1922-2022: tre piste di riflessione dopo il voto del 25 settembre in Italia # 3
di Giuseppe A. Samonà
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[La prima parte di questo intervento si può leggere qui. La seconda qui.]
- Lo ius sanguinis e lo ius soli
Ma chi sono questi italiani all’estero?
Innanzitutto, come dicevo, sono i molti giovani che hanno lasciato il paese a partire dagli anni 80/90, mentre l’Italia da terra d’emigrazione di massa cominciava sempre di più a mutarsi in una meta d’immigrazione, anche se poi, lo si è accennato, nel corso degli anni Duemila i flussi in uscita hanno ripreso a crescere, fino a superare quelli in entrata. Questa nuova emigrazione è essenzialmente volontaria, intellettuale, composta di persone per lo più laureate e in patria prive di sbocchi, il che ha generato la grottesca, patetica formula di fuga dei cervelli, come a distinguere questi emigrati del terzo millennio da quelli che li avevano preceduti, costretti a partire dalla miseria, e ignoranti, i quali avrebbero esportato semplicemente le loro braccia: come se dall’Italia non fossero sempre partiti individui completi, muniti di cervello e di braccia, e gambe, cuore, storie… Con l’Italia, questi nuovi emigrati, hanno nel corso degli anni mantenuto un rapporto più o meno stretto, anche se molti di loro, com’è il mio caso, sono diventati cittadini anche di altri paesi o hanno comunque rifatto interamente la loro vita altrove e in Italia, per viverci, non torneranno più; ma resta comunque un legame di affetti, tra amici e familiari che ancora ci vivono: e si tratta, sia pur da fuori, di un legame reale, che li porta a seguire con una certa implicazione quel che vi succede.
Ma c’è appunto un’altra categoria di italiani all’estero, creata da uno ius sanguinis singolare, sofferto, che affonda le sue radici nelle caratteristiche originarie del paese. L’Italia è nata in un certo senso… svuotandosi: fra il 1861 – data battesimo del Regno d’Italia – sino alla fine degli anni Venti emigrarono in più ondate una ventina di milioni di italiani. Il periodo fascista segnò una pausa, per via delle restrizioni imposte dal regime, insieme a quelle decise dalla maggior parte dei paesi di destinazione: partire divenne molto più difficile, e di fatto non rimase attiva che l’emigrazione politica. Subito dopo la seconda guerra mondiale tuttavia il flusso in uscita riprende con ritmi elevati, e conta sino alla fine degli anni Settanta sette otto milioni di emigrati, per un totale complessivo di circa 30 milioni in poco più di un secolo di storia, dei quali due terzi non sarebbero più ritornati in patria, distribuiti in molti e molto diversi fra loro paesi d’adozione: in Europa (la Francia, la Germania, il Belgio, la Svizzera, ma anche il Regno Unito, la Finlandia etc.), in Sud America (l’Argentina, il Brasile, ma anche l’Uruguay, il Cile, etc.) e in Nord America (gli Stati Uniti, il Canada), e poi l’Australia, e in misura minore anche altri paesi. L’emigrazione, un’emigrazione di necessità – la povertà, la crisi del mondo agricolo, l’indigenza del proletariato in generale ne sono state il motore – costituisce dunque una caratteristica fondamentale dell’Italia: ed è stato di conseguenza inevitabile, e giusto, che la prima legge globale sulla cittadinanza, la n. 555 del 13 giugno del 1912, ne tenesse particolarmente conto, assicurandola al figlio di padre italiano, indipendentemente dal luogo di nascita, o più precisamente a chi avesse una discendenza italiana per via paterna (poi la Costituzione del 1948 eliminerà la discriminazione patriarcale, equiparandole la discendenza per via materna). Insomma, come a risarcire la memoria di coloro che erano stati costretti ad abbandonare il paese, i loro discendenti, senza limiti di generazioni, e con la sola riserva che la catena di trasmissione non si fosse interrotta per esplicita rinuncia alla nazionalità, mantenevano intatta la possibilità di ritornarci da cittadini. Ed era doveroso che questo tragico esodo – perché di fatto di questo si è trattato – non fosse dimenticato, e venisse, venga sempre riconosciuto, come anche, concretamente, che restasse aperta la porta al ritorno. Per altro, questo grande movimento di emigrazione ha mischiato fra loro, sia pure fuori dall’Italia, le diverse zone del paese, il Nord e il Sud, contribuendo a forgiare un’identità (nel senso concreto di esistenza) nazionale e non più regionale… E di più: sempre dal di fuori, gli italiani all’estero si sono proficuamente mischiati, loro malgrado (non sarebbero voluti partire…), con le popolazioni dei paesi che li accoglievano, influenzando, creando nuovi prodotti culturali che a loro volta hanno profuicamente fecondato la madrepatria, e viceversa (influenze, prodotti non sempre positivi, a dire il vero: basti pensare alla mafia siculo-americana). Parlano in me anche i ricordi: di questi discendenti di italiani, fra Montréal e Buenos Aires, mi sono appassionato a raccogliere diverse storie.
Solo che poi il contesto è cambiato: in particolare, nel corso degli anni Ottanta, l’emigrazione esauriva il suo slancio, mentre l’Italia diventava appunto una terra di immigrazione. La legge n. 91 del 5 febbraio 1992 avrebbe dovuto ripensare la cittadinanza alla luce di questa trasformazione del paese in senso multietnico. Ora di fatto ha confermato tale e quale l’impianto della normativa del 1912: italiani si è o si diventa iure sanguinis, e anzi le pratiche d’acquisizione della cittadinanza per chi sia nato all’estero da avo italiano risultano estremamente semplificate; lo ius solis invece è sostanzialmente limitato a chi nasce sul territorio da genitori ignoti o apolidi, mentre l’itinerario verso la cittadinanza di tutti gli altri immigrati o figli di immigrati resta inspiegabilmente complesso. Non solo: la legge abolisce il criterio di cittadinanza esclusiva, cioè stabilisce che la cittadinanza italiana non preclude il possesso di altre cittadinanze. Dal punto di vista che ci interessa qui, è una vera rivoluzione: fino al 1992 lo straniero discendente da avo italiano poteva diventare italiano solo rinunciando alla sua prima cittadinanza (argentina, statunitense, canadese, etc.) e quindi non si prevaleva praticamente mai di questo diritto, a meno di non decidere di cambiare vita trasferendosi nel Belpaese; dopo questa data invece qualunque argentino, americano, australiano etc. che abbia un avo italiano può, conservando la propria, prendere la cittadinanza dell’Italia, anche senza mai venirci a vivere, o addirittura senza mai neanche metterci piede. Curiosamente le statistiche esatte dell’acquisizione di nazionalità per discendenza anno per anno mancano – o almeno io non sono riuscito a trovarle – come manca la possibilità di distinguere, nella comunità degli iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE, creata con una legge del 1988, ed entrata in funzione nel 1990), fra chi proviene dall’Italia e ha come sua prima cittadinanza quella italiana (o un’altra: dall’Italia partono anche alcuni “nuovi” italiani di origine straniera), e chi proviene proprio dal paese estero in questione, di cui possiede la sua prima cittadinanza e in cui ha ottenuto ulteriormente quella italiana, appunto per meriti di sangue; senza considerare poi che molti italiani residenti all’estero non sono iscritti all’AIRE: ma è comunque significativo che gli iscritti a questa anagrafe siano passati nel giro di una trentina d’anni (1990-2022) da neanche un milione a quasi sei – e di nuovo ricordo, fra i miei amici e conoscenti canadesi e argentini di origine italiana, come la nuova normativa sulla nazionalità dinamizzò le domande di cittadinanza.
