Cuccagna non è un paese per vecchi
di Paola Ivaldi
Le nuove ere non cominciano di botto.
Mio nonno viveva già nella nuova era
mio nipote vivrà ancora in quella vecchia.
La carne nuova si mangia con la forchetta vecchia.
Non sono stati i veicoli semoventi
né i carri armati
non sono stati gli aerei sopra i nostri tetti
né i bombardieri.
Dalle nuove antenne sono uscite le vecchie scempiaggini.
La saggezza è stata tramandata di bocca in bocca.
Bertolt Brecht
Ci sono libri che appena inizi a leggere ti accorgi che parlano a te, trattando argomenti che abitano i tuoi pensieri da molto tempo; così, mentre ti sorprendi a divorarli, una pagina dopo l’altra, la tua solitudine svanisce e improvvisamente avverti una comunione di spirito sia con chi quelle pagine le ha scritte sia con altri lettori che ipotizzi famelici e solitari, proprio come te. Il flusso di lettura ti porta a terminare il libro a poche ore dall’acquisto e tu, dopo, rimani per un tempo indefinito in un immobile e muto stupore per quanto hai introiettato, per l’acutezza di una analisi, per la rilevanza del tema. Capisci, in quei preziosi istanti, che il libro comprato poche ore prima e la cui lettura è già terminata, quel volumetto che hai appena chiuso e ancora ti palpita in grembo, è un libro necessario.
Questo è accaduto a me leggendo Invecchiare al tempo della rete di Massimo Mantellini, pubblicato nella collana delle Vele Einaudi. Non ho mai scritto una recensione e non credo, nello specifico, di essere la persona giusta per farlo poiché non sono un’esperta di nuove tecnologie. In compenso, potrei tentare di raccontare perché leggere Mantellini mi abbia emozionata e per quali motivi ritengo il suo libro meritevole di grande attenzione, auspicando dal profondo del cuore che in molti decidano di leggerlo, innescando un dibattito non episodico ed effimero, ma costruttivo e foriero di concreti cambiamenti, individuali e collettivi.
Mantellini parla di vecchiaia, e fin qui nulla di nuovo, essendo un processo, quello della senescenza, che finché non incappiamo nell’inconveniente di morire ci tocca affrontare e la cui percezione, al di là degli sciocchi slogan pubblicitari (tra i mantra più ricorrenti: i 50 sono i nuovi 30), è intimamente soggettiva, dipendendo da svariati fattori che hanno a che vedere con la traiettoria esistenziale, unica e irripetibile, di ognuno di noi.
Ma la mirabile operazione che compie l’autore è l’innesto del discorso sulla vecchiaia nell’era digitale, in questo tempo di connessione perenne, in questi nostri giorni che iniziano a non piacerci più così tanto, come quando, fino solo a un decennio fa, l’acquisto del nuovo modello di un qualsivoglia device ci regalava l’illusione di un atto migliorativo, ci divertiva perfino, ce ne sentivamo, in un puerile autocompiacimento, quasi inebriati. Ora non più, ora siamo molto stanchi e la rincorsa della performance ci appare un obiettivo che avvertiamo sempre più estraneo al nostro orizzonte emotivo.
L’argomento non è banale ed è ancora poco dibattuto, trovandosi in una fase preliminare all’emersione in qualità di fenomeno antropologico, ma è questione di poco tempo e, volenti o nolenti, finirà per esplodere sotto forma di problema sociale. Mantellini parla la lingua dei nativi analogici, che è anche la mia essendo venuta al mondo, come lui, negli anni Sessanta. Al di là di alcuni passaggi particolarmente struggenti, in cui l’autore esprime alcune riflessioni personali sulla vecchiaia che solo chi ne provi di analoghe può cogliere in tutta la loro crepuscolare poesia e che, se vogliamo, risultano ancora e sempre in sintonia con quelle già compiute a suo tempo da una folta schiera di scrittori e intellettuali, efficacemente richiamati qua e là da Mantellini, il merito del libro è proprio quello di rivolgersi a una precisa fetta di umanità, una fascia anagrafica che è appunto nata nella seconda metà del secolo scorso e che ha familiarizzato con la tecnologia muovendo i primi passi, di fatto, insieme ad essa, per necessità di studio, prima, e di lavoro poi e, soltanto successivamente, per desiderio di puro intrattenimento e svago e (illusoria) socialità.
