“Il trauma coloniale”. L’indagine psicopolitica di Karima Lazali
[A fine 2022 è uscito per Astarte Il trauma coloniale. Indagine psicopolitica della colonialità in Algeria di Karima Lazali, tradotto da Barbara Sommovigo, con prefazione di Roberto Beneduce e Simona Taliani. È un volume ricco e complesso, in cui l’autrice, alla luce della propria esperienza di psicanalista, rilegge la storia psichica e sociale del paese e indaga forme e conseguenze del trauma della colonizzazione. Pubblico le prime pagine dell’ultimo capitolo, dal titolo “Uscire dal patto coloniale”, ringraziando l’editore. ot]
di Karima Lazali
traduzione di Barbara Sommovigo
Che cosa ci fa fare, la stronza!
Di chi stai parlando? chiese a Bouzid.
Della libertà.
– Malek Haddad, La dernière impression
Non inventare nuove ferite, ma nuove profondità ai sorrisi e alle gioie:
il mondo è lì, posto nel tuo gesto, come la stella disegnata dall’astro della mano.
– Nabile Farès, L’exil et le désarroi
Ancora oggi l’“Algeria”, significante, oggetto e luogo, è associata a una devastazione e a un’esplosione, in un disconoscimento degli effetti a lungo termine della sua storia coloniale. Questa situazione è il riflesso di una colonialità che ha organizzato una sospensione del tempo, una compressione dello spazio e una cancellazione del memoriale per tutti i suoi membri. In Francia, questa storia intesse tanto i mormorii dei discorsi quanto il loro pesante silenzio. Il coloniale e le sue tracce assumono l’aspetto di un’assenza di memoria o, per riprendere l’espressione di Daniel Mesguich a proposito della guerra di liberazione, di un “grande vuoto di memoria”[1]. Questi fruscii, avvertiti nel profondo, che riguardano l’“Algeria” indicano che c’è dell’impossibile da dimenticare, innominato ma pienamente attivo. Ed è per questo che è ancora difficile, dopo molte generazioni, entrare in una storicizzazione e in un racconto degni delle memorie e del tempo del passato: la violenza persiste a vuoto, sorda e assordante. Deve rimanere?
Questa difficoltà di archiviazione, fortemente attiva, va di pari passo con l’oblio. Come abbiamo visto, la colonialità produce uno strano fenomeno in cui, come scrive il romanziere Salim Bachi, «la nascita della memoria è iniziata con l’assenza di tracce»[2]. Si tratta di un paradossale tumulto della memoria, che cattura la Storia nel politico: al lavoro degli storici viene impedito di aprire un dibattito pubblico che avrebbe conseguenze sulla società civile. La passione per l’“Algeria” continua a ossessionare il politico, anche in Algeria attraverso un “nazionalismo” svuotato di progetto politico, evidenziando un “amore incondizionato” per Lei, la patria. Il minimo scarto rispetto alla causa “nazionale” è trattato come un appello al tradimento e al rilancio del colonialismo. L’immaginario della hogra persiste come stimolo al pensiero e al con-vivere.
Dopo la liberazione, l’instancabile reiterazione della colonialità in seno alle soggettività e alla politica
La colonialità è per il politico portatrice di guerra civile. In diverse occasioni, intorno all’Algeria, si è verificata in Francia un’incrinatura negli apparati politici che organizzavano la società coloniale. Ricordiamo che, anche per la “metropoli”, la cosiddetta “guerra d’Algeria” fu guerra civile per via dell’inclusione della colonia nel corpo della Repubblica. Ha altresì portato a un’importante destabilizzazione della politica francese e a un grave rischio di guerra civile sul suo territorio. E infine, questo scontro ha avuto luogo sul territorio algerino in una guerra interna al suo microcosmo, prima nell’estate del 1962 e poi durante la guerra civile degli anni Novanta.
Il fratricidio, strumento della colonialità, indica così una pericolosa filiazione tra essa e il politico. Questa situazione si sposta, e al momento sta minando il Medio Oriente dove, in nome della “democrazia”, si sta dispiegando l’immortalità dell’impero. Il capitalismo veglia sulla sua eternità e sulla sua conservazione, provocando guerre civili e lotte tribali. Viene anche qui confermato il fatto che la colonialità sposti altrove il fratricidio sopito in seno alla Repubblica. Le logiche attuali dell’impero e i suoi attacchi in Medio Oriente sono inoltre quotidianamente e molto vivacemente commentati dai soggetti degli ex paesi colonizzati, tanto che questo legame tra colonialità e politica è diventato per loro una banalità. Mentre, anche all’interno delle ex potenze coloniali, è troppo spesso dimenticato, ricoperto dalle buone intenzioni della “democrazia” e dal pensiero, ancora corrente, di civilizzare il “mondo” attraverso la democrazia, ignorando completamente i presupposti storici.