Last but not least alla fine del 2001 veniva varata la legge sul voto estero fortemente voluta dal ministro degli Italiani nel mondo (sic) del governo Berlusconi, Mirko Tremaglia, di salda fede missina (lo stesso che aveva ideato la legge del 1988 sull’Anagrafe estera), facente seguito alla modifica di alcuni articoli costituzionali ad essa collegati effettuata a inizio 2000 e inizio 2001 (il 48, con la creazione della circoscrizione Estero, il 56 e il 57, con il rimando ai deputati e senatori ivi eletti – che secondo l’ultimo aggiustamento, in seguito al recente taglio del numero dei parlamentari, sono passati rispettivamente a 8 e 4, di cui 3 e 1 nella ripartizione Europa). Prima di quella data gli italiani all’estero potevano votare (è un diritto sancito dalla Costituzione), ma per farlo dovevano tornare al loro comune elettorale di appartenenza in Italia, con un’agevolazione per il prezzo del biglietto, ma solo per la parte che riguardava lo spostamento dentro i confini nazionali (in altri termini chi ad esempio avesse voluto tornare per votare dall’Australia, doveva sostenere i costi del viaggio fino alla frontiera italiana, e solo dopo sarebbe intervenuta la riduzione del biglietto, per il tratto nazionale sino al suo comune di origine!). Ecco insomma che, al di là delle buone (o meno) intenzioni, si è venuta a creare una situazione sbalorditiva e profondamente iniqua. Si provi a immaginare, per meglio capirla, un’ipotetica legge che permettesse agli abitanti della Louisiana e del Québec di prendere la nazionalità della Francia e decidere, attraverso il voto, della sua politica – bene, la situazione reale dell’Italia è peggiore: perché i discendenti degli italiani nel mondo, quelli che un tempo si chiamavano gli oriundi, sono molto più numerosi di quelli della Louisiana e del Québec riuniti, si calcolano fra i 60 e gli 80 milioni, cioè più numerosi della stessa popolazione che vive nell’originaria madrepatria, l’Italia appunto, che non arriva a 60 milioni, e tutti possono diventarne cittadini, anche senza senza averci mai vissuto o conoscerne la lingua, la cultura, o avendone una conoscenza puramente memoriale, mitologica – lo ripeto, fra Buenos Aires e Montréal ho raccolto tante storie, non di rado commoventi, piene di poesia: ma possono queste storie tradursi in diritti e voto e decidere del destino di chi in Italia ci vive? Per altro, questa mitologia spinge la maggior parte delle numerose associazioni che gestiscono gli interessi delle comunità di emigrati e loro discendenti all’estero ad assumere, per quel che concerne la cittadinanza, posizioni retrivamente puriste e agli antipodi della loro storia di fecondo metissaggio: penso ad esempio all’USEI (Unione Sudamericana Emigrati Italiani), che ho avuto modo di studiare più da vicino, opposta a qualunque forma di ius soli perché con questo – per citare le parole del suo presidente Eugenio Sangregorio – l’Italia non sarà più degli italiani… (Ricordiamo per inciso che lo ius soli è ciò che permise agli emigrati italiani di prendere radici nel Sud come nel Nord America, o ancora in Australia…). Viceversa, capita anche non di rado che la nuova nazionalità ottenuta da questi “discendenti” sia intesa in modo del tutto strumentale, e soprattutto abbia ben poco a che vedere con l’Italia: ad esempio è, semplicemente, un modo per potere risiedere in un altro paese dell’area Schengen… Tutto ciò suona ancora più scandaloso se si pensa ai milioni di stranieri che in Italia ci vivono da molti anni, ci lavorano, ci hanno fatto le scuole, sono concretamente italiani ma, per via di questo questo miscuglio di ius sanguinis abnorme e ius soli praticamente inesistente, si vedono preclusi voto e nazionalità. E dire che la riforma della cittadinanza varata nel 1992, che superava la legge del 1912, avrebbe dovuto essere il dispositivo al servizio di un’Italia che – per dirlo con le parole dell’allora ministra dell’Immigrazione, Margherita Boniver – nel giro di una generazione diventerà una società multietnica, multirazziale, multiculturale… Ed è appunto quello che è successo, solo che la legge è andata nella direzione contraria, ribadendo di fatto quella del 1912, ma in un contesto completamente mutato: i discendenti degli emigrati italiani, diverse generazioni dopo, sono oramai stabilmente cittadini dei loro (non più) nuovi paesi, e non sono loro ad aver bisogno di essere protetti dall’Italia, in cui non contano certo di ritornare. Ho sentito spesso criticare, e spesso con ignorante superficialità, la legge del ritorno israeliana: cosa dire allora di quella, ben più radicale, italiana? Israele infatti garantisce la cittadinanza israeliana alle persone di discendenza ebraica nel mondo, purché si trasferiscano in Israele, per viverci e restarci, con un bouquet di diritti e doveri, fra cui – se l’età lo permette – il servizio militare, della durata di quasi tre anni per gli uomini e di due per le donne; l’Italia invece la garantisce a tutti i suoi discendenti che ne facciano domanda, anche qualora decidessero di non metterci mai neanche piede: un diritto gratuito, senza doveri e, oggettivamente, fortemente discriminatorio nei confronti di chi in Italia ci vive.
Bisognerebbe insomma ripensare nel profondo la legge che regola il diritto di cittadinanza dei discendenti degli antichi emigranti partiti dall’Italia e degli attuali immigrati che ci sono arrivati negli ultimi trenta quarant’anni e continuano ad arrivarci, e ancor prima, a tal fine, rivoluzionare la prospettiva culturale e politica che la sottende: ma a farlo non sarà certo questo governo, con la sua mistica della patria e del sangue… Ecco, uno dei nodi di resistenza – quella resistenza che in tanti, dentro e fuori dall’Italia auspichiamo – e di speranza per i destini del paese mi sembra, culturalmente, politicamente, passare proprio da qui: recuperare il ricco patrimonio della diaspora – che si tratti di nativi italiani o di italiani di recente cittadinanza – attraverso una sua diversa orientazione, creando cioè un ponte, una trama di sintonie, fra le mescolanze diasporiche e quelle che in Italia si sono formate in questi ultimi anni, un ponte se vogliamo fra i meticci fuori dal paese e i meticci di dentro. Solo questo, a mio avviso, potrà sottrarre l’Italia all’odierna tristezza e decadenza che vanno di pari passo con lo spegnersi della sua demografia.
FINE
Esposizione chiara e corretta. Resta da capire perché nessun governo sia poi intervenuto sulla materia. O forse si capisce. Ricordo male che il governo Prodi ottenne la sua esigua maggioranza grazie al voto della circoscrizione estera europea? Mentre gli orientamenti elettorali degli “americani ” (soprattutto sud America) tendono a rimpolpare le fila della destra. Insomma, calcoli elettorali. Come sempre. E questo spiega forse la forte reticenza ad accettare lo ius soli. Come voterebbero i nuovi cittadini? Ma si sa , la democrazia è organizzazione del consenso…
Bisogna pure considerare che i voti della circoscrizione Estero, finora, sono quelli più facili da contraffare, dunque contribuiscono a falsare il risultato elettorale. Anche questo è un grave problema; ma secondario rispetto alla domanda che pone Samonà: ha diritto di voto chi, pur avendo diritto di cittadinanza, vive e lavora all’Estero e non ha la minima idea della lingua, della Storia e della situazione socio-politica-economico-culturale dell’Italia? A parer mio no.