Torniamo alla stanchezza. Perché a me pare che soprattutto dal 2020 in avanti sia una delle lamentazioni più diffuse tra noi nativi analogici. Dicono che la pandemia, con la sua deleteria dilatazione del nostro screentime, abbia prodotto quella che è stata prontamente battezzata come Zoom fatigue; altri dicono che sia, la stanchezza, più o meno digitale, uno dei possibili strascichi del long covid e/o dello stress conseguente al prolungato stato emergenziale. Sta di fatto che lo avvertiamo sempre più come un fardello sulle spalle già alla mattina, appena svegli, questo senso di enorme fatica che colpisce, cronicizzandosi, gli over cinquanta. È una stanchezza che non svanisce né con l’assunzione massiccia di magnesio e/o di papaya fermentata né andandosene in vacanza. È una stanchezza triste, come è quella dei soccombenti.
Mi sono fatta l’idea, e leggendo Mantellini ho trovato conforto alle mie sconclusionate onanistiche elucubrazioni, che mentre noi si invecchia la rete rimane sempre giovane, foreveryoung, come cantavano gli Alphaville a metà degli anni Ottanta, e come ci piacerebbe tanto che capitasse a noi altri, che invece arranchiamo, e mentre, solerti manutentori, graziamo le nostre tecno-protesi tramite periodici upgrade, siamo al contempo desolatamente costretti a prendere atto dei nostri incessanti quanto inevitabili downgrade.
Insomma come stare su di un aeroplano in una fase di eterno decollo, surreale velivolo che decolla sempre e sempre più in fretta, verso stelle e pianeti che noi, tuttavia, non raggiungeremo mai, e lo sappiamo e, per questo, iniziamo ad avvertire la voglia di scendere, quasi un bisogno fisiologico, un’urgenza di atterrare, anche in un vecchio aeroporto abbandonato, e di invecchiare in santa pace, proprio come si diceva un tempo: in-santa-pace.
Ecco quello che non si può più fare, di cui la rete ci ha defraudato: anelare alla cosiddetta santa pace. Bisogna sempre: aggiornare, formattare, ricordare, convertire, cambiare, in buona sostanza: saper smanettare… e fai più in fretta, e cosa aspetti? Domanda: siamo sicuri che questo significhi una migliore qualità di vita? Mantellini si concentra sulla terza età e la risposta è no, così come si stanno mettendo le cose, tutta questa dematerializzazione spinta e questa velocità che si fa fretta e furia non può che mettere in crescente difficoltà – salvo rare eccezioni – le persone anziane che non sono veloci, non sono dotate di mano ferma, non hanno l’occhio di lince, e che insomma non stanno dietro ai rapidi zig-zag della navigazione in rete, che magari cliccano quando non devono e non cliccano quando dovrebbero, che non riescono a leggere il captcha e dunque finiscono per spiaggiarsi online deprivati di identità e incapaci di riscattare sé stessi con rinnovato orgoglio.
La rete, insomma, negli ultimi venticinque, trent’anni, ci ha avvolti nelle sue maglie che da larghe che erano si sono fatte sempre più strette, la tecnologia essendosi insinuata e infiltrata, subdolamente ludica e apparentemente così friendly, in ogni più recondito anfratto delle nostre esistenze. Noi nativi analogici dovremmo forse ammettere che non siamo stati in grado di presidiare, come avremmo dovuto, i confini, siamo stati sentinelle distratte e corruttibili; abbiamo ingenuamente abboccato in massa ai richiami sirenici di una minore fatica, del tutto a portata di click, del “so tutto io” e, app dopo app, abbiamo abdicato, perdendo fiducia in noi stessi, esternalizzando le risorse, sempre alla rincorsa di effetti speciali, scimmiottando quelli più giovani di noi, i nostri stessi figli.
Ci stiamo aggirando, in questi primi anni Venti del XXI secolo in uno strano luna park tra enormi specchi deformanti che condannano i vecchi ad apparire sempre più goffi e grotteschi; accanto a loro trascinano i propri passi i vecchigiovani che sono dei poveri illusi, per dirla alla Mantellini, e infine ci sono i giovanissimi sapienti annoiati dal proprio stesso sapere che, bontà loro, elargiscono a genitori e nonni perle di conoscenza digitale, suggerendo scorciatoie per il cloud che dopo mezz’ora vengono già dimenticate.