È quindi comprensibile che a partire dagli anni Duemila, i discorsi e gli atti di guerra dei leader delle maggiori potenze occidentali in Medio Oriente abbiano ravvivato nella popolazione algerina l’idea che la loro ricorrente invocazione alla “democrazia” indicasse un ritorno alla colonialità. Fra le altre cose, questo ha avuto come effetto quello di rafforzare la sfiducia nei confronti di qualsiasi richiesta di democratizzazione a livello della società civile. La domanda dei cittadini di avere accesso alla pluralità politica e al fatto di essere cittadini ne è uscita indebolita. Il dietro le quinte della “democrazia” made in France nasconde infatti, in Algeria, un potenziale di inibizioni e paure di fronte alla prospettiva di porre fine a un certo tipo di schiavitù. Poiché la colonialità – è importante ricordarlo costantemente – si è basata sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino. In Algeria, questo aspetto rientra nell’indimenticabile, poiché questa dichiarazione per molto tempo è servita come copri-miserie per ben altre poste in gioco: la politica dell’universale è stata solo uno strumento di oppressione e di giustificazione di diverse forme di segregazione. Ciò che ne rimane è una grandissima sensibilità al motivo dell’universo e alla “cosa” democratica come viene praticata oggi dalla politica francese.
L’attuale situazione dei paesi del Medio Oriente rafforza quindi in Algeria la parte indimenticabile della storia coloniale. Qualsiasi cambiamento strutturale del politico comporta un rischio di degenerazione con molteplici poste in gioco. Nel 1959 Frantz Fanon scriveva:
[…] un bambino di sette anni, segnato da profonde ferite provocate da un filo d’acciaio con cui è stato legato mentre i soldati francesi picchiavano e uccidevano i suoi genitori e le sue sorelle. Un luogotenente lo ha costretto a tenere gli occhi aperti, affinchè vedesse e ricordasse a lungo…. […] Ebbene, crediamo sia facile far dimenticare a questo bambino l’assassinio dei suoi genitori, e il suo enorme desiderio di vendetta? Questa infanzia orfana, che cresce in un’atmosfera da fine del mondo: è questo il messaggio che lascerà la democrazia francese?[3].
Come uscire da quella logica di ciò che non si può dimenticare, marchiata da un ferro rosso che ha instaurato nel tempo un’atmosfera di minaccia e di suscettibilità?
Da un lato, in Algeria, la colonialità è diventata una matrice storica: continua a occupare le soggettività e il politico, e funge da causa univoca per ogni questione legata alla responsabilità. D’altro lato, in Francia, tende a scomparire dalla Storia pur essendo pienamente attiva negli spazi bianchi dei discorsi e delle pratiche politiche. A questo proposito, un esempio è il modo in cui il politico cerca di spogliarsi, in Francia, della storia coloniale, preferendo pensare che si tratti solo di un affare degli ex “colonizzati”. Qui e là, la colonialità continua quindi la sua opera di “annullamento” [mise à blanc] attraverso l’espropriazione, la cancellazione e la sparizione.
In Algeria, la questione dello spossessamento è al centro della governance e del rapporto con l’altro. Il gesto coloniale è ribadito dal potere politico, ma questa situazione si ritrova anche e soprattutto al centro delle soggettività, qualunque sia l’appartenenza sociale degli individui. Spogliare l’altro di un presunto potenziale di cui potrebbe disporre rimane una costante nelle relazioni interpersonali: non si tratta solo di monopolizzare il potere al fine di accumulare profitto, ma quasi di spogliare per il gusto di spogliare. Tutto accade come se il tempo si fosse fermato nel momento in cui si trattava di sottrarre all’altro qualcosa che possedeva. Lì risiede la vera traccia invisibile dell’opera coloniale, che si trasmette tale e quale, generazione dopo generazione.
Il politico è dunque la traduzione in atto delle deflagrazioni lasciate nelle soggettività. Viceversa, i soggetti in quanto cittadini partecipano alla costituzione degli apparati di potere, come diceva Frantz Fanon nel 1961: «Un governo e un partito hanno il popolo che si meritano. E a più o meno lunga scadenza un popolo ha il governo che si merita»[4]. Uno strano monito sul modo in cui i cittadini, chiunque essi siano, si adattano e soprattutto partecipano alle scelte del regime, quand’anche lo denuncino e gridino costantemente al “tradimento nazionale”. Non basta quindi evocare la possibilità di un’identificazione con una posizione di coloni dei detentori dell’attuale potere politico algerino, occorre anche pensare al modo in cui le soggettività dei cittadini sono esse stesse attrici dell’assoggettamento al quale contribuiscono al fine di riaffermare nel microcosmo il tempo iniziale dello spossessamento.