Grazie ad Angela e a Cristian Palmas. Si, in effetti al di là delle questioni contingenti di voto, (me) ne pongo una ancora più radicale di quella posta da Cristian Palmas: cosa determina l’appartenenza di una persona a una comunità? (in questo caso quella degli italiani). La risposta in realtà è complessa. Sicuramente il criterio diciamo “spaziale” è importante, prioritario: chi vive stabilmente in un paese dovrebbe, appunto prioritariamente, poter decidere delle scelte da effettuare. Ma – soprattutto per un paese come l’Italia, in cui la componente migratoria è essenziale alla sua storia – non si può eliminare il criterio diciamo “temporale”: non è insensato ritenere che chi è partito dall’Italia, o persino i suoi discendenti, se hanno ancora ancora degli interessi nel paese, anche solo affettivi, in una parola chi continua a essere coinvolto in quel che vi succede, possa anche continuare ad essere considerato “italiano” e in tal senso, con meccanismi ancora da definire, contribuire alle decisioni da prendere. Insomma, anche il “tempo” conta nel definire una comunità. Ma in questo caso si è creato, mi sembra, un meccanismo grottesco, in cui la dimensione tempo, considerata senza limiti, crea una comunità estera potenzialmente molto più grande di quella che vive in loco. Concretamente, tanto per fare un esempio – riporto la testimonianza di amici cileni e argentini – esistono tanti sudamericani che poco o nulla conoscono dell’Italia, e per cui la nazionalità italiana significa semplicemente avere un passaporto per circolare senza limiti nello spazio Schengen (e possono appunto votare); di contro, ci sono tanti “stranieri” nati ed educati in Italia, di fatto italiani, che quel diritto non ce l’hanno. Non è assurdo?
Tre brevi osservazioni. La prima: l’inverno demografico non sarebbe così grave se l’Italia fosse in grado di richiamare e gestire forza lavoro straniera come accade ad esempio negli Emirati Arabi Uniti i quali hanno saputo svilupparsi proprio grazie alla flessibilità consentita da un certo tipo di immigrazione. La seconda: così come è sbagliato regalare la cittadinanza a chi, pur se discendente da italiani all’estero, non ha la minima intenzione di trasferirsi nel nostro Paese, altrettanto lo sarebbe concederla a chi si trova in Italia per motivi di lavoro o di studio per meno di 10 anni, senza che ne faccia esplicita richiesta e dimostri di essersi perfettamente integrato. La terza: perché non si segue il dettato della Costituzione che pretende espressamente di rivolgersi ai soli cittadini italiani? Dopotutto ciò è quanto succede in moltissimi Paesi, non per questo considerati non democratici, proprio perché i costi relativi ad una sua applicazione indiscriminata ad immigrati, ospiti e residenti non italiani sarebbero insostenibili. Riassumendo: se davvero vogliamo che l’Italia torni ad essere un Paese rispettato, ricco ed evoluto occorre maggior flessibilità nella gestione della forza lavoro, limitare al massimo la concessione della cittadinanza ed applicare i privilegi che la Costituzione concede soltanto ai cittadini (per intenderci, a quelli provvisti di passaporto italiano) i quali, novelli « cives romani », avranno il compito di dirigere e supervedere il lavoro svolto dagli «ospiti» a vantaggio del nostro Paese
Tre… osservazioni sulle osservazioni. 1.: non c’è bisogno di andare così lontano, molti paesi d’Europa (più vicini culturalmente degli EAU), a cominciare dalla Germania, hanno costruito una politica di accoglienza e integrazione, e per ragioni molto pragmatiche di tornaconto comune, più che etiche. 2: non mi sembra che in Italia si corra il rischio che venga concessa la cittadinanza a chi risiede transitoriamente nel paese, visto che neanche i rari governi “progressisti” sono stati capaci di istituire procedure che rendessero semplicemente possibile – era e resta maledettamente complicato – il darla a chi vi nasce e/o ne attraversa gli anni della scuola, nel contempo promuovendo i mezzi, e la cultura, l’educazione, che ne permetta una piena integrazione. Di questo si tratta. 3: ma scusi, “rivolgersi ai soli cittadini italiani” per che cosa? non conosco un tale articolo della Costituzione… In tutti i paesi civili i diritti fondamentali, come ad esempio istruzione e assistenza medica, sono, dovrebbero essere di tutti gli essere umani, cittadini o “ospiti”, e anzi, la capacità di accogliere gli “ospiti” facendoli sentire “a casa loro” è un ottimo indice di civiltà. Se invece si parla dei diritti completi legati alla cittadinanza, per es. la partecipazione attiva alla vita politica, ritorno al punto due. In ogni caso, al di là delle questioni teoriche, anche per via dell'”inverno demografico” da lei evocato, i governi italiani avrebbero interesse a promuovere una politica di vera accoglienza, invece di agitare lo spauracchio dell’invasione. E, personalmente, più che al “rispetto” penso innanzitutto all’allegria e alla speranza, all vivacità, che una società “mescolata” può sviluppare: proprio quel che oggi manca in Italia. E con questo torno a quel che dicevo nel commento precedente: cosa determina l’appartenenza a una comunità? Essere “cives romani” significava, nella fase di sviluppo piena di questa categoria, un’adesione a un progetto, non il fatto di essere o meno nati a Roma, al punto che oggi le loro origini sono state in qualche modo collettivamente dimenticate: Agostino, Traiano, Adriano li pensiamo direttamente romani, non africani o spagnoli…
Non sono capace di analisi ampie e articolate che dicano l’avanzata del neo fascismo e dell’autoritarismo.
Dico sinteticamente le poche idee che ho.
In primo luogo i mi colpisce il fatto che siamo ancora a Mao: le campagne contro le città. Ma con un senso perfettamente rovesciato. Ora le campagne sono una Vandea conservatrice che fanno muro contro città ‘progressiste’. E questo più o meno in tutto il mondo. Le zone più ricche sono a ‘sinistra’ quelle più povere sono ‘a destra’. Potremmo liquidare la faccenda dicendo che nelle città c’è più cultura e più apertura al moderno. Ma non so se basta. Se guardiamo al passato, contro il moderno si sono schierate mica solo le vandee. Anche Baudelaire, per dirne una, era contro il moderno. E Rimbaud non ha fatto in tempo a dire che bisogna essere assolutamente moderni che si è imbarcato un bel battello e se n’è andato in culo al mondo, ben distante dalla modernità. Dunque, se non ci fermiamo alla stizza immediata contro i neofascismi e gli autoritarismi, ci sono molte domande che dobbiamo porci. Il moderno è davvero meglio? E’ davvero moderno?. Ci ha dato, oggi, disuguaglianze spaventose, che forse nemmeno ai tempi dei faraoni. Concentrazione di potere che forse neanche ai tempi di Luigi XIV. Cancellazione di privacy come forse neppure nelle campagne medioevali. Sopravvivenza di razzismo e di schiavismo in modo non marginale. Sperpero di denaro -vedi come spendono il denaro oligarchi e calciatori. Cancellazione sostanziale del diritto allo studio. Distruzione di culture, lingue dialetti e popoli cosiddetti indigeni. Cancellazione di biodiversità di territori e tutta la cosiddetta questione ecologica. Potremmo andare avanti per lungo tempo, ma resta al domanda: cosa è davvero la destra? Cosa è davvero il moderno? Cioè: come stanno davvero le cose al di là delle apparenze, nella sostanza delle cose? Come è possibile che un partito come il PD sia minato da una così triste e terrificante questione morale- a partire dalla tristissima questione Soumahoro? Ripeto, al di là delle apparenze. Perché, se stiamo alle apparenze, poi allora va bene tutto quello che ha apparenza di modernità e di progressismo. Ma se andiamo al di là delle apparenze, non resta altro che annegare nello sconforto. E trovo interessante e non incomprensibile che milioni di giovani in tutto il mondo lascino il lavoro, rinuncino all’idea di carriera, di lavori catalogati come belli e prestigiosi e avanzati ecc. Non so. A volte veramente mi dico che non so dire quale differenza ci sia davvero tra destra e sinistra. E lo dico proprio perché so con grande precisione cosa è la destra e cosa è la sinistra. Proprio per questo. I giovani che lasciano la poltrona da manager a Google e vanno ad allevare capre in montagna forse sono le avanguardie di uno smottamento che porta a un reset universale? E spero si comprenda che non dico questo in virtù di un tanto peggio tanto meglio. Ma perché mi sembra di vedere NELLE COSE un movimento credo inevitabile verso il reset. Il RESET universale è l’edizione contemporanea dell’Apocalisse? Del diluvio universale? Non ho più il braccio per poter dire l’armi qua l’armi e dunque dico: largo ai giovani.
