Lezioni di assenza
[L’età dell’impazienza (Mimesis 2022) raccoglie per la prima volta in volume per il lettore italiano, a cura di Massimo Rizzante, parte del lavoro saggistico e giornalistico del grande scrittore cubano Alejo Carpentier. Presentiamo qui un suo saggio, e un brano dell’introduzione di Rizzante.]
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di Alejo Carpentier
Il diciannove maggio scorso, a mezzanotte, un immenso transatlantico olandese levava l’ancora da Rotterdam per fare rotta su New York… Faceva freddo. Le luci delle birrerie del porto pulsavano nella notte, provocando tristi iridescenze sulla superficie increspata dalle onde. Una sirena arrochita lanciava un segnale di addio sopra i cupi tetti della città – un segnale che andava a morire al di là dei sobborghi, sui canali d’acqua stagnante e i campi di tulipani.
Un cubano viaggiava a bordo della nave.
Nel bar deserto, davanti a un solitario scotch and soda, il passeggero assaporava l’istante solenne in cui si decide di cambiare vita… Una decisione il cui oggetto simbolico, in questo caso, era un’elica che girava a vuoto. Che cosa si lasciava alle spalle? Molti anni di lavoro. Una casa piena di ricordi nel più bel quartiere di Parigi. Amici. Affetti. I piaceri dell’arte. Abitudini. Libri in cantiere. Una cantata, scritta in collaborazione con il più grande compositore francese vivente, Darius Milhaud, di cui non avrebbe potuto assistere alla prima…
Le ragioni di tale diserzione?… Bisognava forse cercare pressioni di ordine esterno?… No. In quel momento la minaccia della guerra non era all’orizzonte. A Parigi le cose andavano bene. Si guadagnava facilmente. La capitale era sempre molto seducente. La vita era bella… E allora perché?…
Conoscete quella malattia incurabile che si chiama “noia di un continente”?…
Il cubano, tutto solo nel bar deserto del transatlantico, ne soffriva.
Quel cubano, ero io.
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Jean Cocteau ha detto una volta che l’esibizione dell’intelligenza allo stato puro lo annoiava. E continuava domandandosi se in futuro le grandi opere sarebbero state quelle che avrebbero rivelato “un’intensità del cuore”.
Ovvero: un immenso potenziale di sentimenti, bontà, generosità…
O ancora meglio: una totale inclinazione all’entusiasmo proiettata sulle cose e gli uomini dal fondo del nostro essere.
Essere capaci di amare, senza alterare il nostro amore per il senso critico.
L’europeo è senz’altro l’uomo che per eredità e formazione è il più intelligente del mondo. Ma questa intelligenza, attraverso il continuo affinamento del senso critico – facoltà di controllo – ha alla fine neutralizzato le sue capacità emotive e ha distrutto in lui ogni slancio affettivo.
Stravinskij trascorre un anno a comporre una partitura geniale. Armand Salacrou crea il suo monumentale Savonarola. Picasso espone una sintesi degli ultimi cinque anni dei suoi lavori. Un film di Renoir prende vita sullo schermo. E sapete qual è la reazione del pubblico? Beh, mostra il sorrisetto scettico dei personaggi di Marcel Proust. “È tutto molto bello, ma…”. “Niente male, ma…”. Sempre “ma”: garanzia suprema dell’uomo intelligente, che non si lascia ingannare dai trucchetti del genio.
Il problema è che questo “ma” lo si ritrova anche nei sentimenti. Così come scoppiare a ridere è considerato dagli inglesi una mancanza di educazione, allo stesso modo per la maggioranza degli europei il fatto di amare sinceramente qualcuno significa non conoscere le buone maniere… Le grandi passioni non possono far parte delle società civilizzate. Gli amanti di buon lignaggio si danno del voi. Sacha Guitry tiene raffinate conferenze per mettere sotto accusa quella barbarie che va sotto il nome di gelosia. L’amore è un’ottima cosa, un passatempo gradevole – il migliore che si sia inventato fino ad oggi –, ma a condizione che non sconvolga la nostra vita quotidiana, facendoci cambiare abitudini o mettendo a rischio i nostri interessi. Ogni individuo se si trova in uno stato di “cristallizzazione stendhaliana” è considerato con sospetto dalla borghesia europea, come fosse un malato contagioso, poiché, a causa di questa “cristalliz- zazione”, può essere a volte messo di fronte al fatto compiuto… Infatti, di tanto in tanto, succede che l’istinto riesca a prendersi una rivincita sulla civiltà.
