Appunti su Charles Reznikoff, “Testimony” e la “documentary poetry”

[A gennaio, pubblicavo su NI un saggio dedicato a Charles Reznikoff, uscito sul n° 80 del “verri”. In seguito, ho invitato Giuseppe Nava – che è attualmente uno dei pochi autori, in Italia, a interessarsi al poeta statunitense – a proporci un suo contributo. Lo ringrazio per aver risposto con questo intervento, e ricordo che sue traduzioni di Testimony sono apparse qui e traduzioni di Andrea Raos da Holocaust qui. a. i.]

.

Di Giuseppe Nava

A reviewer wrote that when he read Testimony a second time he saw a

world of horror and violence. I didn’t invent the world, but I felt it. [1]

L’operazione che Reznikoff mette in atto per realizzare le sue opere più famose, Testimony e Holocaust, è estremamente semplice, ma proprio in questa semplicità sta anche il segno della sua radicalità. Reznikoff attua quella che Genette definirebbe versification, ovvero la messa in versi di un testo in prosa già esistente – nello specifico, deposizioni testimoniali in sede di processo. Un’operazione che non prevede nessun altro intervento se non questa spezzatura (che peraltro rimane come unica traccia di una “mano” del poeta, insieme alla scelta dei materiali). Quindi, come già rileva Andrea Inglese nel suo saggio [link], non si tratta propriamente di un collage, né risulta da una qualche forma di decostruzione testuale. Il fulcro è tutto nello scarto che si crea tra il materiale di partenza, ovvero il documento legale, e il materiale di arrivo, ovvero il testo poetico. Uno scarto che crea straniamento, che costringe a rimettere continuamente in discussione la lettura del testo.

Sempre Inglese cita il saggio di Marie-Jeanne Zenetti in cui si sottolinea l’esitazione costante del lettore di fronte alla duplice natura – poetica e documentaria – di un’opera di come quella di Reznikoff. Con particolare riferimento a Testimony, trovo che ci siano due approcci alla lettura che agiscono alternativamente, provocando una sorta di continuo stop and go. Inizialmente ci si lascia trascinare dal flusso continuo dei tremendi episodi narrati: il lettore dopotutto si avvicina al testo in quanto poesia – è in versi, è rubricato come poesia pure se non “tradizionale”, l’autore viene definito poeta. Ma questo trascinamento viene continuamente interrotto dalla consapevolezza della natura originaria del testo, ed emergono allora i quesiti intorno a ciò che del testo non sappiamo: chi sta parlando? Quali sono gli effetti del suo parlare? E anche, volendo: potrebbe aver mentito? Il critico Todd Carmody afferma che «Reznikoff sembra disinteressarsi della scena della testimonianza ed esclude il contesto dell’aula del tribunale, traducendo le dichiarazioni alla sbarra […] in racconti fluttuanti del tutto avulsi dalle circostanze della loro enunciazione. Né ci trasmette alcuna sensazione che queste storie appartengano a soggetti distinti, che fanno esperienza del mondo in modi diversi. Ogni racconto è riportato in terza persona, con niente che ci aiuti a distinguere tra i vari lui e lei di cui leggiamo le esperienze»[2].

Quello che accade nell’incontro tra poesia e documento in Reznikoff è una reazione in cui ciascun elemento disinnesca gli aspetti statutari dell’altro. Da un lato, una “certa idea” di poesia – assertiva, portatrice di una qualche verità soggettiva – viene meno: il poeta non crea nulla, si limita alla selezione e alla versificazione. Dall’altro tutti gli elementi autoritativi del documento vengono eliminati dalla trasposizione: il contesto del processo, il dibattito, soprattutto la decisione del giudice. Forse, a volte, anche il linguaggio: Benjamin Watson, un bibliotecario americano specializzato in legge, sarebbe riuscito a risalire ad alcuni dei documenti originali lavorati da Reznikoff, e confrontandoli con le poesie di Testimony, avrebbe scoperto che in molti casi i termini troppo legati al contesto legale erano stati cancellati o modificati. Ho usato il condizionale perché non sono ancora riuscito a recuperare il saggio[3]; oltre che un interessante sguardo sul metodo del poeta newyorkese, questi interventi sarebbero un segno ulteriore dell’obiettivo perseguito da Reznikoff, cioè una poesia oggettiva,  autosufficiente.