Lo smartphone è ormai un crocevia identitario, protesi quasi necessaria per la fruizione di servizi che da voluttuari che erano inizialmente stanno diventando sempre più essenziali; ma come la mettiamo quando le mani si deformano perché artritiche o tremano per via del Parkinson mentre la vista diviene sfocata perché sei in lista d’attesa per l’intervento della cataratta o per banale presbiopia e la tua memoria svanisce e i tuoi riflessi rallentano? Tu a quel punto non puoi che sentirti in un vicolo cieco, con le spalle al muro: ecco come può essere invecchiare al tempo della rete.
La vecchiaia è grama, da sempre, ma ora di più. Nei Paesi del primo mondo la si è prolungata a dismisura, camuffando la crescita della cosiddetta aspettativa di vita da indiscutibile progresso dell’umanità, a prescindere dalla qualità della stessa vita che si è sì prolungata, nel tempo finale dell’esistenza, ma si è svuotata di rapporti umani, riempiendosi di malattie croniche, di invalidità, facendo dei vecchi degli accaniti consumatori di una quantità quasi imbarazzante di prodotti farmaceutici.
Vedere i propri genitori incespicare in rete, confondendo mail e spid, password con QRcode, assistere alla loro rabbia confusa e impotente perché la banca o il medico di base diventano interlocutori quasi irraggiungibili, è uno spettacolo esecrabile, sortisce inoltre l’effetto di indurci facilmente a immaginare quanto potrebbe verosimilmente accadere anche a noi, tra non molto, così pure a quelli dopo di noi. Ai vecchi che verranno, anche ai nativi digitali quando capiterà loro di affrontare la propria senescenza. Nessuno si illuda, non c’è scampo, la tecnologia è spietata, non è qui per il nostro bene, ci prende in braccio, sì, ma non perché ci ami.
La vecchiaia, in sostanza, non è e non sarà mai compatibile con il processo sempre più veloce, e per definizione anticiclico, della digitalizzazione. Suonano, infatti, particolarmente disturbanti e ingannevoli gli appelli che, non senza toni stucchevolmente paternalistici, incitano i nonni a diventare smart, quando poi capita di assistere con sempre maggiore frequenza, nelle sale d’attesa, sui mezzi di trasporto pubblico, al cinema o a teatro, alla tragica incapacità degli stessi nonni smart di gestire i propri device. Quanto siamo disposti a farci umiliare dal nostro smartphone? Quanto potere le vogliamo ancora concedere prima di accorgerci che la tecnologia da mezzo che era si sta tramutando nel fine?
Che ne è, dunque, e sempre più che ne sarà di queste sbiadite figure imploranti aiuto a figli e nipoti, potenziali vittime di raggiri e truffe online o semplicemente vittime di sé stesse per via del generale inevitabile declino cognitivo che renderà sempre più rischioso l’avventurarsi a digitare dati online? Avanti così, chi se lo potrà permettere verrà aiutato da parenti più o meno amorevoli e tenterà di tenersi al passo coi tempi, ma inciampando e cadendo a terra, inseguendo sempre più a fatica il progresso provando un crescente senso di inadeguatezza e di impotenza.
Chi non potrà, perché impossibilitato ad acquistare i device, ad aggiornarne il software o a essere supportato da parenti fidati, sarà tagliato fuori, pressoché da tutto, escluso, esiliato ai confini del regno. In parte, questo digital gap è già in atto, ma lo si preferisce ignorare o sottovalutare: ecco perché un libro come quello di Mantellini è un libro importante, perché illumina con un potente fascio di luce un problema, quello dell’ageismo, già presente nelle nostre vite, ma invisibile e quasi del tutto assente dal dibattito pubblico.
Un concetto mi pare ormai chiaro: il digital gap non si combatte digitalizzando a tappeto tutti e tutto, ma semmai, paradossalmente, mantenendo proprio il digital gap, tracciando invalicabili confini che impediscano deleterie esondazioni e irreversibili eteronimie. Solo così si possono – e si devono – proteggere le fasce anagrafiche più vulnerabili: vecchi e bambini.
A meno che… senza voler rivelare gli scenari prospettati da Mantellini, posso dire che la parola chiave potrebbe essere quella che meno ci si aspetterebbe da uomini e donne di mezza età, ma che potrebbe risultare l’unica exit strategy possibile per scongiurare una crudele quanto irreversibile discriminazione generazionale. La parola è: ribellione.