A forza di speculare sull’intelligenza, la maggioranza degli europei è stata colpita da impotenza sentimentale. Per gli europei le parole “amico”, “amante”, “donna” non hanno il senso assoluto che noi attribuiamo loro. L’amicizia è una pianta che il più del- le volte si coltiva per ragioni di convenienza reciproca… L’amore cessa di essere interessante se esige un minimo di sacrificio o di forza morale e fisica. E soprattutto non ci si deve dare mai completamente né a parole né per iscritto!… Conservare la propria indipendenza! Non rinunciare a nulla!…
Uno dei miei amici, che ha vissuto a lungo in Europa, mi ha spiegato perché preferisce Cuba con questa frase piena di buon senso: “Laggiù non si vive con i monumenti né con le opere d’arte. Si vive con le persone”.
E io vi confesso che oggi, lasciando il porto di Rotterdam, ne ho abbastanza degli europei.
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Non vi azzardate mai a confidare qualcosa a un amico europeo. Non raccontategli le vostre preoccupazioni e non cercate il suo sostegno in un momento di abbattimento. Non otterrete che una mano sulla spalla e una vaga formula di solidarietà: “Mio povero amico…”.
A un certo punto della mia vita collaboravo a un programma radiofonico con un uomo che stimavo e per cui provavo affetto. Sentimenti, credo, reciproci… Un mattino, dopo una telefonata, l’ho visto impallidire. Con voce tremante mi ha pregato di sostituirlo e di terminare il lavoro. Di fronte al suo riserbo, non avevo osato porgli nessuna domanda. Ma nel pomeriggio, ritornato in ufficio, mi ha rivelato il contenuto della chiamata: “Mi hanno annunciato che mia madre era morta a causa di una crisi cardiaca”. Mi sono stupito che fosse di nuovo in ufficio. Ed ecco la risposta che mi ha dato, una risposta inconcepibile nel mio paese: “La società per cui lavoro non ha niente a che vedere con la mia vita privata!… Bisogna pur preparare il programma di questa sera!”. Che uomo! – mi direte. Mentre io direi: che mancanza di umanità! Ciò che è più grave è che a quell’uomo non si può rimproverare la sua insensibilità. Questa è il prodotto della vita dura e difficile che in Europa comporta il desiderio di conservare il proprio posto di lavoro e di guadagnare a tutti i costi. Almeno a Parigi, infatti, non esiste una via di mezzo tra vittoria e sconfitta. O si conduce una vita da miserabili o una vita piena di soddisfazioni… Se siete un perdente o qualcuno di inutile, avrete molto tempo. Nessuno, infatti, vi chiamerà. Ma se siete un vincente e avete un posto di responsabilità, le vostre attività vi proibiranno di godervi la vita. Non vi lasceranno in pace un solo momento. E dato che dovrà essere disponibile a date e a ore fisse, questo uomo fortunato – che, facendo parte di quella Parigi in cui si è ricchi e vincitori, è caduto nel diabolico ingranaggio – finisce per diventare schiavo dei suoi doveri. Non ha più tempo di amare, di distrarsi, di mangiare… Durante i miei ultimi quattro anni in Europa ho avuto giornate di lavoro che cominciavano alle nove del mattino e terminavano tra le dieci della sera e le due del mattino seguente!… Per tutto riposo sette ore di sonno e due pasti rapidi di circa venti minuti…
E tutto questo a Parigi, città dove le donne sono affascinanti, la cucina eccellente, i teatri meravigliosi, dove ci sono grandi stagioni liriche e nightclub di qualità! Che ironia della sorte!…
Che ci volete fare! Nei nostri paesi si gode ancora di un’esistenza a “misura d’uomo”, dal ritmo umano… Ci sono certamente meno opere d’arte per le strade, meno dipinti famosi nelle gallerie… Ma almeno abbiamo il tempo di riflettere, di leggere, di riempire le inevitabili lacune intellettuali tipiche di una civiltà nuova.
