Sociopatici in cerca d’affetto, Michele Mellara (Bollati Boringhieri, 2023)
L’esordio letterario di Michele Mellara, regista.
Una raccolta di storie interconnesse in quattro sezioni: Coloro che amano, Ritratti in bilico, Tra le orecchie e Paesaggi sghembi. Ogni sezione dà corpo a un’idea di scrittura, o almeno tenta di farlo. In Coloro che amano l’azione si regge sull’imperfetto, che è il tempo della fiaba, e i protagonisti, come eroi fiabeschi vi precipitano all’interno animati da una mania, da un affanno, da un sentimento esclusivo. Ritratti in bilico, che è anche la sezione col maggior numero di racconti, tratteggia una galleria di personaggi insoliti, in sospensione, tra le pieghe di un’esistenza a tratti comica, altre volte amara e indigesta. Mentre Tra le orecchie dà voce a un flusso di coscienza/monologo – spesso travestito da dialogo – di un personaggio, vittima della sua pigrizia, recluso nello spazio asfittico di una stanzetta a pigione, loculo che coincide, in un cortocircuito semantico comico-umoristico, con la sua testa. Infine, i pochi racconti di Paesaggi sghembi hanno l’obiettivo di ribaltare la realtà, di renderla manifesta al lettore solo alla fine, ammesso che sia quella giusta.Ogni racconto ha una sua unità anche se si richiama sempre a qualche altro. A volte è il precedente o quello a venire, altre un racconto di cui il lettore sembrerebbe aver perso traccia. Il tutto avviene in un lieve gioco di specchi che, mi auguro, possa rendere più gustosa e coinvolgente la lettura.
ritratti in bilico
I previdenti
Ogni giorno la morte entra più volte nel suo negozio.
A volte è corrucciata, con delle vistose borse sotto gli occhi – segno evidente di notti in bianco –, con un passo lento e stanco; altre volte invece è più sicura e determinata, sempre seria, ma con una serietà più legata ai numeri e ai conti che a un’afflizione esistenziale. Ci sono giorni, invece, che quando arriva sembra essere tutta dedita ai piaceri dell’arte, soprattutto quella scultorea, ed è allora che le sue domande si fanno fitte sulle proprietà del marmo, i suoi colori, i luoghi di provenienza, e può stare anche un’ora a chiedere le peculiarità e le differenze che intercorrono tra un botticino classico e un travertino, o tra un bardiglio fiorito e una calacatta.
Lui la conosce da un tempo lontano; era ancora un ragazzo quando la incontrò per la prima volta. Ha imparato, con gli anni, a gestirla; a piegarsi al vento dei suoi malumori, a rispondere a tono e con calma alle sue domande, a farle uno sconto quando lo richiede, a essere malleabile verso il suo gusto spesso bizzarro, ad assecondarla senza essere servile, e a rassicurarla quando la nota incerta e indecisa.
D’altro canto il negozio di marmista che gestisce era di suo padre e, prima ancora, in una botteguccia fatiscente e lurida, del nonno. Tutti marmisti di lapidi funerarie. Una famiglia d’arte, mortuaria, ma sempre d’arte.
La morte ha dato da mangiare a tutta la sua famiglia per più di un secolo, con loro sicuramente è stata magnanima, tutt’altro che crudele e arpia e viscida e infingarda, come la si vorrebbe credere. Una gran signora capace di munifici slanci sempre ben accolti.
La morte, lui lo sa, si appiccica alla pelle degli avventori del suo negozio, e tramite loro si palesa. Ma solo a lui. Gli altri, quelli che non hanno l’occhio allenato da generazioni, non possono vederla. Per un estraneo, la vecchia moglie che viene a chiedere una lapide per il marito defunto, non è altro che una signora affranta dagli eventi dell’esistenza. Ma lui sa, invece, che in quel momento è la morte che parla con la voce della vedova, è lei che le ha scelto i vestiti, che ha deciso quale passo darle, quale umore, curiosità, negligenza o attenzione farle mettere in campo. Il campo funebre non è solo nell’obitorio. Comincia nel suo negozio e si estende poi per un tempo e uno spazio che forse solo Dio può dire quanto grande sia. Lui ne occupa un minuscolo segmento, ma di quella infinitesima parte lui è il re, o perlomeno il guardiano. Ha un titolo, un ruolo, e gli viene riconosciuto. Quando parla lo si ascolta, quando enumera ancor di più.
Negli ultimi mesi, con una frequenza molto maggiore che in passato, varie persone, perlopiù donne, sono venute nel suo negozio per commissionargli, in evidente anticipo, le lapidi che andranno a ricoprire le loro tombe. Era già successo, è vero, ma di rado, e la richiesta era sempre venuta da parte di persone alquanto eccentriche alle quali non aveva mai dato troppa rilevanza. Ora, era abbastanza normale che qualcuno volesse, con precisione e piglio organizzativo, definire tutti i dettagli della propria lapide funeraria: tipo di marmo, forma, incisione scultorea – spesso gli si chiedeva di intarsiare un ramo di rose a bordo lapide, pratica nella quale mostrava una certa abilità –, costi, collocazione nel campo santo e risistemazione della lapide in caso di futuri smottamenti del terreno.
