Trasporre guardando. Su “Le pupille” di Alice Rohrwacher

 

di Lisa Ginzburg

Un colpo di genio, spontaneo e rapinoso come ne capitano agli artisti, ha fatto scegliere ad Alice Rohrwacher di trasporre al femminile testo e tema di una lettera che Elsa Morante scrisse a Goffredo Fofi, fraterno amico e mordace critico ma in nuce, non noto e prolifico come oggi, per quanto già allora vivacissimo interlocutore, anche in senso polemico, della scrittrice. Era vicina ai sessant’anni e presumibilmente stava lavorando al romanzo “La Storia”, Elsa Morante, quando pensò di offrire come dono natalizio all’amico, sotto forma di lettera, un apologo, contenuto in una vicenda da lei sentita dire, risalente a quasi cinquant’anni prima, e dall’evidente contenuto allegorico / morale. Le risonanze che le suggerivano quell’omaggio epistolare erano due. Si trattava di un regalo di Natale (la lettera data 21 dicembre 1971) che narrava qualcosa occorso intorno a natale; e poi, la storia riportata si svolgeva in Umbria, stessa regione di cui Fofi è originario. Inventare un convento al femminile, per Alice Rohrwacher sembra avere avuto funzione propulsiva, dinamizzante, e anche di inveramento: guardando i trentasette minuti del suo film “Le Pupille” (ora candidato agli Oscar) tutto pare più credibile e fluido rispetto alla versione originaria dell’epistola di Elsa Morante, quella al maschile. Più efficace, la resa filmica, non tanto per mera questione di genere, quanto perché le dinamiche di repressione / colpevolizzazione contenute nella vicenda, calate nel consesso di donne si fanno se possibile più sottili, e cruente. Così per la rigida, severissima temibile madre superiora (Alba Rohrwacher), così per il personaggio esterno e inventato di una donna, un’elegante signora (Valeria Bruni-Tedeschi) che in segno di richiesta di prece da dedicare a un uomo che ama, offre al Convento la sontuosa torta zuppa inglese che subito diventa oggetto di desiderio per tutte le ragazzine, e dinamo scatenante dell’intera narrazione.

Altra invenzione, questa anche insolita ed efficace sia visivamente che da un punto di vista narrativo, la scelta di “animare” la lettera – in clima natalizio, per brevi momenti inscenando un coro che ha molto del presepe vivente. “Caro Goffredo” intonano in coro le ragazzine all’inizio del film, e di nuovo alla fine, declamando l’incipit e la chiosa della lettera morantiana, e dando vita alla stessa missiva/apologo. Quella che viene a crearsi è un’alternanza tra parlato e cantato il cui effetto da lontano può ricordare i film dl Jacques Demy (Les demoiselles de Rochefort quantomeno), uno schema dove, nella sua parossistica levità, il cantato acquista autorevolezza e forza – forza morale soprattutto, trattandosi di apologo. Un piccolo film pieno di grazia, e che accanto alla grazia conta la virtù della compattezza, di un ritmo che non si smarrisce neanche un momento, e il nitore cromatico: tutto è nitido, intonato nei colori nelle luci nell’ambientazione, senza che mai venga perso di vista il contesto storico e il frangente umano, né mai si noti un sovrainterpretare o eccedere in soluzioni visive. Misurato, appassionato quanto lucido traporre guardando, ovvero mai perdendo di vista un contesto inventato e tenuto sempre vicino, tenuto accanto, chiarissimo e scandagliato e amato . Trasposizione visiva di un testo letterario dove le immagini rendono più vivido ancora l’affresco prodotto dall’infallibile “pennello” della penna di Elsa Morante, e non solo per già detta  armonia cromatica, anche perché nella brevità della misura “tutto si tiene”, ovvero nulla è in eccesso, nemmeno un fotogramma, analogamente a come nel  testo originario della missiva avrebbe potuto essere  per una virgola di troppo. L’osmotico confronto di cinema e letteratura insomma in un congegno del genere, così preciso e compatto, è fluidamente chiaro: personaggi, dinamiche, snodi, scenografia,  tutto invera quel che sulla pagina restava da finir di immaginare. Una bellissima favola natalizia, che lascia, come fanno le favole, attoniti e incantati, custodi in qualità di spettatori della memoria di un luogo che diventa luogo della mente, di un’atmosfera che, a distanza di tempo dalla visione, resta dentro come un punto di luce, un punto reimmaginato a.cui quando lo si vuole poter fare ritorno, in libertà, ogni volta  rinnovando stessa sorpresa intatta. Impressioni che riuniscono qualcosa di infantile e assolutamente adulto insieme, come infanzia e maturità asintoticamente si toccano quando si ascolti, si legga, si guardi raccontata una storia che in sé contenga una riflessione o insegnamento morale. Evviva “Le pupille”, trentasette minuti girati in stato di grazia.

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Lisa Ginzburg ha scritto i romanzi Desiderava la bufera (Feltrinelli 2002), Per amore (Marsilio 2016, Au pays qui te ressemble, Verdier 2019), Cara pace (Ponte alle Grazie 2020, candidato al Premio Strega), le raccolte di racconti Colpi d'ala (Feltrinelli 2006, Premio Teramo 2007) e Spietati i mansueti (Gaffi 2016, Premio Renato Fucini 2017), i mémoir Malìa Bahia (Laterza 2007), Buongiorno mezzanotte, torno a casa (Italo Svevo 2017) e Pura invenzione. Dodici variazioni su Frankenstein di Mary Shelley (Marsilio 2018). Collabora con Avvenire.
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