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Alla Banca di Londra si osserva una curiosa tradizione. Ogni sera il custode del palazzo deve invitare a cena un granatiere della Guardia Reale accompagnato da un amico. Il pasto è composto da pollo arrosto e una bottiglia di champagne… Questa usanza dura da centinaia di anni, in ricordo dell’intervento eroico dei granatieri in difesa dei fondi statali.
Trovo che l’uomo europeo abbia ragione a conservare tradizioni di questa natura. Quel che trovo meno sano è che si lasci tiranneggiare ogni giorno da abitudini e istituzioni che non gli rendono nulla e che mettono direttamente in pericolo la sua in- dipendenza e il suo benessere.
Loge, nella mitologia nordica, è il nome del dio del fuoco. Loge in francese appartiene al vocabolario del teatro… Ma questa parola, in francese, ha anche un altro significato: è il nome che si dà di solito a un piccolo appartamento che odora di cucina e che si trova a destra o a sinistra dell’entrata di ogni palazzo di Parigi. La persona che vi abita è un essere scorbutico, malpagato, sempre dipendente dalle mance, che si chiama “Madame la concierge”, la signora portinaia. L’utilità della portinaia è estremamente difficile da valutare. Del resto, non si trova in tutte le città dell’universo. Teoricamente dovrebbe curarsi del palazzo, fare le pulizie, prendere la posta, dare informazioni ai visitatori, consegnare le bollette e l’affitto e avvisare per tempo che l’ascensore – oh gli ascensori antidiluviani di Parigi! – non funziona “a causa di lavori di manutenzione”.
In realtà, in novantotto casi su cento, il suo ruolo è tutt’altro. Furiosa perché è stata costretta ad alzarsi in piena notte per aprirvi il portone, furiosa perché le mance del mese non erano di suo gradimento, la portinaia diventa a poco a poco vostra nemica instaurando nel palazzo un regime di terrore. Ogni vostro gesto è spiato, analizzato e spiattellato a tutto il quartiere. La posta comincia ad arrivare in ritardo. Ai vostri fornitori si danno false informazioni, etc., etc. Il geniale Max Jacob ha scritto interi romanzi sui diktat delle portinaie di Parigi, raccontandoci con umorismo la storia di quel buon uomo che “si appropinquava alla grandezza morale” grazie alle sofferenze che gli infliggeva la sua portinaia. Il cantautore Tre-ki ha composto più di cento canzoni sull’argomento. Theodore Dreisler ha trattato il tema in una celebre conversazione pubblicata nell’“Intransigeant”. E conosco un celebre accademico di Francia che non osa rientrare a casa dopo la mezzanotte per timore delle rimostranze della sua portinaia.
Attenzione, comunque, a contrariare le portinaie parigine! Sono una vera potenza. Un’istituzione. Sono miliardi e miliardi… E, inoltre, godono di un privilegio perfettamente immorale concesso loro da un decreto del diabolico Fouché, ministro della Polizia sotto Napoleone: sono tutte informatrici della polizia. Il che vuol dire che ogni abitante di Parigi ha un gendarme in casa.
E questo continua e continuerà per sempre nella città, spiritualmente parlando, più civilizzata del mondo! Le tradizioni! Le tradizioni!… Le tradizioni che, a lungo andare, distruggono i nervi degli uomini che come noi sono nati in paesi veramente liberi.
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Non sono mai stato d’accordo con lo spirito della “Revista mundial”, né con le cronache di Gómez Carrillo… I collaboratori di Rubén Darío amavano troppo ciecamente l’Europa. La amavano al punto da rinnegare l’America. Tutta la loro esistenza era retta dall’angosciante preoccupazione di vivere il più possibile nel vecchio continente e temevano il ritorno in patria come una vera maledizione.