La sintesi della reazione documento legale/poesia in Reznikoff è dunque il fatto nudo, essenziale, senza interpretazioni né morali. Il fatto, e la musica dei versi, la cui disposizione e spezzatura segna, come già detto, l’unico indizio della cifra del poeta. Reznikoff non era certo indifferente all’aspetto musicale del testo – «what I wanted to do was to create by selection, arrangement, and the rhythm of the words used as a mood or feeling»[4]. Qui si possono ascoltare, tra le altre, due letture da Testimony da parte dello stesso Reznikoff.

Il lavoro di Charles Reznikoff si trova spesso citato tra i primi esempi di quella che negli Stati Uniti viene genericamente definita “documentary poetry” (o docupoetry). Secondo Jill Magi, è a circa metà degli anni novanta che si comincia ad accostare i due termini per indicare non tanto una corrente o un gruppo, quanto piuttosto una categoria di scrittura che fa del lavoro sul documento l’elemento fondamentale della costruzione dell’opera. Ma benché il concetto sia ampiamente sdoganato, con saggi e panel e corsi universitari, Magi rileva che gran parte della discussione critica su di esso «comincia e finisce con la domanda: “Che cos’è?”»[5].

Christophe Hanna ha dedicato un intero capitolo del suo libro Nos dispositifs poétiques al “fonctionnement documental” in poesia[6]: per Hanna il “documento poetico” non è un ibrido tra le qualità di due forme eterogenee, non è un documento che assomiglia a una poesia; ma è creato intenzionalmente, e risponde a un nuovo o diverso bisogno di informazione: «il documento poetico opera […] dando una nuova visibilità (una forma in una nuova sostanza) a un oggetto che ha già un nome (un’etichetta) nella storia o nell’attualità». E ancora, il paradigma enunciativo del documento poetico «non è l’enunciato privato (e indiscutibile) del tipo “io sento…”, “io credo che…” oppure “ho l’intenzione di…”. Al contrario, possiede una certa forma di veridicità, o perlomeno di effetto sulle nostre credenze collettive».

Le definizioni in effetti sono molteplici, e spesso in negativo, cioè dicono cosa non è la poesia documentaria. Ma si possono trovare delle problematiche ricorrenti: «la poesia documentaria transita in modo opposto alla poesia pura o “ispirata” dalla musa o dal numen […] nella poesia documentaria la coscienza si moltiplica o si riflette alla maniera di un gioco di specchi in altre coscienze, o meglio ancora, alla maniera del ventriloquo, in un enunciatore che dà voce ad altri. Quindi vale la pena dire che la poesia documentaria cerca di restituire la voce a coloro che ne sono senza, quelli senza possibilità di redenzione, perché non gli è stato permesso di prendere la parola o perché non sapevano come farlo; quelle voci che rischiano di essere spazzate via dall’oblio e dal silenzio»[7].

Questo porre l’accento sugli aspetti legati a un’idea di collettività, a un “ridare voce” ai vessati e dimenticati della storia, sembra tipico della documentary poetry statunitense, che infatti oltre che a Testimony guarda a The Book of the Dead di Muriel Rukeyser come a un antesignano. Inviata come giornalista in Virginia per raccontare quello che è passato alla storia come il disastro dell’Hawks Nest Tunnel (dove una società elettrica non ha protetto dai rischi dell’esposizione alla silice i propri lavoratori, impegnati nello scavo appunto di un tunnel, provocando di fatto una strage), Rukeyser raccoglie materiali documentari disparati che mette in versi e organizza in un poemetto, interpolandoli ai suoi propri versi. Ci sono estratti delle audizioni al Congresso, stralci dei processi, relazioni mediche, lettere e testimonianze delle vittime o dei loro famigliari. Diversamente da Reznikoff, che pure intraprendeva negli stessi anni la prima stesura di Testimony (The Book of the Dead è uscito nel 1938), Rukeyser non esclude soggetti e circostanze dai testi, ma anzi li esplicita, con nomi e riferimenti precisi.