Rubo ancora un poco di tempo.
Forse hanno ragione i critici a dire che I promessi sposi ruotano attorno all’idea di provvidenza. Non so. Io sono convinto che il fulcro del libro sta nei capitoli XXV e XXVI in cui si narra dell’incontro tra Abbondio e il Cardinal Federigo. Perché in quei capitoli Manzoni dipinge un grande affresco della questione civile. Della partecipazione civile alla civiltà. Federico in sintesi dice: so benissimo che come vescovo io mando te, agnello tra i lupi, e dunque so i rischi e pericoli che corri. Ma come tuo superiore io so di dovermi assumere ogni responsabilità per difenderti dai lupi. E dunque gli chiede: avendo tu un superiore, perché non ti sei rivolto al superiore, invece di inchinarti davanti al brigante? Ecco una bella domanda. Cosa impedisce, ha impedito ad Abbondio di rivolgersi al superiore? Credo perchè il superiore è in definitiva lo Stato e lo Stato in Italia -e solo in Italia?- è quello che è. È ricettacolo di giustizia a anche di corruzione- di coraggio ma anche di viltà- di forza verso i deboli e debolezza verso i forti. Con quali certezze chiediamo aiuto e protezione al vescovo?
Se andiamo al di là delle apparenze, se andiamo alla sostanza delle cose, sono talmente tante le domande che dobbiamo porci DAVVERO per salvare, a questo punto, non solo e non tanto il fronte progressista ma l’intero pianeta.
Non ho una stima eccelsa di Byung Chul Han. Non lo considero un pensatore particolarmente profondo e originale. Tuttavia nel suo ultimo saggetto sull’impossibilità di una rivoluzione ci sono alcune intuizioni interessanti, soprattutto nella prima parte.
Concordo sull’osservazione che sia ormai difficile distinguere tra “destra” e “sinistra” se non per alcuni dettagli di tipo “social-patriottico”. Entrambe le ideologie trascurano la vera ricerca dell’eccellenza privilegiando lo “stato sociale” e a mio avviso appartengono al passato. Il futuro che io auspico è invece rappresentato dal liberismo puro, dal mercato (oggettivo) che si sostituisce alla politica (finalizzata al consenso costi quel che costi), dall’autentica ricerca dell’eccellenza a prescindere da sussidi e contributi sociali a fondo perduto. In natura sono le “diseguaglianze” a mandare avanti le cose: perché per gli esseri umani, che della natura fanno parte, dovrebbe essere diverso?
Perché fra centomila anni e i centocinquantamila anni fa, nel Paleolitico medio, nelle prime sepolture conosciute di Sapiens, si trovano anche le ossa di bambini, e in una persino di un paraplegico, che anzi fanno oggetto di un’attenzione particolare. Come dire: l’umanità che si afferma, afferma che anche coloro che non «servono» al clan, anzi che sono «a suo carico», ne fanno parte con pieno diritto: è il marchio del progetto umano. Diseguaglianza, certo (come in natura), ma anche bisogno di svincolarsene, con la produzione della sempre cangiante cultura: e bisogno di “gratuità”. Per altro il liberismo puro è una realtà più vicina al presente che al futuro: al futuro appartengono forme di dittatura sempre più perfezionata per proteggere appunto il libero mercato che rischia di restare la sola cosa libera. A me – e sottolineo, è il mio modo di vedere – sembra abbastanza terrificante. Quanto al superamento di destra e sinistra vale – sempre per me! – quel che ho già risposto al commento precedente…
Evidentemente non la pensiamo allo stesso modo. Però, mi permetto di sottolineare che i risultati sono più importanti delle opinioni ed il progresso, almeno quello che intendo io, non si ottiene senza liberismo.
Si, non la pensiamo allo stesso modo, ed è una ricchezza il potercisi confrontare. Dunque mi permetto solo a mia volta di sottolineare che anche decidere “cosa sia progresso” è, appunto, un’opinione, è soggettivo: è più “progresso” ad esempio potenziare l’economia per mezzo di una guerra, o vivere in pace anche se questo la rallenta, l’economia?
