David Laurenzi: “mille aghi di pino e una cicala morta”
È recentemente uscito per Fve editori il romanzo di formazione Ruggine al sole di David Laurenzi. Ospito qui una selezione di estratti.
1.
L’anno è quello di un vecchio telefilm di fantascienza. Ne ho visto qualche episodio insieme a mio padre. Racconta della terra che esplode e della luna che, schizzata via dalla sua orbita, inizia a vagare per l’universo con sopra gli astronauti che ci vivono. Si chiama Spazio 1999.
Il posto è sul Mar Tirreno.
Io e mia madre combattiamo con le formiche da quando ci siamo arrivati, tre settimane fa. Il tempo dà sul brutto. L’umidità e il freddo aumentano, anche se ufficialmente siamo ancora in alta stagione e il calendario dice estate.
Con la pioggia che va e viene non mi stupisce che le formiche corrano a decine a rifugiarsi nella nostra roulotte.
Mia madre, comunque, combatte più per senso del dovere che per odio sincero. Delle formiche in realtà non le frega più di tanto; se non ci fossi io a lamentarmi probabilmente neanche ci farebbe caso.
“Vammi a comprare le sigarette.” mi dice stando stesa sul più alto dei letti a castello. Sembra ignorare che lo spaccio del campeggio, adesso che è notte, è chiuso e che il distributore automatico più vicino è nella piazza del paese; a piedi ci vogliono venti minuti. Sembra anche ignorare che io ho solo dodici anni. Compiuti da poco.
Ci guardiamo a lungo, in silenzio, finché non prendo i soldi dal comodino e mi allontano.
2.
Il giorno del compleanno ho avuto un bellissimo cappello con la visiera, di un rosso acceso, con davanti la faccia di due famosi wrestler. Me l’ha regalato mio padre e non me ne separo mai. Anche adesso lo rigiro tra le mani mentre percorro la statale buia tra la pineta e i campi. La preferisco alla pista ciclabile che si snoda parallela, a fianco della spiaggia. Lì c’è troppa gente, troppe luci, troppi campanelli squillanti, troppe risate e troppi baci.
Io odio i baci, come deve averli odiati Cristo dopo quello di Giuda.
Il distributore è sotto i portici della piazza. Sto recuperando il pacchetto e il resto quando alle mie spalle arrivano tre ragazzi grandi. Avranno quindici, sedici anni. Nella penombra non riesco a vederne bene le facce.
“Non lo sai che il fumo fa male, che ai bambini è vietato comprare le sigarette?” Parlano sovrapponendo le voci, sghignazzano. “Le prendi per il paparino o per la mammina?” insistono dandosi di gomito. Dall’accento capisco che sono del posto.
“No, sono per me.” In realtà non ho mai fumato e fumare mi fa schifo, anche se mi piace l’odore che lascia addosso alle persone, soprattutto a mia madre.
“Ah, così sei tu la ciminiera di casa! Dài, facci vedere.”
“Non ho l’accendino.”
“Sei proprio un fumatore di merda, tieni!” mi urla all’orecchio il più alto, mettendomene in mano uno di cui mi colpisce il colore: arancione.
Disperato, strappo il cellophane e apro il pacchetto, m’accendo una sigaretta e inizio a fumare, fumare, aspirando fino al fondo dei polmoni, come ho visto fare tante volte ai miei genitori.
“Bravo, così! Sparati il fumo fin dentro lo stomaco! Sì, così!” mi incitano gli altri.
Dopo poco arriva il sudore freddo sulla fronte, la nausea, qualche conato di vomito. Getto la sigaretta a terra. Mi piego in due dalla tosse.
Sento i passi dei ragazzi che se ne vanno, le loro voci che rimbombano sotto i portici come ombre ubriache. Sono solo e in mano mi è rimasto l’accendino.
E se quello che me l’ha dato si accorge di esserselo scordato? M’immagino gli altri prenderlo in giro senza pietà, dargli del coglione, del ritardato peggio di me. Potrebbe tornare a cercarmi, furibondo, per riprendersi quello che è suo. Ho paura.
Lascio cadere l’accendino per terra come se fosse fatto di metallo incandescente e scappo.
3.
Con le mie diciannove stramaledette sigarette rientro al campeggio sano e salvo. Si fa per dire.
La statale è vuota, silenziosa, in balia dell’odore dei pini e del fruscio del vento. Al sottofondo discreto degli uccelli e degli insetti aggiungo il rumore ritmico delle mie scarpe da ginnastica, stupito di come tutti questi suoni invece di rompere il silenzio lo rafforzino.
Ho ancora in bocca il sapore del fumo e del cibo che m’è tornato su, dolciastro. Due merendine e un ghiacciolo, tutto quello che oggi ho mangiato, insieme a un po’ di pasta in bianco.
Solo tre macchine tagliano, come lame luccicanti, il buio molle intorno a me. Rombano via veloci lasciandosi alle spalle una scia fatta di terrore ed eccitazione. L’ultima mi affianca suonando ripetutamente il clacson, prima di dileguarsi a tutto gas.
Rientro evitando l’ingresso principale con la guardiola, la sbarra bianca e rossa, gli scooter pronti a scortare i clienti, i custodi occupati a chiacchierare e fumare.
Passo dal buco sul reticolato, dietro le grandi siepi che nascondono i cassonetti dei rifiuti. Da lì sgattaiolo fino alla nostra roulotte che sta vicino al barbecue e ai bagni chimici di riserva. Un posto sfigato a causa della puzza e dei rumori.
Faccio per entrare, ma la porta della roulotte non si apre. Strano, mia madre la lascia sempre aperta. Provo e riprovo, poi alzo la voce e la chiamo, anche se mi scoccia perché so che a lei scoccia e che a volte questo la fa diventare pericolosa.
“Mamma!” urlo, facendo precedere l’acuto da alcuni abili colpi di tosse, “sono io, aprimi!”
Riprovo, stavolta chiamandola per nome, una cosa meno da moccioso. “Irene! Irene, dài apri, sono tornato!” grido alla porta bianca, concludendo il mio assolo da cantante strappalacrime. Che nessuno applaude.
Mi sembra di percepire un bisbiglio e un paio di piccoli tonfi all’interno della roulotte. Poi più niente. Solo allora vedo lo scooter parcheggiato nella nostra piazzola, dietro la sdraio, la cui ombra lo rende quasi invisibile.
Sputo sulla porta e me ne vado; ma dopo una decina di passi mi ricordo delle sigarette nella tasca. Ritorno davanti alla roulotte e, obbligandomi a non sentire quello che forse immagino solo di sentire, tiro fuori il pacchetto, lo strizzo e lo accartoccio, con tutte le sigarette dentro.
Lo getto sullo zerbino azzurro di plastica, nelle cui fessure stanno incastrati mille aghi di pino e una cicala morta.