“Arle-chino. Traduttore-traditore di due padroni”
di Silvia De March
Più di un anno fa, “Cuore di seta” ha conquistato con immediatezza uno spazio nel mio cuore e nella mia libreria e ad esso sono molto grata: si tratta dell’autobiografia di un uomo cinese, mio coetaneo, arrivato clandestinamente in Italia all’inizio degli anni Novanta e oggi affermato attore. Shi Yang Shi ripercorre in esso le sue fatiche, a volte schiaccianti e frustranti, nell’integrazione in un contesto culturale, linguistico, sociale, radicalmente alieno rispetto a quello d’origine; basterebbe questo per definire “Cuore di seta” una lettura imprescindibile per ciascun insegnante. Ma potrebbe essere altrettanto imprescindibile anche per chi segue gli stereotipi in base ai quali gli immigrati tutti ci rubano il lavoro oppure che è meglio aiutarli a morire a casa loro. Vi si leggono le vicissitudini familiari sopportate per sopravvivere economicamente, in un luogo – il Bel Paese – dove la formazione medica dei genitori non ha contato assolutamente nulla; un luogo dove la vita è caduta in un “buco”, nonostante sia stato scelto pur di evadere da una società in cui alcuni diritti fondamentali non sono assicurati e pur di dare un futuro migliore proprio a Shi – come probabilmente auspicavano fino a qualche giorno fa le 68 persone morte a 150 metri dalla costa italiana.
Ma al di là degli elementi documentaristici, Shi Yang Shi – un ‘banana’: ovvero giallo fuori e bianco dentro – con pacatezza, umiltà e un pizzico di autoironia ci accompagna nel suo viaggio introspettivo alla ricerca della propria identità e di una possibile sintesi tra cultura cinese e cultura europea, regalandoci alcune perle filosofiche luminescenti. “Cuore di seta” ci consegna un esempio utile per tutti di spirito di sacrificio e forza d’animo ed è inoltre capace di parlarci dei molti coi quali conviviamo, figli di immigrati, cresciuti qui in Italia, spesso smarriti nel tentativo di identificarsi.
Un applauso va dunque a Cristina Palumbo, direttrice artistica di Echidna Cultura, per aver proposto domenica scorsa a Vigonza “Arle-chino. Traduttore-traditore di due padroni”, di cui Shi Yang Shi è interprete e pure regista (insieme alla scomparsa Cristina Pezzoli). Una novità forse assoluta nel panorama teatrale è che lo spettacolo è svolto in una formula bilingue, includendo una lingua extracomunitaria: ebbene sì, ogni battuta viene pronunciata due volte, una in italiano ed una in cinese, intendendo rivolgersi e coinvolgere anche un pubblico cinese. E finalmente, in una platea piacevolmente piena, si sono visti i primi ospiti cinesi. “Arle-chino” segna quindi una possibile direzione verso un orizzonte di integrazione che è urgente concretizzare, indicandoci che può e deve essere realizzata anche sdoganando gli spazi culturali dove si promuove un’aggregazione virtuosa ed aprendoli alla frequentazione di chi resta ai margini, di chi continua ad essere soltanto oggetto di narrazioni e raramente soggetto, di chi resta giustificazione di operazioni culturali ma di cui raramente si promuove la partecipazione effettiva.
Lo spettacolo integra il libro con ulteriori episodi, alcuni dei quali meglio fanno capire le contraddizioni del regime comunista, il fardello che pesa e minaccia la vita privata di ciascuna famiglia e anche la radicale solitudine e l’abnegazione di coloro che hanno scelto l’Europa. Uno dei più agghiaccianti episodi portati in scena rievoca un momento di grande tensione tra la comunità cinese di Prato e i cittadini italiani, tra cui Shi Yang Shi si trovò a svolgere il ruolo di traduttore, all’indomani del rogo di un capannone in cui alcuni lavoratori cinesi persero la vita e la loro vita perduta non ebbe affatto risonanza nei media.
Senz’altro è anche questo lato militante dell’autore, il suo stare dentro le cose, che rende la sua stoffa più solida, consapevole ed autorevole. Per quanto riguarda la composizione teatrale, pur con qualche ingenuità, è indubbiamente apprezzabile la capacità di portare in scena una materia corposa e densamente tragica, facendo prevalere il registro comico e la cifra della speranza.
Nel dialogo finale con pubblico, Shi Yang Shi ha fatto brillare senza diaframmi la sua autenticità e il suo spessore: un misto di delicatezza, coraggio, voglia di vivere, simpatia, profondità di pensiero. La sua voce testimonia come la cultura e un profondo lavoro su se stessi possano riscattare le sconfitte imposte dalle circostanze attraverso una crescita personale che ci fa sbocciare al mondo come un dono, semplicemente grazie al proprio radicamento, a prescindere dalla capacità di arrivare a risultati artistici così complessi.
Infine, va dato merito al Comune Di Vigonza per aver affidato la gestione del Teatro Quirino de Giorgio a una delle poche realtà indipendenti di organizzazione dello spettacolo dal vivo che restano in questo territorio, fagocitato da un monopolio che sta nuocendo gravemente alla salute degli spettatori e alla teatro-diversità.
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Foto di Ilaria Costanzo, tratte dal sito di Nidodiragno CMC produzioni