Per gli uomini della nostra America conoscere l’Europa è una cosa indispensabile, come conoscerne le idee e i costumi. Nessuno lo mette in discussione… Ma è anche vero che paesi con una profonda tradizione filosofica come la Germania, che cadono improvvisamente sotto il giogo di uno Streicher, finiscono per farci dubitare del vero valore della loro intelligenza… Se possono insegnarci molto, anche noi possiamo insegnare loro moltissime cose, soprattutto dal punto di vista dei valori umani.
La principale virtù di un lungo soggiorno in Europa dovrebbe essere quella di insegnarci a lavorare più efficacemente a favore del nostro paese. Il nostro celebre vinello può trasformarsi, grazie al nostro strenuo lavoro, in un eccellente vino alsaziano… Perché, alla fine, sono sempre più convinto che ormai solo in America si trovi quell’“intensità del cuore”, quella facoltà di entusiasmarsi che Jean Cocteau cercava nella grande opera d’arte dell’avvenire.
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Ecco perché saluto con gioia l’inizio del 1940… Questa volta la notte di San Silvestro mi troverà in patria, immerso nel paesaggio della mia infanzia, stanco di viaggiare… E senza il minimo desiderio di abbandonare il mio paese!
“Carteles”, La Habana, 1940
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La modernità di Alejo Carpentier
di Massimo Rizzante
Non è certo una novità. Almeno per i lettori che ancora frequentano quella terra incognita che è il nostro passato prossimo e remoto: la biografia di un autore non ha importanza, è l’opera che conta.
Lo affermava anche Alejo Carpentier (1904-1980), scrittore e saggista cubano, nelle sue Confesiones sencillas de un escritor barroco (1964). Tutti gli scrittori degni di questo nome, antichi e moderni, classicisti e barocchi, lo hanno sempre saputo.
Poi, improvvisamente, dagli anni ottanta del secolo scorso, la biografia dell’autore ha cominciato a diventare più importante della sua opera.
Che cos’è successo? Uno strano virus biofiliaco si è insinuato anche nelle menti più raffinate, tanto che, ad esempio, i diari, le lettere, perfino i disegni di Kafka, uno scrittore dalla vita assolutamente anonima, sono diventati più autorevoli dei suoi romanzi e dei suoi racconti. Per non parlare di autori come Hemingway, la cui vicenda biografica è stata a volte più romanzesca di quella dei suoi personaggi. In questo caso l’opera è stata sistematicamente sostituita dalla volontà biofiliaca – una sorta di gossip accademico – di conoscere l’uomo che si nasconde dietro l’artista.
Le cose non sono andate diversamente se l’autore aveva subito in gioventù il fascino di qualche regime politico, o se si era trovato invischiato in quella che tutti gli adepti della religione del progresso chiamano fieramente la parte sbagliata della Storia: le opere di Borges, Orwell, Malaparte, Cioran, Bellow, Kundera (la lista sarebbe lunga) invece di essere interpretate attraverso la lente estetica sono state spesso giudicate da un tribunale ideologico.
Come se il presente, in virtù del suo essere presente, avesse sempre ragione! Come se gli uomini venuti dopo fossero sempre più intelligenti di quelli venuti prima! Per caso qualcuno oggi conosce un uomo o una donna più intelligente di Platone? Un amico, un giorno, verso la fine degli anni novanta del secolo scorso, epoca in cui il tribunale emetteva dalle pagine dei giornali ogni mese una condanna a scrittori e pensatori del XX secolo (credo che in quel momento fosse il turno di Heidegger), mi disse che tutta quella gente aveva sbagliato mestiere: avrebbero dovuto fare gli aguzzini o scavare fosse nei cimiteri pubblici.
Carpentier, avendo appoggiato fino alla fine la rivoluzione cubana ed essendosi “macchiato” di una certa cecità rispetto a quello che, soprattutto nel corso degli anni settanta del secolo scorso, il suo amico Fidel Castro aveva cominciato a infliggere a scrittori e intellettuali che si opponevano ai suoi diktat, ha subito un po’ la stessa sorte: è stato da una parte fin troppo esaltato e dall’altra ostracizzato. Risultato: una valanga di pomposi studi accademici da parte degli specialisti latinoamericani e un silenzio da congiurati o una metodica ignoranza da parte degli scrittori e dei critici europei.