Lui ascoltava, prendeva appunti sul suo taccuino, consigliava nel caso ve ne fosse bisogno, elencava i prezzi e, a volte, accettava di fare un piccolo sconto sul totale.
Anche adesso, se qualcuno avesse messo il naso nel suo negozio, avrebbe notato, in bella vista, una lapide realizzata con un marmo bianco leggermente striato di grigio – bianco statuario è il nome tecnico – sulla quale erano già state stuccate una a una le lettere di un nome e un cognome: Fiorella Braccialetti. Nell’epitaffio, inoltre vi era la data di nascita e lo spazio lasciato vuoto di quella che sarebbe stata la data di morte.
La signora Braccialetti aveva scelto con cura il tipo di marmo, il colore e la grandezza delle scritte, la foto affissa in alto al centro dove la si vedeva sorridente, presumibilmente illuminata da un sole primaverile, con le mani aperte in un gesto di pacificata accoglienza. La signora Braccialetti aveva già saldato il conto e preso accordi in dettaglio col negoziante per quando sarebbe giunta la sua ora. Lui sapeva esattamente dove sarebbe stata sepolta e cosa avrebbe dovuto fare.
La particolarità, rispetto ad altri casi simili, era che la signora Braccialetti godeva di ottima salute e, soprattutto, che aveva solo quarantaquattro anni.
«Un po’ presto per pensare alla propria tomba, no?»
«Meglio essere previdenti nella vita, finché ci è dato esserlo, non trova?» gli aveva detto, lapidaria.
Se n’era poi andata con passo sicuro, senza voltarsi indietro, restituendogli l’impressione di una donna determinata che non torna mai sulle proprie scelte.
Da allora ogni tanto ci pensava.
Avrebbe dovuto preparare anche la sua lapide? Deciderne il marmo e tutto il resto, comprare il tombino al cimitero, svolgere tutti i consueti atti amministrativi che, di norma, espletava per i suoi clienti?
Aveva moglie e figli, non era solo. Ci avrebbero pensato loro. E poi non era vecchio, gli rimanevano ancora parecchi anni prima che la sua morte potesse essere interpretata come un dato di normalità. Non era sconsigliabile accarezzare la morte, proponendole già tutto il pacchetto infiocchettato? Come se le dicesse che era pronto e che poteva anche prenderlo subito, senza dover attendere un minuto in più.
E così, con questi pensieri in testa, ogni sera chiudeva il negozio, senza decidersi sul da farsi.
Una sera d’inverno, mentre pensava ancora se facesse bene a preparare la sua lapide al più presto oppure no, prese la macchina e si tuffò, come di norma, in tangenziale. Il precoce buio delle troppo brevi giornate novembrine veniva rischiarato dai lampioni stradali. Si era attardato in negozio, a casa sicuramente la cena era già stata consumata e lui riusciva a immaginare in modo vivido i volti dei suoi familiari: corrucciati per i suoi numerosi ritardi e borbottanti più d’una caffettiera sul fuoco. In quel preciso istante pensò di fuggire, di andarsene via, di abbandonare tutto. Bastava lasciarsi guidare dalla luce dei lampioni, semplicemente, dalla loro regolare cadenza, seguirne la linea che si perdeva all’orizzonte. Queste lucciole meccaniche esercitavano su di lui un potere tranquillizzante; cominciò a fantasticare, fino a giungere in una zona di confine in cui la realtà non era imbrigliata nei laccioli delle con-venzioni sociali e neppure da quelle matrimoniali, ancor più costrittive – almeno nel suo caso –, ma gli si presentava in un’altra veste: un futuro vissuto sulla strada, nella notte, rischiarata con una tranquillizzante regolarità dalla linea senza fine dei lampioni. Così il suo sguardo andò al cielo, o meglio, un po’ più in basso delle nuvole, a quelle luci che lo catturarono così come d’abitudine succede con gli insetti. E si librò in volo con loro, vagolando libero da ogni affanno terreno.
La libertà ha un prezzo e nel suo caso fu la dispensa dagli affanni del quotidiano: sbandò con la macchina che, dopo varie capriole, si andò a schiantare contro la granitica barriera stradale.
Morì mezz’ora dopo sull’ambulanza diretta all’ospedale.
La scelta della sua tomba rimase in carico ai familiari che, essendo avari e poco inclini a ricordarsi di chi aveva lavorato per il loro agio, decisero per una lapide di quarzo a buon mercato, un avanzo invenduto di magazzino. Quando lo seppellirono, in fondo al camposanto, fu un giorno di pioggia, desolato, in cui anche i corvi non ebbero il coraggio e tanto meno il desiderio d’involarsi dai loro nidi.
Michele Mellara, documentarista, regista e sceneggiatore, condivide la quasi totalità della sua produzione artistica con Alessandro Rossi col quale da oltre vent’anni scrive e dirige. I loro film sono stati proiettati in centinaia di festival in tutto il mondo e trasmessi dalle emittenti televisive di oltre cinquanta Stati. È socio fondatore della Mammut Film. Insegna Cinema documentario all’Università di Bologna.