Sollevi due questioni: una – a mio avviso – giustissima e acuta (diciamo intorno al “moderno”), pur se esula da quel che volevo raccontare io: ma il meglio arriva sempre con le divagazioni, e quindi ti divago dietro. (Cestino invece la prima frase “non sono capace”… ) L’altra che mi è cara personalmente: sui Promessi Sposi. La prima meriterebbe un libro, per quanto è importante. Per dirlo il più brevemente possibile (e quindi semplificando troppo, ahimè) moderno vuol dire due cose diverse: una neutra, quel che è avvenuto a partire dalla rivoluzione industriale, il capitalismo ma anche la sua critica. La trappola è che la fine dell’utopia socialista (e della sua terrificante “realizzazione”) ha portato l’Occidente (capitalista) vittorioso, senza più nulla che potesse frenarlo, a dire: questo sistema è la via, la modernità, il futuro dell’umanità. No, si tratta di “una” modernità, “questa” modernità, e purtroppo noi stessi – data la sua natura vischiosa – abbiamo finito con il crederlo un fatto ineluttabile, “il” progresso. No, altri progressi sono possibili, alternative, e non sono meno “progressivi” e moderni: stanno, certo, nei giovani che lasciano il lavoro di manager da Google, per lavorare meno, diversamente, altrove (lo scrittore Simone Perotti ci ha costruito sopra la sua letteratura, ma anche la sua vita e la sua azione, emblematica e rivoluzionaria: se lo conosci, ed è senz’altro da conoscere, ci diventi amico…); ma anche negli altri giovani di FFF impegnati nella militanza ecologica; o in quelli – giovani, meno giovani, e anche vecchi: largo a tutti, anche ai bambini, tutti sono importanti – che hanno sfilato martedì scorso a Parigi per lottare contro l’innalzamento dell’età della pensione; o quelli impegnati a salvare vite nel Mediterraneo, o ad accogliere ed aiutare persone nei nostri opulenti paesi, con tante campagne da rilanciare, appunto, perché anche questo significa costruire un modo diverso di vivere insieme, etc. E perdonami un’ultima piccola osservazione: se una certa destra e una certa sinistra italiane hanno finito spesso con il confondersi, la distinzione ha senso eccome, storicamente, tradizionalmente e filosoficamente: chi si batte per l’ecologia, per lavorare (collettivamente) meno, per una diversa distribuzione della ricchezza, e per i diritti civili di tutti è alternativo al capitalismo selvaggio che vuole più o meno il contrario, e dunque è di sinistra… E questo ci riconduce un po’ all’Italia da cui eravamo partiti: in cui lo slancio collettivo (ecologico, manifestazioni, proteste etc.) vive un momento assai più depresso che altrove, il che forse porta a pensare – è il risultato dello sconforto di cui parli? – che destra e sinistra siano finalmente la stessa cosa… Quanto ai Promessi sposi, hai ragione, e l’evocavo anch’io quando parlavo di “virtù”: perché il dire che queste siano solo prospettiche, emblemi, modelli, mentre “i vizi” sono concreti, non vuol dire considerarle meno grandiose. In tal senso il mio personale fulcro si situa qualche capitolo prima, XXI (e XXII), dove si narra dell’incontro dell’Innominato con Lucia, e la sua “conversione” (il linguaggio è più vero, mi sembra, di quello del Cardinale Borromeo, intriso di una retorica che qua e là mi suona falsa… L’Innominato fa venire le lacrime agli occhi, ogni volta che si leggono quelle pagine, e ci dà voglia – a noi agnostici o atei – di entrare di corsa in una chiesa…). In ogni caso, la questione che poni è sacrosanta: cosa impedisce al (vigliacco) Don Abbondio di rivolgersi al superiore, allo Stato? Ed eccoci di nuovo all’Italia: lo Stato è Stato ovunque, è vero, ma per ragioni storiche – non genetiche – quello italiano è più corrotto e meno giusto di altri, e la comunità dei cittadini – soggetti, sudditi più che cittadini – più indifferente di altre al “bene comune” – vatti a leggere alla fine della prima parte la citazione di Tabucchi che una lettrice ha messo come commento… (Non conosco il saggetto di Byung Chul Han di cui parli, me lo andrò a cercare.). Grazie.
Sollevi due questioni: una – a mio avviso – giustissima e acuta (diciamo intorno al “moderno”), pur se esula da quel che volevo raccontare io: ma il meglio arriva sempre con le divagazioni, e quindi ti divago dietro. (Cestino invece la prima frase “non sono capace”… :-) L’altra che mi è cara personalmente: sui Promessi Sposi. La prima meriterebbe un libro, per quanto è importante. Per dirlo il più brevemente possibile (e quindi semplificando troppo, ahimè) moderno vuol dire due cose diverse: una neutra, quel che è avvenuto a partire dalla rivoluzione industriale, il capitalismo ma anche la sua critica. La trappola è che la fine dell’utopia socialista (e della sua terrificante “realizzazione”) ha portato l’Occidente (capitalista) vittorioso, senza più nulla che potesse frenarlo, a dire: questo sistema è la via, la modernità, il futuro dell’umanità. No, si tratta di “una” modernità, “questa” modernità, e purtroppo noi stessi – data la sua natura vischiosa – abbiamo finito con il crederlo un fatto ineluttabile, “il” progresso. Invece altri progressi sono possibili, alternative, e non sono meno “progressivi” e moderni: stanno, certo, nei giovani che lasciano il lavoro di manager da Google, per lavorare meno, diversamente, altrove (lo scrittore Simone Perotti ci ha costruito sopra la sua letteratura, ma anche la sua vita e la sua azione, emblematica e rivoluzionaria: se lo conosci, ed è senz’altro da conoscere, ci diventi amico…); ma anche negli altri giovani di FFF impegnati nella militanza ecologica; o in quelli – giovani, meno giovani, e anche vecchi: largo a tutti, anche ai bambini, tutti sono importanti – che hanno sfilato martedì scorso a Parigi per lottare contro l’innalzamento dell’età della pensione; o quelli impegnati a salvare vite nel Mediterraneo, o ad accogliere ed aiutare persone nei nostri opulenti paesi, con tante campagne da rilanciare, appunto, perché anche questo significa costruire un modo diverso di vivere insieme, etc. E perdonami un’ultima piccola osservazione: se una certa destra e una certa sinistra italiane hanno finito spesso con il confondersi, la distinzione ha senso eccome, storicamente, tradizionalmente e filosoficamente: chi si batte per l’ecologia, per lavorare (collettivamente) meno, per una diversa distribuzione della ricchezza, e per i diritti civili di tutti è alternativo al capitalismo selvaggio che vuole più o meno il contrario, e dunque è di sinistra… E questo ci riconduce un po’ all’Italia da cui eravamo partiti: in cui lo slancio collettivo (ecologico, manifestazioni, proteste etc.) vive un momento assai più depresso che altrove, il che forse porta a pensare – è il risultato dello sconforto di cui parli? – che destra e sinistra siano finalmente la stessa cosa… Quanto ai Promessi sposi, hai ragione, e l’evocavo anch’io quando parlavo di “virtù”: perché il dire che queste siano solo prospettiche, emblemi, modelli, mentre “i vizi” sono concreti, non vuol dire considerarle meno grandiose. In tal senso il mio personale fulcro si situa qualche capitolo prima, XXI (e XXII), dove si narra dell’incontro dell’Innominato con Lucia, e la sua “conversione” (il linguaggio è più vero, mi sembra, di quello del Cardinale Borromeo, intriso di una retorica che qua e là mi suona falsa… L’Innominato fa venire le lacrime agli occhi, ogni volta che si leggono quelle pagine, e ci dà voglia – a noi agnostici o atei – di entrare di corsa in una chiesa…). In ogni caso, la questione che poni è sacrosanta: cosa impedisce al (vigliacco) Don Abbondio di rivolgersi al superiore, allo Stato? Ed eccoci di nuovo all’Italia: lo Stato è Stato ovunque, è vero, ma per ragioni storiche – non genetiche – quello italiano è più corrotto e meno giusto di altri, e la comunità dei cittadini – soggetti, sudditi più che cittadini – più indifferente di altre al “bene comune” – vatti a leggere alla fine della prima parte la citazione di Tabucchi che una lettrice ha messo come commento… (Non conosco il saggetto di Byung Chul Han di cui parli, me lo andrò a cercare.). Grazie.
Ho atteso la fine per provare a rispondere con alcune notazioni veloci, a questo pamphlet o dichiarazione d’urgenza che sia.
Un punto da cui si può cominciare è forse lo sguardo lontano-vicino vs lo sguardo da dentro.
Sembrerebbe che il primo sia quello capace di indignarsi ancora, il secondo non più o non abbastanza. Essendo io un rappresentante del secondo posso dire che non è affatto vero, è vero invece che è necessario trovare un minimo di equilibrio per non starci male tutto il santo tempo, e a vuoto poi, quindi senza senso. Noi “esiliati in patria” (l’espressione, centratissima, è del Samonà) abbiamo perfino imparato a non piangerci addosso, nella considerazione però e nell’ormai avvenuta agnizione del “carattere ineluttabile della nazione” diciamo così.