L’opera ha a che fare con la vita di chi la crea, certo. Ma da qui a leggere l’opera dopo aver compulsato i referti clinici, i registri della polizia segreta e le tendenze sessuali dell’autore… Negli ultimi tempi, poi, gli stessi scrittori sembrano essere stati contagiati dal virus che qualche decennio fa aveva infettato i loro lettori. Che quest’ultimi, con il passare del tempo, glielo abbiano trasmesso? Sta di fatto che succede che si ammalino gravemente e che mostrino il decorso della loro malattia in una serie di video; o che si innamorino e postino in rete le foto della loro nuova fiamma; o ancora che incappino in una depressione e scrivano nel loro blog allarmanti richieste di aiuto. Lo fanno per dovere di cronaca? Perché se non si mettono in mostra temono di non esistere? O forse l’esibizione dei loro peccati e delle loro debolezze fa parte di una strategia di mercato? I lettori biofiliaci hanno infatti, secondo le case editrici e i pubblicitari, il sacrosanto diritto di conoscere fin nei minimi dettagli la vita dei loro idoli. Si tratta di narcisismo all’ennesima potenza? O semplicemente la vergogna, il pudore e la discrezione non fanno più parte della scala dei sentimenti umani? […]
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Qualcuno ha detto, giustamente, che la produzione saggistica e giornalistica di Carpentier è quasi tanto importante quanto quella romanzesca. E, inoltre, copre tutte le arti e tutte le letterature. Carpentier poteva scrivere di qualsiasi letteratura europea come se si trattasse della sua, ma senza mai dimenticare – e in ciò è stato più unico che raro – che per comprenderla in profondità bisognava compararla con le letterature degli altri continenti, in particolare di quello americano. Conoscitore di tutte le avanguardie e di tutti i modernismi del XX secolo, fu l’unico scrittore latinoamericano a vivere da vicino “la rivoluzione surrealista” e il primo a far conoscere sin dagli anni trenta del secolo scorso agli intellettuali parigini, come al solito riluttanti ad avventurarsi oltre i propri confini, “i punti cardinali” del romanzo latinoamericano senza il quale la storia del romanzo del XX e del XXI secolo sarebbe incomprensibile. In ogni suo saggio, come in ogni suo articolo, si respira qualcosa che si è quasi totalmente perduto: un vero cosmopolitismo, attento alla Storia, alle singole civiltà, alle identità culturali e ai décalage cronologici tra i diversi paesi. E qualcosa di ancora più perduto in questa nostra seconda Modernità – che nessuno ormai, dopo quarant’anni di equilibrismi filosofici e fulminanti carriere universitarie in suo nome, chiama più post-modernità – in cui al terrore e alla poesia del XX secolo sono subentrate nel XXI l’anestesia dei sensi e l’assenza di ribellione: una capacità di amare l’opera altrui senza alterare il proprio amore per il senso critico.
Mentre traducevo gli articoli, i saggi, le cronache e le interviste di Carpentier (una goccia nel mare della sua enorme produzione!) mi chiedevo se i temi, gli autori, le idee che vi sfilavano e perfino il modo in cui erano esposti facevano parte del mio mondo, o se invece erano stati seppelliti sotto un chilometro di “post-verità”, come oggi dicono quelli che la sanno lunga. Cioè, in pratica, di false verità. Di verità a cui si aggiunge il prefisso “post” perché non si è in grado di afferrare l’irruzione di una nuova realtà attraverso la creazione di un nuovo vocabolo o peggio, perché si desidera semplicemente intorbidare le menti. Che cosa avrebbe detto Carpentier di tutti i nostri “post”, “neo”, “trans” che dall’epoca della sua morte affibbiamo a qualsiasi parola? “Transavanguardia”, “post-umanità”, “post-letterario”, “post-comunismo”, “post-fascismo”, “neo-liberismo”, “neo-umanesimo”, “transculturalità” e così di seguito, ad libitum, fino alla fine della Storia… Ecco, lui, così attento a tutte le tappe storiche dell’umanità (dal Neolitico, in cui ancora vivevano molte tribù dell’America Latina negli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso, fino ai continui sconquassi e massacri degli anni sessanta e settanta provocati da qualche dittatore), tanto da farne costantemente il punto di partenza e materia narrativa di tutti i suoi romanzi, da Il regno di questo mondo (1948) fino a L’arpa e l’ombra (1979) passando per Il secolo dei lumi (1962) e Concerto barocco (1974), avrebbe forse affermato che i nostri poveri suffissi posti davanti ad