa un percorso kitchen ad ostacoli.

    Bisognerà chiedersi se la museruola lasciata al bulldog rientri nel silenzio dell’Essere. Andiamo tutti in giro con una museruola, solo che non ce ne accorgiamo; diciamo frasi fatte, frasi obbrobriose e intonse per la loro insignificanza. Tutto ciò «nel silenzio dell’essere». Non è drammatico se non fosse comico? Drammatico e demiurgico e demoscopico con un algoritmo che decide del nostro linguaggio de-politicizzato profumato all’aloe. È che «l’essere svanisce nell’Ereignis», «l’essere svanisce nel valore di scambio», ha scritto più volte Heidegger. Davvero, delle frasi così potrebbe sottoscriverle anche un filosofo marxista, e magari verrebbe tacciato di estremismo infantile. E invece le ha scritte Heidegger.

    (Giorgio Linguaglossa e Marie Laure Colasson)

    • Mi sono sforzato molto, ma la voce dell’essere non sono mai riuscito a sentirla. Non ho mai capito, se l’essere parlasse, cosa dovrebbe dire. Ho letto e riletto Heidegger, spesso difendendolo da attacchi politici molto pretestuosi. Ma la sua presunta “autenticità” mi è sempre suonata piuttosto falsa. Probabilmente sono troppo letterato e non abbastanza negoziante, orologiaio, barista, per capire.

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renata morresi
renata morresi
Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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