Semplicemente bisognerebbe ammettere di esserci sbagliati ma di più, di aver voluto credere alla favola italiana per una vita intera, di un paese pieno di umori e dal piglio coraggioso. Perché molti tra gli italiani hanno la tendenza all’eroismo, ma forse quando sono messi alle strette da una condizione estrema. Felice quel paese che non crea le condizioni disperate per cui, quando poi c’è un’emergenza bisogna comportarsi da eroi per sopravvivere.
Quando si generalizza si è sempre scortesi con la verità, ma per quanto valgano le pigre semplificazioni l’Italia è un bel paese abituato alla vigliaccheria da tanto di quel tempo che s’è scordata ogni altra eventualità, e per me vigliacco e fascista sono sempre stati sinonimi, per mia esperienza non ho mai visto un fascista coraggioso.
Quindi passo al fascismo e la sua continuità.
Non dimentichiamo che siamo anche un paese di inventori, da un bel po’ poi e come si dice nell’articolo abbiamo scoperto di essere una sorta di laboratorio globale, non solo in senso strettamente politico (ad esempio, non so se si ricorda ma la sperimentazione dei nuovi braccialetti elettronici, ossia i telefoni cellulari, è avvenuta in Italia e solo qui, dopo il successo italiano si sono diffusi nel resto del mondo).
Nell’articolo si mette giustamente in evidenza l’importanza centrale dell’amnistia del ’46 per la permanenza in servizio permanente effettivo dell’apparato fascista, anzi l’Apparato, fatto di militari, forze dell’ordine, servizi, pubblica amministrazione ergo burocrazia che ha la funzione attiva di annichilire la vita quotidiana dei sudditi, giammai cittadini. Qualsiasi governo da allora ha dovuto e deve farci i conti, salati (e qui i fili visibili sono talmente tanti che ci vorrebbe lo spazio enorme di un armadio dell’infamia: che so, a caso, il direttore del confino a Ventotene era questore al momento di piazza Fontana e ha inventato il mostro Valpreda; l’entusiastica chiamata alle armi per il primo ministro degli Interni di provenienza fascista, altrimenti detto G8 2001; o la provata posizione gestionale nelle stragi di mafia del ‘92/’93 del signor Delle Chiaie Stefano etc. etc. etc.).
A me qui invece preme mettere in evidenza che il “carattere italiano” si fa più evidente se l’analisi comincia da prima e si fa duplice. Una delle cose infatti che non si può dire pubblicamente, pena l’esecrazione del ridicolo, è il fatto storicamente accertato che in Italia il fascismo si poteva battere militarmente, stroncarlo fin dall’inizio quando il fascio era in fasce, gli Arditi del Popolo erano tanti e pronti e avrebbero vinto e stracciato facilmente il branco di poveracci che erano allora nel 1920/22, e se Gramsci era convinto e d’accordo Bordiga invece no e così ci siamo fatti 20 anni di fascismo così come dopo 20 di Berlusconi. Anche questa è continuità.
L’Italia è una Repubblica fondata sulla mancanza di prove, e l’ultima scelta elettorale non è che una conseguenza, la prova di continuità: la destra appare oggi più di sempre come vessillifera della vitalità, contro chi è convinto di essere l’unico sano in virtù delle idee che ha chiuse in capoccia.
E qui non possiamo non andare all’ambiente culturale. Perché se i peccati fanno più schifo se li fanno i preti, così per l’ipocrisia e la viltà degli intellettuali cosiddetti.
Qui è più complicato dipanare la trama ingannevole che rivela la continuità, dal Minculpop a oggi con molte e diverse nuances del pop, ma solo perché qui c’è l’abilità semiotica. Tempo fa un rappresentante eminente della congrega dei letterati ha parlato di un “inconscio collettivo della società letteraria italiana”! Forse lo si potrebbe rintracciare nel giudizio che dà della cultura italiana un giornalista che la conosce bene, Tim Parks infatti notava la “brutalità” nei riguardi di chi non vi si aggrega o muove critiche, peculiare rispetto agli altri paesi, ad esempio con le armi sempre efficaci della conventio ad tacendum, ad excludendum etc. O nell’evitare il confronto come la morte. Forse la si potrebbe rilevare nella tattica usata nei decenni, la perentoria, accuratissima scelta del mediocre in quanto “fedele” e, siccome ormai siamo già alla terza generazione di mediocri che scelgono mediocri eccoci all’inanità.
Poi però interviene la propaganda pop a dire che qui c’è il miglior cinema, letteratura di qualità, il meglio del meglio…
In conclusione: qui si lavora per tutti (Europa almeno), e le sinistre cosiddette hanno il gravoso compito di tener giù gli stronzi perché non vengano a galla. Però, se oramai il vero non ha più alcun privilegio sul falso, il problema è mondiale…
Peccato che gli stronzi siano quelli che cercano di impedire alla vera Ragione di esprimersi ed emarginare coloro che senza un Regime che risolva loro i problemi non sarebbero più capaci di vivere. Homo faber fortunae suae e non homo sovieticus, questa è l’unica ricetta per uscire dalle sabbie mobili di un appiattimento frustrante, assassino dell’eccellenza da ricercarsi sempre e comunque, anche se ciò può dare fastidio ai mediocri.
Mi sa tanto che ci stiamo allontanando dal tema principale degli articoli, portando la questione sulla contrapposizione capitalismo-comunismo, due tipi di tirannie completamente differenti (la prima molto più mascherata, la seconda decisamente più palese), senza tener conto che nel commento di Morelli si parlava di socialismo e non della sua aberrante concretizzazione eseguita da diversi tiranni del Novecento e anche contemporanei.
Il problema principale cui affrontare è la codardia degli Italiani, non tanto la vigliaccheria. Questa è messa in pratica di solito da chi ha la forza, il potere e gode nell’impiegarlo contro i più deboli: mafiosi, governi, imprenditori, o anche solo signori qualunque i quali, avendo subito tutta la vita, sfogano la loro vendetta su altri innocenti appena hanno un insignificante granellino di potere, come potrebbe essere nel caso di ruoli come capoufficio o roba simile.
La codardia invece è il rifiuto di assumersi la propria responsabilità per timore di ricevere un danno di qualunque tipo: moltissime brave persone, anche alcune che conosco personalmente e considero veri amici, si sono macchiati di codardia o continueranno a macchiarvisi. E non si tratta molto di cedere a un ricatto perché non possono fare altrimenti: molte volte si tratta proprio di una libera scelta.
Quest’atteggiamento è diffusissimo nel nostro paese: è uno dei motivi per i quali non si vuole più scendere in piazza, insieme a quella apatia di cui parlava Samonà.
Grazie, Cristian Palmas, di ricordarlo: sì, ci stiamo allontanando… Interessante la significativa sfumatura di differenza che introduce fra “vigliaccheria” e “codardia” — più creativa che reale, credo, per me sono sinonimi, come anche pavidità, viltà etc.: ma non importa, fa riflettere (ma in tal senso, chi è “codardo” non si rivela se gli si presenta l’occasione anche “vigliacco”, e viceversa?) Attenzione, tuttavia – e lo dico proprio io che ho iniziato almeno in parte il gioco – a non affidare la propria analisi solo ai profili diciamo antropologici, senza tener conto della la storia…
Ho sorvolato sulla storia soltanto perché, mentre scrivevo, ero proiettato al futuro, in cui contano, per costruirlo, le qualità di cui siamo dotati ora, nel presente, e che potremmo acquisire in futuro.