una moltitudine di parole note rivelano sì la necessità di qualcosa di nuovo, ma una necessità non supportata purtroppo da un vero coraggio di inoltrarsi nell’ignoto. Avrebbe affermato che, se non troviamo le parole per dire porzioni di realtà che ci sembrano nuove, ciò significa solo due cose: che non abbiamo rischiato abbastanza la pelle o che quelle porzioni di realtà sono state già scoperte e che stiamo solo rifacendo il verso a chi ci ha preceduto. Credo che, agli occhi di Carpentier, questo spreco di “post” e “neo” avrebbe rivelato anche un’altra cosa: la nostra resa, questa sì “post-storica”, a concepire come valore la continuità della Storia. Avrebbe rivelato la nostra totale perdita di fiducia nel passato come nel futuro e di conseguenza nella possibilità di ritrovare nell’uomo del XXI secolo caratteristiche e costanti dell’uomo non solo del XX secolo, ma di tutti i secoli precedenti.
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Per Carpentier, grande conoscitore delle religioni e delle culture afrocubane e precolombiane e delle cosmogonie del suo continente, l’uomo è un essere storico in guerra contro il tempo, la cui aspirazione all’eternità, ovvero a un tempo atemporale in cui si troverebbero sincronizzati tutti i tempi storici, è asintotica, infinita. Anche per Carpentier polemos è il padre del mondo e l’uomo – come del resto i suoi alter ego immaginari, i personaggi romanzeschi – non può che accettare con “spirito prometeico” l’agone:
Si è detto che i miei personaggi mostrano di solito un atteggiamento pessimista perché non sembrano mai completamente soddisfatti di quello che hanno realizzato. Ma l’uomo completamente soddisfatto di quello che ha raggiunto e che non cerca più in là, si immobilizza. In altre parole, smette di vivere pienamente. La grandezza dell’uomo risiede nel suo “non riposare sugli allori”, per usare un’espressione popolare. Ogni giorno, una volta sveglio, deve entrare nella vita con spirito prometeico, dicendosi: “Fino a oggi non ho fatto nulla”, per quanti siano stati fino a quel momento i suoi apparenti successi…
Sorge la domanda: dove si manifestano questi istanti di sincronizzazione più o meno perfetta di tutti i tempi storici? Risposta di Carpentier: nelle pratiche magiche, nei riti religiosi, nella musica, nell’arte e, in tempi più recenti, nel romanzo e nel racconto, che l’autore ha sempre concepito in forma di microromanzo.
Non è un caso che la sua raccolta di racconti, pubblicata nel 1958 e poi di nuovo nel 1971, prenda questo titolo: Guerra del tempo. Al suo interno c’è un racconto, intitolato Simile alla notte, che mi è sempre sembrato contenere l’essenza non solo dell’estetica dell’autore, ma anche della sua concezione dell’uomo in relazione alla Storia e al tempo. Diviso in quattro brevi capitoli, il racconto narra di come, in una sola notte, un personaggio attraversi secoli e secoli di Storia: è allo stesso tempo un soldato greco che attende di salpare per Troia; un soldato spagnolo del XVI secolo in procinto di andare a conquistare il Nuovo Mondo; un soldato francese del XVII secolo che sta per raggiungere un esercito di colonizzatori nell’America del Nord; un soldato del XII secolo che, vittima di una malattia, non riuscirà ad aggregarsi ai suoi compagni in partenza per la quarta Crociata; un soldato che attende di partecipare alla Prima guerra mondiale; un soldato dell’esercito anglo-americano che si prepara allo sbarco in Normandia. Carpentier riunisce, in una sola notte, molte generazioni umane. Alcuni dettagli permettono di distinguere le diverse epoche. Tuttavia, tali dettagli non sono presenti per rendere realistica la narrazione, ma per mettere maggiormente in evidenza la stessa situazione che si ripete in ogni epoca. L’ambiente può ben cambiare, ma la situazione del soldato alla vigilia della sua partenza per la guerra è sempre la stessa: la paura, la speranza, il congedo dalla famiglia, l’ultimo saluto all’amata, il richiamo della vita, il destino di morte sono gli stessi. […]