Chi sono i nuovi ribelli? I nuovi ribelli dobbiamo essere noi, noi nativi analogici non abbiamo altra scelta se intendiamo stabilire la rotta delle nostre vecchiaie, scongiurando la spiacevole sensazione, in un futuro non troppo lontano, di naufragare nel mare magnum di internet, di essere ripescati e diventare un “carico residuale” da destinare a remoti approdi ad oggi perfino inimmaginabili. Dovremo forse affidarci a dei tecno-badanti? Fiorirà un nuovo proficuo business intorno a immancabili Centri di assistenza informatica, che verranno comunemente detti CAI, e apriranno qua e là come nuovi indispensabili erogatori di servizi? Si tratterà di diventare finalmente adulti? E come faremo, noi, a un passo dalla vecchiaia, a ritrovare il senso più vero della virtù e della saggezza? Troppe domande, per lo più senza risposta, affollano la mente di molti di noi, stanchi nativi analogici.
I libri come quello di Massimo Mantellini hanno il potere di rassicurarci, come una mano sulla spalla, sul fatto che no, non siamo affatto soli in questo disorientamento generazionale, in questa landa inesplorata tra login e logout, forse una nuova terra promessa sospesa tra upload e download, che siamo in tanti a inquietarci per il futuro e che è giunto il momento di agire, fare massa: davvero ribellarsi? Forse, chissà.
Rivendicare, questo sì, da subito e con forza inusitata, la nostra umanità con i suoi sacrosanti cicli biologici, tutelare il diritto alla fisiologica senescenza, proteggere a gran voce il legittimo desiderio di disconnetterci, semplicemente scegliendo di vivere offline, potendo farlo senza per questo diventare cittadini di serie B. Non ci resta molto tempo: è un dovere di civiltà ridimensionare l’apparato tecnologico che, irretendoci nel vero senso della parola, si è pericolosamente fatto sistemico, parendo sempre più una tecnocrazia camuffata, per dirla alla Günther Anders, da paese di Cuccagna, che lusinga e blandisce, ma più non concede l’agognata santa pace.
corro ad acquistare il libro così salutarmente vivisezionato: un breviario – mi par di cogliere – per un (premeditato) analfabeta digitale…
Grazie, il libro è davvero da leggere (e da regalare), una Vela a cui auguro una lunga navigazione.
La questione sollevata è davvero importante; e lo sarà sempre di più, considerando quanto vecchi stiamo diventando noi occidentali (e noi italiani, in particolare). Quindi grazie per questa bellissima recensione, così appassionata e scritta meravigliosamente: contro la sciatta frenesia a cui sono sottoposti i nostri (stanchi) neuroni, una scrittura così cristallina e ficcante è già una forma di ribellione.
Grazie davvero! La scrittura di questo testo rivela quanto la lettura delle pagine di Mantellini mi abbia emozionato, poiché davvero io credo che l’autore affronti efficacemente, in modo preciso e argomentato, un problema che esiste (già ora), ma che si preferisce ignorare o minimizzare.
Articolo vero, in ogni sua parola. Cercherò il libro. (Ma prima passo qualche ora davanti ad un cantiere, con le mani dietro la schiena). ;-)
Grazie! La lettura del libro arricchisce, inducendo molto a riflettere su noi stessi (per “noi” intendendo soprattutto quelli che Mantellini definisce “vecchigiovani”, una specie di adulti mancati, per come la vedo io, che rischiano, tutto a un tratto, di ruzzolare direttamente nella vecchiaia), su come lo tsunami digitale abbia sconvolto il nostro vivere quotidiano e su quanto negativamente possa incidere nei rapporti umani e nella fruizione dei servizi di base, se non gestito, se non adeguatamente arginato. (quando cammino incrocio spesso le mani dietro alla schiena, ottimo esercizio di stretching ;-)
Bellissima recensiione che va molto al di là dell’essere una recensione, credo. Io non ho uno smart qualcosa ma un mirabile “telefonino” Nokia che per le telefonate e gli sms va benissimo, e fa perfino qualche foto, ma si tiene lontano da qualsiasi rete, Anche perché io non sono nato negli anni sessanta, ma nei foschi quaranta, e anche all’inizio, dunque . . . Però l’idea di ribellarsi mi piace sempre molto (come alla fine dei ruggenti sessanta . . .). Grazie Paola, grazie davvero.