Sì, è vero, un codardo può comportarsi come vigliacco e viceversa, dal punto di vista della mia personale distinzione; ma ciò che mi premeva far capire è che dobbiamo combattere il codardo che c’è in noi. Un modo piuttosto semplice – che tra l’altro storicamente ha inventato la sinistra negli anni ’60 ed è approdato in Italia negli anni ’90 – è la partecipazione dei cittadini alle decisioni politiche finali, attraverso strumenti di condivisione e partecipazione come per esempio il famosissimo bilancio partecipativo. Questo è solo uno dei tanti strumenti che si possono impiegare. Ora purtroppo non ho tempo di approfondire.
Insomma, quale che sia l’argomento, Lei – dietro sontuoso pseudonimo – ribadisce la sua versione semplificata di superomismo: a questo punto lo abbiamo capito, forse non c’è più bisogno di continuare a ripeterlo…
Né pamphlet né dichiarazione d’urgenza, ma innanzitutto una sorta di “sonda” per capire come pensano e vedono la situazione le persone che mi sono più vicine, in Italia e fuori: le risposte, pubbliche e anche private (comprese le “non” risposte) sono state tutte significative. Il tuo commento è come se mettesse in valore, ma da un punto di vista originale, alcune delle cose che mi stanno più a cuore e, curiosamente, mi sembra in parte rispondere anche a quel che domandava, più sopra, Claudio Castelli (cosa distingue l’Italia da altri paesi? pur sapendo che generalizzare senza esser “scortesi” con la verità è operazione difficilissima…). Mi limito dunque solo a sottolineare e magari continuare alcuni elementi, più in ombra nel mio scritto, e che condivido interamente (ma ognuno meriterebbe ben altro spazio). 1. La sinonimia vigliaccheria fascismo, che ridà nuovo vigore al terreno descritto da Manzoni, il personaggio di Don Abbondio, etc. Il trionfalismo, la sbruffoneria, “la propaganda pop”, sarebbero una faccetta di tale vigliaccheria: siamo i più bravi, i più forti etc. (Ed ecco che il fascismo si sarebbe potuto fermare, etc.: meriterebbe appunto di essere raccontato con tutti i dettagli! E mi viene in mente che, da questo punto di vista, si potrebbe all’inverso pensare che l”eroismo” della lotta armata si sia manifestato nel momento in cui l’Italia ne aveva meno bisogno, i suoi anni “migliori”: perché?.) 2. La favola italiana: gli anni sessanta e settanta sarebbero stati un’illusione? Forse, ma anche in qualche modo – almeno, per alcuni – un’esperienza formatrice e una fabbrica di (non molti, alla luce del seguito) anticorpi. 3. Il laboratorio: giustissimo, già il fascismo come dicevo lo fu rispetto all’Europa. Quindi dal dopoguerra in poi, anche per via della posizione strategica dell’Italia e per la sua incapacità di opporvisi (la vigliaccheria?). D’accordissimo sui nuovi “braccialetti elettronici”, con tutto quel che implica… E giù giù fino a oggi: si dovrebbe ad esempio analizzare come governo e media abbiano utilizzato e organizzato, in modo più duro e violento che altrove, la (ben reale, lo preciso) emergenza covid. 4. Il Minculpop: vai più avanti di me, e hai ragione. Forse bisognerebbe andare ancora più avanti, per cercare di ridar fiato a quel che di diverso si muove. 5. Il vero che non ha più alcun privilegio sul falso: questo è il titolo di un libro, e insieme un necessario programma di lotta per, appunto, ricacciare il falso nel posto che gli compete. Leggendoti ho anche pensato che di tutte queste parole (il mio testo, e alcuni dei commenti più significativi) bisognerebbe fare qualcosa a stampa. P.S. Vatti a rileggere, mi sembra sotto la prima parte, la lunga citazione di Tabucchi che una lettrice ha postato come commento…
Su molte cose che dice Giuseppe Samonà – che è anche un caro amico e uno scrittore che stimo – concordo. Mi sembra perfino ovvio ripassarle. Non voglio però nascondere una perplessità generale rispetto al suo diario pubblico, che proverò a sintetizzare.
1 Il linguaggio
Parto proprio dal linguaggio che usa. Samonà è un saggista, uno scrittore, non dovrebbe secondo me usare il linguaggio della politica corrente, un linguaggio liofilizzato, standardizzato, incapace di comunicare qualsiasi cosa – espressioni allucinanti come “alternativa viabile” e simili – . Non lo dico per snobismo. Il punto è che quello che dice uno scrittore dovrebbe essere fatto di una materia un tantino più durevole: come osservò Fortini un volantino che incita allo sciopero dovrebbe essere interessante perfino dopo che lo sciopero è stato fatto (o dopo che magari è fallito), perché contiene una verità che va oltre l’occasione contingente. Mi chiedo: che senso ha che uno scrittore ci parli di sistemi elettorali, di strategie e tattiche, di schieramenti, etc. e insomma di una materia anche noiosamente complicata su cui, poniamo, politologi come Stefano Folli o Panebianco possono darci informazioni più accurate e meditate? Nel diario di Samonà non si accende nessuna parola, non si inventa nessuna metafora capace di squarciare il velo dell’inganno mediatico quotidiano. Flaubert diceva che tutto ciò che è detto male è “falso”,. Non oglio dire che il diartio “politicoi” di Samonà sia falso ma noto che è parechio al di sotto del suo “stile” di scrittore. Forse ciò è inevitabile. Non mi si venga però a dire che qui si tratta di un “genere”diverso. Lo stile di uno scrittore resta sempre tale.
Perciò ho apprezzato invece il respiro antropologico che ha tentato di dare alla intera riflessione, partendo da Manzoni e Leopardi. Io credo che uno scrittore dovrebbe scompigliare le nostre pigre categorie, esprimere una alterità e una dissonanza, mettersi da una prospettiva straniante, illuminare per un attimo tradizioni di pensiero per me incomprensibilmente neglette (che so, per limitarmi all’’800 il filone anarchico non-violento in America o il nichilismo di Herzen che mise impietosamente a nudo la mentalità autoritaria del “rivoluzionario”), smascherare le menzogne e gli equivoci del lessico politico, insomma dovrebbe fare tutto tranne dare una “indicazione di voto”, in questo caso UP (cui può andare anche la mia simpatia ma che non contribuisce certo al risveglio dalla letargia della sinistra: votarla è puro estetismo della politica)
2 L’eterno fascismo.
Bene citare l’eterno fascismo di Carlo Levi (non certo quello di Umberto Eco, di cui per quanti sforzi io possa fare non riesco a dimenticare la battuta volgare nella polemica con Pasolini sull’aborto). Però proprio Levi ipotizza che all’interno di ciascuno di noi si trova una parte “luigina” (fascista), cui piace comandare e obbedire, e una parte “contadina”, che ama le cose che fa. Non ci sono uomini e no. Ecco, credo che noi dovremmo anzitutto parlare della parte luigina dentro di noi. È un esame di coscienza che tendo a fare quotidianamente. Mica dico che dentro di me o dentro Samonà abiti che so un Ignazio La Russa, però….Bisognerebbe interrogarsi ogni giorno su quali dinamiche di potere uno ha alimentato o accettato acriticamente, su quante persone ha umiliato, anche senza volerlo, o manipolato o prevaricato, su quante cose ha fatto solo “in funzione di altro”, cioè strumentalmente, per raggiungere un obiettivo e non perché le amasse davvero. Ricordo Gaber: mi fa paura non Berlusconi in sé ma Berlusconi in me. Ma lo stesso Carlo Levi negli anni ’30: “Combattere il fascismo dentro di noi”. Questa la principale “rivoluzione culturale”, questo l’ esame di coscienza che ci distingue dalla destra.