Tutti noi siamo individui unici e irripetibili nella misura in cui siamo in grado di sopportare l’enorme peso della ripetizione. La seconda, la terza, la centesima volta in cui ci troviamo a letto con la stessa donna le nostre sensazioni non sono più così forti come quelle che abbiamo provato la prima volta. E così quando ci ritroviamo per l’ennesima volta davanti alla stessa porta di casa, allo stesso binario alla stazione, alla stessa strada da prendere. Dipende dalla nostra forza unica e irripetibile se non soccombiamo alla forza uniformante della ripetizione. Tuttavia siamo consapevoli che, senza la forza della ripetizione che ci opprime, non saremmo in grado di metterci a lottare contro il tempo allo scopo di vivere più intensamente, cioè liberi, apparentemente liberi, liberi per pochi istanti, dalla ripetizione. Perché, in realtà, dalla ripetizione non ci si può liberare. Una volta cambiata professione, donna o paese, la ripetizione, data la sua natura, dopo un po’, torna a farsi viva. Tuttavia questa impossibilità, per quanto sembri negare la nostra individualità e il nostro desiderio di cambiare, ci offre come contropartita una delle possibilità esistenziali più gratificanti: quella di entrare in dialogo con i nostri progenitori e con i nostri discendenti. Qualsiasi cosa accada, sia accaduta o accadrà, nella ripetizione di un gesto, di una parola, di un pensiero, perfino di un sogno, possiamo sentirci improvvisamente contemporanei a tutti gli altri uomini del passato e del futuro: è questa la solo forma di eternità concessa all’uomo storico in lotta contro il tempo. Con una postilla: che la ripetizione, vissuta con incanto e in modo solenne finché l’individuo ne conserva l’origine occulta e misteriosa (come spiegare altrimenti il valore della ripetizione nel rito, nelle religioni, nella musica, nella poesia, nella magia?) può mostrare il suo volto deforme e parodico, qualora l’individuo prenda atto che la Storia si è convertita in una ripetizione di avvenimenti privi di ogni legame con una fonte originaria, prelogica, prerazionale. […]
La grande sfida narrativa di Carpentier perciò non è quella di controllare la successione degli avvenimenti, ma di rivoltarsi contro la ferrea legge del tempo che passa: “L’angoscia – ha affermato – di fronte allo svolgimento del tempo e le modalità di questo svolgimento mi accompagnano da sempre”. Egli desidera rappresentare un personaggio andando al di là della costruzione psicologica. Perché? Perché pensa che la concentrazione di navi nell’Iliade, al momento dell’assedio di Troia, assomiglia, con le dovute proporzioni, a quella che ha avuto luogo prima dello sbarco in Normandia durante la Seconda guerra mondiale. Perché crede che un dialogo tra un calzolaio e una cliente facoltosa che desidera comprare un paio di stivaletti avvenuto in epoca ellenistica “è esattamente lo stesso” che avverrebbe oggi, nel XXI secolo. Desidera illuminare il presente attraverso il passato e illuminare il futuro avanzando à rebours verso le potenzialità inespresse del passato e del presente […]
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Tuttavia Carpentier non sarebbe Carpentier, ovvero il padre fondatore del romanzo latinoamericano del XX secolo – romanzo barocco, epico, storico (“La Storia della nostra America pesa molto sul presente dell’uomo latinoamericano; pesa molto di più del passato europeo sull’uomo europeo”), realista e allo stesso tempo meraviglioso (“La realtà del nostro continente è naturalmente meravigliosa”), se non avesse, attraverso le sue opere romanzesche, soprattutto a partire dal viaggio ad Haiti del 1943 e dalla risalita del fiume Orinoco del 1950 che gli avrebbero rivelato la sua missione “americanista”, reclamato, rivendicato e imposto la presenza della natura, dei miti, delle religioni, delle culture dell’America Latina all’interno dei confini del tempo e della Storia, fino a quel momento patrimonio esclusivo del romanzo europeo. Per quanto oggi, perfino le generazioni più giovani di scrittori latinoamericani tendano a trascurarlo, non dimentichiamo il grande gesto inaugurale di Carpentier: è stato attraverso le sue opere romanzesche, soprattutto quelle degli anni quaranta e cinquanta, che l’universalismo europeo ha dovuto riconoscere per la prima volta l’identità americana con la sua natura, le sue razze, le sue religioni, i suoi miti, le sue culture; che l’Europa ha dovuto accettare, seppure spesso a malincuore, che il romanzo, la musica, le arti dell’America Latina non erano appendici esotiche ma parti integranti del suo corpo storico e culturale; che, infine, la parabola discendente del Vecchio Mondo, iniziato con la Prima guerra mondiale, aveva qualche possibilità di interrompersi solo se l’Europa si fosse resa conto delle profonde contaminazioni reciproche che dal 1492 avevano segnato le culture delle due sponde dell’Atlantico.