Grazie a te Sparz, per l’apprezzamento, ma l’idea della ribellione, la chiamata a “farsi legione” è di Massimo Mantellini e il solo leggerla mi ha toccato il cuore, facendomi pensare che non possiamo che provare, ognuno a partire da sé e poi unendo tutte le nostre buone intenzioni, intanto a resistere e poi, chissà, ad avviarci verso un percorso di ribellione..? In verità, non ci siamo che noi, che abbiamo a cuore questi temi, che li vediamo e li sentiamo come problemi concreti e non fuffa da salotto, che possiamo agire poiché ormai da nessun rappresentante del potere costituito, da nessun vertice di governo, da nessun partito politico, potrà più scaturire un pensiero e un programma che sia critico del reale, che metta in discussione la “macchina-mondo”. Invidio molto il tuo Nokia, abbine gran cura!
Davvero una bella recensione, grazie, per un libro che credo sia necessario. In molti ne cominciano a parlare, ma sono ancora pochi.
Credo che la ribellione sia la parola chiave: ci stiamo adeguando all’idea (che è in parte vera) che uscire o fare un passo di lato alla rete significhi scomparire. Ma non si scompare forse di più nell’immersione frenetica dell’epoca digitale, in questo stare e mostrare sempre ovunque, testimoniare: cosa? Per chi? Sono domande che mi affliggono. Come nei social: testimoniamo tutto, ma non ricordiamo niente. Sembra che ormai nessun viaggio, luogo, momento intimo, una colazione, un volto, non esistano se non a condizione che siano catturati da una manciata di pixel. Per ricordarci? Per tenere a memoria? No, perché la velocità muta e rende tutto intercambiabile. Ma quanti di noi, parlo da nata negli anni 80 (che però si ostina a guardare i cantieri) non conservano scatoloni pieni di fotografie? Tutti. Quanti di noi conservano ricordi, impressi nella memoria o scattati con una macchinetta usa e getta? Tutti. Ma quanti di noi, oggi, conservano i ricordi? Nessuno. Li gettiamo in pasto alla rete, come se tutto dovesse essere condivisibile. Dimenticandoci che ci stiamo al contrario allontanando, per paradosso, sempre più dal concetto di condivisione. Talvolta immagino scenari di movimenti no-social, no-smartphone. Dare un segno, urlarla questa presa e questo incantesimo di cui spesso non ci rendiamo conto. Sono pessimista: perché ho le sensazione che si sia sviluppato un eccesso di paura nell’uscire da questa rete a maglie strette, uscire almeno un pochino, restare (tornare, ricreare) in quei prima duemila, quando alla rete si accedeva, non ne eravamo divorati. Paura della scomparsa di fronte all’altro. Ma stiamo già scomparendo.
Cara Mariasole, grazie per le tue belle parole. Sono molto d’accordo con quello che scrivi e non penso che sia una questione puramente generazionale, dentro c’è molto altro… c’è una paura diffusa che si è fatta crosta negli ultimi anni, colpevolmente alimentata da chi trae guadagno da essa, una paura di non-esistere, che ci si illude di contrastare e contenere qui-dentro senza rendersi conto che qui-dentro dovrebbe essere solo un non-luogo di passaggio, di servizio, qui-dentro non è il mondo, è un non-luogo, appunto, non è la condivisione se non effimera e virtuale di qualcosa che scompare in fretta, destinata a non rimanere (esattamente come le migliaia di fotografie archiviate negli smartphone che se non le si stampa e si incollano sugli album è come non averle) e che dunque dovrebbe poi avere il suo concreto riscontro nella dimensione pubblica, non onanistica, non autoreferenziale. Tornare in piazza, scendere nelle strade, difendere con i denti la dimensione collettiva e pubblica. Anch’io, a volte, sogno movimenti di emancipazione dal digitale, sogno ambienti privi di connessione, le vecchie auto senza l’odiosa funzione del viva voce (la gente che ti chiama mentre guida per riempire il silenzio del viaggio, per riempire il proprio vuoto forse perché i pensieri fanno tanta paura), vorrei prendere treni dove le persone guardano ancora fuori dal finestrino o parlano tra di loro o pensano ai beneamati cavoli propri, non vorrei più sentire lamentazioni riferite ai giovani sempre connessi senza che vi sia un contestuale onesto esame di coscienza da parte dei genitori di quegli stessi giovani, non vorrei più vedere tavolate di persone che tra una portata e l’altra passano il tempo ognuna con in mano il proprio smartphone, oppure l’amico che di qualsiasi cosa si stia parlando afferra lo smart per cercare in rete il nome dell’attore o di una pianta di cui si stava discorrendo senza essere sicuri dei rispettivi nomi, per sentirsi “sul pezzo”. Abbiamo perso la capacità di accettare i nostri limiti, i nostri buchi (in molti li trattano come bachi di sistema), il nostro non sapere, i nostri innumerevoli umanissimi dubbi. Abbiamo perso l’umiltà, la tecnologia blandisce assai facilmente coloro che aspirano a essere sempre sul pezzo, alla perenne rincorsa della performance, del di più, del meglio, del tutto comodo, del tutto dovuto. Soprattutto, e questo è davvero inquietante in persone della mia età: non vorrei più venire a sapere della morte di qualcuno in una miserevole chat di whatsapp con o senza corredo di faccine. Se non siamo più capaci di dire la morte, se deleghiamo anche questo aspetto della nostra vita a una protesi, se non troviamo più il tempo e la voce per comunicare la scomparsa di un nostro simile, allora, cara Mariasole, devo ammettere che anch’io mi sento, come te, un poco pessimista. Ma sempre sempre sempre pessimista gramsciana.
