Lost in translation: Tiziana de Rogatis
Sono ben felice di annunciare l’uscita di un’opera che affronta temi a noi ben cari – l’espatrio che è anche esmatrio, esilio dalla lingua madre- con una proposta originale di rilettura del “valore” della casa dell’origine nella creazione letteraria attraverso un paradigma, il translinguismo, in grado di farci capire fino in fondo quella che Agota Kristof definiva “langue ennemie”. Qui di seguito potrete leggere l’ultima parte dell’accurata introduzione al volume che è possibile leggere e scaricare per intero, in open access qui. effeffe
L’homing e la nostra contemporaneità
di
Tiziana de Rogatis
Lo sguardo che questo libro rivolge alle storie di migrazione vuole essere quello dei miei studenti, cui questo libro è infatti dedicato. Da dieci anni a questa parte, durante i miei/nostri corsi all’Università per Stranieri di Siena, vedo che loro – i futuri mediatori linguistici e interculturali del nostro Paese e del mondo – guardano a queste narrazioni come a chiavi di lettura e risorse per capire la nostra attualità. Con il tempo, ho imparato a decifrare il loro sguardo e ho capito che non è solo sociologico: non vede cioè questi libri solo come un documento o un repertorio cui attingere per comprendere questioni linguistiche o antropologiche di oggi. Il loro sguardo è simultaneamente anche estetico, se per estetica si intende una forma di rappresentazione anche pre-linguistica e post-linguistica: un modo di raccontarsi e raccontare il mondo per poter sopravvivere ad esso, renderlo umano, abitabile. Da questa prospettiva essenziale e assoluta, generata al tempo stesso da un’emergenza e da una necessità, le storie di migrazione e di translinguismo diventano un repertorio più significativo di altri. Il loro sguardo mi dice infatti anche che oggi siamo tutti in cerca di homing, di ritrovarci.
Queste narrazioni chiamano in causa non solo la convivenza multiculturale ma anche le ragioni stesse del contratto sociale del mondo contemporaneo. Ciò che Salman Rushdie dice degli scrittori translingui postcoloniali, vale oggi nel bene e nel male per noi tutti. Come spiegherò nel secondo capitolo, ancor prima di scrivere in un’altra lingua, diversa dalla madre lingua, gli scrittori translingui postcoloniali provengono da generazioni di «individui tradotti» e cioè «portati di là dal mondo» (Rushdie 1991: 23): storicamente trasportati e inscritti nella lingua coloniale. La loro scelta di adozione rovescia però l’ancestrale subalternità in un atto di homing individuale e collettivo facendo di questo universo traduttivo una esperienza di acquisto e di signoria. In questo tipo di homing translingue, il modo dell’enunciazione può essere rappresentato come «un luogo in cui abitare […], un luogo capace di offrirti la possibilità di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi» (hooks 2000: 128). Parafrasando il titolo dell’autobiografia linguistica di Eva Hoffman (Lost in Translation. A Life in a New Language) – una delle cinque opere qui analizzate -, la voce individuale e ancestrale è al tempo stesso persa e rinata nella traduzione. La scrittura translingue postcoloniale rende il più possibile familiare una lingua in certa misura estranea, perché storicamente padronale e nemica. E tuttavia, proprio perché una parte di quella lingua rimarrà anche straniera, questa familiarità va continuamente negoziata, aperta a nuove istanze, ritradotta, rinnovata. In modo analogo, questa età globale ci ha per molti versi sovradeterminato, imponendosi molto spesso come un cambiamento eterodiretto da scelte politiche neoliberiste imposte circa trenta anni fa, e accettate con troppa acquiescenza. Siamo viandanti spaesati, esposti ad un mondo globale al tempo stesso astratto e innervato negli interstizi delle nostre vite. In questo contesto, l’homing è una alternativa tra l’essere parlati dalle lingue imperiali dei padroni coloniali o globali e il rinchiudersi nella babele delle lingue locali e dei dialetti o nell’anacronistico purismo delle lingue nazionali. Homing vuol dire creare quello che Bhabha chiama un «Terzo Spazio»: un punto di vista che recuperi, per esempio, un progetto della modernità in grado di tenere insieme le particolarità – i loro eventuali vissuti di margine, i loro diritti e le loro visioni – con alcuni nuclei condivisi, con un linguaggio traducibile e tradotto. È il punto di vista di un universalismo delle differenze, su cui hanno lavorato studiosi del «cosmopolitismo radicato» come Ulrich Beck (2003) e Anthony Appiah (2007).
Guardare ai testi da tutti questi punti di vista non è un atto politicamente corretto, un paternalismo o maternalismo ideologico, ma vuol dire entrare in relazione anche con un’altra idea di estetica: una dimensione immersiva, antropologica e magmatica. Il mio intento è quello di aiutare a ripensare attraverso queste opere il concetto stesso di estetica della nostra contemporaneità, estendendolo a poetiche, opere e composizioni di mondi narrativi che finora sono stati esclusi da questo riconoscimento. Al tempo stesso, però, questa estensione non può essere ispirata a principi di riconoscimento politico, etico e pedagogico estrinseci alla esperienza narrativa e alle sue forme. Al centro dei miei close readings, c’è invece proprio la relazione tra le storie e i loro lettori: la capacità più o meno riuscita che queste storie hanno di immergere i lettori in uno storyworld. Riallacciandomi al dibattito che le discipline neuro-narratologiche stanno elaborando da venti anni, guardo a queste cinque opere dalla prospettiva dello storytelling, del worldmaking e della sua intensità immersiva (Herman 2009: 105-136, Meneghelli 2013: 144-162). Le storie di migrazione sono prima di tutto accomunate dal loro essere storytelling di un paesaggio corale. All’interno di questa dimensione, il worldmaking (il modo in cui si costruisce un mondo) e lo storyworld (il mondo della storia) sono oggi forme tardomoderne di estetica, decisive quanto quelle della decostruzione stessa delle storie, della loro disarticolazione sperimentale, del montaggio. Da questa prospettiva, non tutte le storie di migrazione raggiungono il livello altissimo o alto di coinvolgimento, immersività e densità figurale espresso da quelle incluse in questo libro. Tutte però gravitano intorno a istanze drammatiche, urti traumatici, immaginari e mondi simbolici che stanno contribuendo – in modi diretti o indiretti – ad allargare l’idea stessa di estetica e di letterario.