Non sono nello stato d’animo di chiedermi se dall’anno della morte di Carpentier il declino del Vecchio Mondo abbia subito qualche intoppo o abbia al contrario continuato a declinare. Ciò che invece mi chiedo è: la cultura europea nel corso di questi ultimi quarant’anni ha ascoltato, letto, meditato sull’opera di Carpentier? Ha davvero riconosciuto come suo patrimonio spirituale il tempo e la Storia dell’America Latina? Dopo Borges, Bioy Casares, Arlt, Marechal, Reyes, Rulfo, Paz, Alejandra Pizarnik, Nicanor Parra, García Márquez, Sabato, Mutis, Monterroso, Monsiváis Elizondo, Macedonio Fernández, Fuentes, Vargas Llosa, Cortázar, Onetti, dopo Saer, Pitol, Arenas, Lamborghini, Puig, Wilcock, Piglia, dopo Villoro, Daniel Sada, César Aira, Fresán, Volpi, Palou, Rey Rosa, Alan Pauls, gli scrittori europei, e in particolare quegli italiani, hanno fatto i conti con le scoperte del romanzo latinoamericano? Hanno compreso che cosa ha significato e significa per la storia del romanzo del XX e del XXI secolo?
Un giorno, negli anni novanta del secolo scorso, dopo aver letto Notturno cileno di Roberto Bolaño, ho scritto che oggi un autentico scrittore europeo dovrebbe per forza di cose sentirsi latinoamericano. Bolaño, infatti, diceva di essere sia l’uno che l’altro, avendo appreso in egual misura da Rabelais che da Borges. Non so se Bolanõ concepisse, come faceva Carpentier, l’America Latina come una proiezione utopica e rigeneratrice dell’immaginario europeo, o piuttosto come una sorta di manicomio, ricettacolo di tutte le follie, le crudeltà e i sogni deliranti che l’Europa riesce a esorcizzare arrogandosi il ruolo di paladina dei diritti umani. Ma, restando nel limbo, non si conosce l’inferno. Il fatto è che se la “vocazione europea” dell’America Latina è presente da Carpentier a Bolaño, l’appello latinoamericano è rimasto, a mio avviso, pressoché lettera morta in Europa e nel nostro paese. Il culto di Bolaño non basta. Un autore, avrebbe detto Carpentier, non è sufficiente a creare uno “stile romanzesco”, così come non basta a farlo conoscere. A meno che l’America Latina per il lettore e per lo scrittore europei e italiani non sia quella Kitsch, magico-realista, sciropposa, telecomandata dalle agenzie pubblicitarie, tappezzata da tramonti tropicali, sentimenti assoluti e simpatiche canaglie che si incontra nei best-sellers di Isabella Allende, Luis Sepúlveda e Ángeles Mastretta […]
grazi di cuore, illuminante
” E continuava domandandosi se in futuro le grandi opere sarebbero state quelle che avrebbero rivelato “un’intensità del cuore” “: bel pensiero