Sono un informatico di mestiere. Comprendo perfettamente quanto scritto nella recensione – molto centrata su un tema scottante, rovente direi – perché anch’io spesso “non ne posso più”. Il nostro mestiere è una sorta di tritacarne delle novità, come si può immaginare. E allora me ne vado a fare lunghe passeggiate solitarie SENZA cellulare (smart o meno che sia): irraggiungibile come da ragazzo, quando davamo vita a interminabili partite di pallone e le mamme si sgolavano inutilmente dalla finestra. Eh sì, la cena poteva attendere :-) Non è ribellione, la mia. O, almeno, non la vivo coscientemente come tale. Diciamo che la considero una husserliana epoché, visto che in questo mondo siamo immersi. Ma creare un vuoto verso le “arneserie” può essere un primo passo per riconquistare quel piacere dello stare insieme fisicamente che ci stiamo sottraendo sempre più.
Capisco perfettamente e condivo le tue parole, anche a me capita di staccare tutto, ho anche viaggiato senza cellulare e da sola (sensazione stra-ordinaria sotto molti punti vista). Però al di là delle strategie di sopravvivenza e agli inevitabili compromessi che ognuno di noi è disposto ad adottare, in gioco, nel prossimo futuro, c’è molto molto di più. Il pericolo dell’emarginazione e della crudele e crescente disuguaglianza, in termini di fruizione dei servizi di base, degli anziani o degli indigenti è concreto e dovrebbe allarmarci in maniera non episodica o superficiale. Il libro di Mantellini ha il grande pregio di mettere in luce un problema, di iniziare almeno a farne emergere i contorni, rendendolo visibile.
Buone camminate offline!
Mi sono ribellato nel 2020, pochi giorni prima dello “scoppio” della pandemia. Continuo a ribellarmi. E’ dura, molto dura, ma morirò ribelle. Ribelle felice.
Grazie Paola Ivaldi per questa bella e appassionata recensione.
Molto umilmente, da ribelle analogico, non posso non consigliare anche la lettura di altri due piccoli preziosi saggi usciti nella stessa collana Einaudi. “La restanza” di Vito Teti, e “Così non schwa” di Andrea De Benedetti.
Grazie! Non c’è che prendere coscienza dei fenomeni che stanno assumendo, assai rapidamente, un qualche tipo di forma e consistenza nelle nostre vite, in maniera camuffata e pervasiva, ma incontrastata e dunque per questo degna di attenzione. Non c’è che parlarne, scriverne, leggerne e poi, sì, credo che non si possa seguitare a dire che va tutto bene. Anch’io, ormai, vivo in uno stato di agitazione e di ribellione semi permanente anche se non so esattamente dove questo mio sentire mi condurrà, ma non posso accettare una prospettiva di vecchiaia di mortificazione e isolamento solo perché non ho installato una app, ho esaurito i giga oppure perché il mio tinello non è corredato di fibra di ultima generazione. Ho letto la Vela di Vito Teti e l’ho apprezzato molto, l’altro non ancora ma mi trovo tendenzialmente d’accordo con l’autore di cui ho letto varie dichiarazioni sul tema.
Tengo ancora a dire questo: credo che alla fin fine non siamo poi così pochi come a volte, desolatamente, ci verrebbe da pensare, il punto è che siamo estremamente sparpagliati, nel pieno di una profonda crisi epocale e generazionale, e malauguratamente sprovvisti di bussola. Non c’è che alzare lo sguardo e cercare la stella polare!