Alcuni tra gli esiti più recenti della documentary poetry americana sembrano iscriversi nel solco di Rukeyser piuttosto che in quello del Reznikoff di Testimony. Mentre quest’ultimo, nel suo lavoro di selezione e allestimento e versificazione, restituisce un’opera che assume i tratti dell’epica (o di un’anti-epica, come ebbe a dire Charles Simic[8]), i contemporanei si concentrano su casi specifici, episodi e contesti precisi. Mark Nowak in Coal Mountain Elementary (2009) riprende il tema minerario a partire da una recente tragedia negli Stati Uniti, riportando le testimonianze dell’inchiesta, e mettendolo in una prospettiva globale con i resoconti paralleli di numerosi simili incidenti in Cina. One Big Self di Carolyn D. Wright (2007) racconta il mondo carcerario della Louisiana attraverso le voci dei detenuti, raccolte dalla stessa autrice; e ancora, H. L. Hix in God Bless (2007) accosta i discorsi pubblici di George W. Bush alle dichiarazioni di Osama Bin Laden, il tutto messo in versi. Questi sono solo alcuni esempi, ma si intuisce una decisa attenzione agli aspetti sociali e a una funzione politica militante della poesia: “poetry extends the document” dichiarò Rukeyser[9], ovvero laddove un documento può dire qualcosa del mondo, la poesia può amplificare questo effetto «sulle nostre credenze collettive»[10].

*

NOTE

[1] L.S. Dembo, Interview with Charles Reznikoff, in «Contemporary Literature», Vol. 10, No. 2 (Spring, 1969), p. 202.

[2] Todd Carmody, The Banality of the Document: Charles Reznikoff’s Holocaust and Ineloquent Empathy, in «Journal of Modern Literature», 32.1, 2008, p. 90. La traduzione di questa e delle altre citazioni è mia.

[3]  Se ne parla per esempio qui: http://stevenfama.blogspot.com/2009/01/poetry-from-law-part-one.html e qui: https://www.poetryfoundation.org/harriet-books/2008/08/i-fought-the-law. Purtroppo la pagina web a cui entrambi gli articoli rimandano non esiste più.

[4] L.S. Dembo, cit., p. 202.

[5] Jill Magi, Poetry in Light of Documentary, in «Chicago Review», vol. 59, n. 1-2 (fall 2014-winter 2015), p. 249.

[6] Christophe Hanna, Nos dispositifs poétiques, Question Theoriques, 2010, pp. 177-203.

[7] Mijail Lamas, El estamento ontológico de la poesía documental, in «Guaraguao» 2020, a. 24, n. 63: LÍriCAS híBRiDaS. CoNtaMInACioNEs GenéRIcaS, iNteRMEdiALIdAD y pOlifonía en la pOeSía lAtiNOaMericAna rECiente, p. 86.

[8] Charles Simic, A Brutal American Epic, https://www.nybooks.com/online/2015/08/25/brutal-american-epic-reznikoff-testimony/

[9] Citata da Catherine Venable Moore nell’introduzione a The Book of the Dead, West Virginia University Press, 2018, p. 11.

[10] Cfr. le citazioni da Hanna. Non a caso, Nowak – come già Muriel Rukeyser prima di lui – svolge anche attivismo sociale, in particolare rispetto alle problematiche della working class statunitense.

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1 commento

  1. Grazie per questo bell’articolo; in effetti Holocaust (letto nella traduzione di Andrea Raos) è un testo notevole. Peccato che però Testimony non sia stato pubblicato neanche in piccola parte in traduzione italiana. Possibile che nessuno dei tanti editori “coraggiosi” che ormai ci sono in Italia sia interessato?

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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