Ecco perché la liberazione acquisita non significa un’uscita dalla colonialità. L’indipendenza può ricreare una modalità di legame coloniale che funge da bussola nel legame sociale. La liberazione è un momento fondamentale per accedere al senso dell’esistenza e della cittadinanza. Ma questa liberazione può trasformarsi in un rifiuto di separarsi dal momento traumatico dell’irruzione coloniale. Qualcosa impedisce di emergere definitivamente come un essere separato, preso nella Storia senza essere identificato con essa. Questa non-separazione con lo spirito del coloniale fa della Storia un fatto del presente.
Lo spettro coloniale ritorna dunque a invadere la psiche e il politico. Questo aspetto è essenziale, poiché, in Algeria come in Francia, l’interferenza memoriale è al servizio di un rifiuto di separazione, che mantiene inaffrontabile la passione “Algeria”. La cancellazione e le difficoltà di archiviazione danno a questa passione i suoi pieni poteri. Lo spossessamento della Storia e del senso delle responsabilità è la continuazione dell’ordine coloniale nell’epoca contemporanea. Significa forse che i coloni e i colonizzati vi restano aggrappati? Come abbandonare, allora, il gesto coloniale di spossessamento che opera come memoria e Storia su entrambe le sponde del Mediterraneo?
Il lavoro storico perde di continuo la necessaria autonomia, a volte spogliato del politico in Francia, a volte messo sotto il sigillo del politico in Algeria. Lo spossessamento in Algeria, come abbiamo visto, ha colpito gli ancoraggi simbolici per indurre un ripopolamento delle menti attraverso lo spazio bianco. Questo meccanismo ancora operante è una memoria in atto, celebrata e condivisa da tutti i membri della colonia, anche se i crimini, la distruzione e l’ossessione della sparizione fanno parte dell’indivisibile. Qua e là, questa vicenda attraversa il tempo e lo spazio inalterata. Esiste forse uno strano “patto coloniale” (Frantz Fanon), firmato in bianco senza autori né responsabili? E come pensare allo stesso tempo alla simmetria del patto e all’asimmetria che lo ha costituito? Infatti, se c’è stato un patto tra coloni e colonizzati, questi non lo hanno stipulato né allo stesso modo né allo stesso tempo. La violenza dell’effrazione coloniale è stata infatti la prima e senza precedenti nel suo grado di distruzione e nella sua trasmissione alle generazioni successive. A posteriori possiamo porci questa domanda: a che cosa acconsente la parte colonizzata ribadendo il gesto coloniale all’indomani di una liberazione?
Una lettura eccessivamente militante degli scritti di Frantz Fanon ha spesso contribuito a schiacciare i suoi contributi decisivi come psichiatra. Tuttavia, è proprio dalla pratica clinica con gli “indigeni” oltre che con gli “Europei” affetti da disturbi psichici che, dal 1953 al 1956, ha messo in discussione le posizioni del colono e dei colonizzati come operatori del sistema e non semplici esecutori testamentari o vittime[5]. Così, quando nel 1961 scrive che «il colonizzato sogna sempre di impiantarsi al posto del colono»[6], ritaglia un’altra porzione di comprensione. Perché l’invidia funziona come corollario dello spossessamento, in assenza di un ricordo che restituisca la vicenda come risultato di uno shock vissuto in passato. La reiterazione si ripete infatti in assenza di un testo memoriale su cui potrebbe basarsi per creare punti di sosta. L’indebolimento degli ancoraggi simbolici comporta che l’iscrizione ricercata, non potendo essere incisa, scompare a sua volta.
Si è quindi verificata la falsificazione del luogo di ancoraggio (e della Storia) e la cancellazione delle filiazioni per far scomparire un popolo. Le conseguenze di questa «ferita genealogica»[7] sono un attacco al simbolico, come ciò che tiene insieme il corpo, la lingua e lo psichismo. La distruzione del luogo ancestrale nella colonialità ha spinto ogni “indigeno” in varie forme di malinconia e abbandono. Scrive Nabile Farès:
Ho spinto la porta del luogo e qualcosa si è spezzato in me. Come una lama. O un piacere. Disarmato. Ho spinto la porta del luogo e sono riuscito a raggiungere l’interno della mia durata, perché l’interno si era appena incrinato[8].
[1] Cfr. capitolo 3.
[2] Salim Bachi, Le chien d’Ulysse, Gallimard/barzakh, Paris/Alger 2001, p. 287.
[3] F. Fanon, L’anno V della rivoluzione algerina, in Scritti Politici, vol. 2, p. 33.
[4] F. Fanon, I dannati della terra, p. 140.
[5] F. Fanon, Écrits psychiatriques, in Écrits sur l’aliénation…
[6] F. Fanon, I dannati della terra, p. 18.
[7] N. Farès, Le champ des Oliviers, p. 126.
[8] N. Farès, Le champ des Oliviers, p. 37.