Inoltre: non penso come Gobetti che il fascismo sia l’autobiografia della nazione. No, la vera autobiografia della nazione è stata la DC: noi italiani siamo anguilleschi, opportunisti, camaleontici, tiepidi, riadattabili, e infine inesauribili retori (abilissimi e direi spudorati a giustificare qualsiasi scelta)
3 Partire da sé.
Dunque, più che mai oggi uno dovrebbe partire da sé – come insegna il grande Montaigne – , dalla propria percezione delle cose, dovrebbe insomma dirci dove sta e come sta. La terza puntata del diario è la più bella proprio perché la più personale e partecipe, benché la “temperatura” sia sempre sorvegliata e non raggiunge mai punte elevate (ma questa è una scelta legittima)Certo, l’importanza fondamentale delle “sintonie” tra mescolanze diasporiche di una volta e quelle di oggi. Anche se fatico a capire in che mondo il nipote argentino di un nonno calabrese potrebbe sentire come “fratello” un nigeriano nato qui e che è andato a scuola al Righi. Va bene, dovremmo tutti sentire come patria il mondo, così come per i pesci è il mare (Dante, De vulgari eloquentia, riprendendo Seneca e Ovidio), ma la cosa non è immediata né autoevidente, richiede immaginazione morale.
4 Ci salveranno i migranti?(questo punto non riguarda il diario di Samonà: è solo una mia personale utopia)
Infine. Sabato mi sono messo ai margini del corteo anarchico. Volevo guardare in faccia questi pericolosissimi anarchici “insurrezionalisti”. circondati da poliziotti con scudo ed elmetto Ora, Cospito che gambizza un ingegnere perchè in Giappone c’è stato un incidente in una centrale nucleare, è fuori di testa, però veder sfilare quei reduci inoffensivi, quelle ragazze e ragazzi (un migliaio), che credono – benché confusamente – nell’ideale umano per me più alto (Spinoza lodando la repubblica ebraica degli inizi osservò che era ispirata a questo principio: “Nessuno era asservito a un suo uguale ma solo a Dio”), ridotti anche per loro colpa a una setta tipo Testimoni di Geova, stringe il cuore. Ho pensato in quel momento che a volte mi ritrovo ad odiare alcuni membri del governo, e un poco me ne vergogno. In Italia la politica nasconde infatti una guerra civile strisciante. Non abbiamo “avversari” ma “nemici”. E non è un buon sintomo, Come uscirne? Se gli scrittori migranti rivitalizzeranno la nostra lingua, si può anche auspicare che solo l’Italia di un futuro prossimo, composta perlopiù da migranti perfettamente italofoni, che non avranno alcuna relazione con quella guerra civile e con quel passato, potrà uscirne.
Filippo La Porta
Tante cose stimolanti scrive Filippo La Porta, cui proverò a dare una rapida risposta, e poi magari, per la risposta alla risposta, ci sposteremo altrove: discuteremo, speriamo, mettendo insieme le nostre (di noi due e di altri) intelligenze – perché i punti sollevati meritano che se ne discuta.
Due piccoli rilievi preliminari. “Su molte cose – dice La Porta – sono d’accordo”, ed è “perfino ovvio ripassarle”: mi fa un po’ pensare a quel marito che dopo tanti anni di matrimonio dice alla moglie, o viceversa: è inutile che ti dica che ti amo, tanto lo sai… Quanto sarebbe utile, invece, che lo dicesse… E quanto, fuor di metafora, sarebbe soprattutto utile in questi tempi grami “ripassare” le cose che ci uniscono… Per altro, la frase mi appare contraddittoria, oppure un po’ retorica (già…): dopo le “molte cose” su cui c’è accordo, si manifesta infatti “una perplessità generale” sul mio “diario pubblico”… Ecco, a parte la natura quasi ossimorica di queste due affermazioni una accanto all’altra, vorrei dire che la parte “diaristica” di questo mio articolo è minore, e la avanzo solo per espormi in prima persona, un po’ come quando tu racconti (ma sì, mi rivolgo direttamente a La Porta) della tua presenza discreta alla manifestazione degli anarchici: per mischiarmi con la cultura e non usarla come schermo per nascondermi (un’attitudine di molti intellettuali che detesto) — ma appunto, l’articolo nel suo complesso è tutt’altro che un diario.
E veniamo ai punti, soprattutto il primo, quello che forse – amichevolmente – più ci separa: o forse no, forse questo décalage può essere un utile strumento per sviluppare un discorso più alto. Sugli altri punti, più consensuali, rispondo più brevemente, pur se molto ci sarebbe da dire anche lì: potremo continuarli insieme in un’altra occasione, se vuoi.
1. “Il linguaggio”. Potrei offendermi, un altro “scrittore” forse si offenderebbe a sentirsi attribuire un linguaggio “liofilizzato” etc.: a me invece quel che dici fa persino… piacere, perché mi permette di chiarire alcune cose, e creare le basi, forse, per uno scambio vero!
Il mio amico G. (altro emigrato, da decenni in Inghilterra, e irriducibile militante) mi dice, all’opposto tuo (e di Fortini?): bello quello che scrivi, ma come faccio a metterlo in un volantino? Ovviamente, pur nella stima per chi non ha mai deposto le armi (in senso metaforico!), mi fa sorridere sino alla tenerezza. In tutt’altra direzione, la mia amica M. – uso abbreviazioni per i messaggi privati – mi dice che è d’accordo su molte cose, ma che questa scrittura sottrae tempo a quell’altra mia scrittura, “la scrittura vera”, che lei preferisce. Ora non sta a me dire se quell’altra scrittura “vera” sia buona o meno (e se lo sia più o meno di questa): posso dire che la preferisco anch’io, nel senso che preferisco produrla, e di gran lunga. E di più: ho fatto una gran fatica a scrivere queste righe, sentivo che mi strappavano tempo, appunto, energie a una certa traduzione poetica commentata cui sto lavorando da mesi, e a volte persino la odiavo, questa riflessione politica, ma non potevo non farla. È vero, metti il dito su una questione chiave: anche a me il linguaggio che ho utilizzato appare a tratti – ma non sempre – inadeguato, più che retorico “vecchio”, qua e là ne ho provato persino fastidio: ma era come se fosse, prima del linguaggio, vecchia la realtà italiana che dovevo narrare, come se non fossero disponibili altre espressioni, perché di queste cose nessuno ne ha parlato, ed ecco che io stesso, se ci provo, inevitabilmente, almeno in parte, c’inciampo sopra. E non c’era troppo tempo per cercare il mio stile: avevo fretta.
C’è un punto che hai dimenticato, e quasi mi commuove, perché ti rivolgi a me come se fossi tuo vicino di pianerottolo e ci vedessimo tutti i giorni per chiacchierare: io da decenni non abito più in Italia, sono altrettanto se non più francese o canadese che italiano, e da oltralpe avverto, come molti altri italiani métissés che vivono all’estero, un’urgenza drammatica che nessuno degli amici e intellettuali di “dentro” che molto stimo, con te in testa, sembra avvertire con uguale intensità (ieri [sabato 11/02] a Parigi hanno manifestato mezzo milione di persone, con una gioia, un entusiasmo che dà speranza, e i tre o quattro italiani che ho incontrato – moltissimi italiani vivono a Parigi – hanno tutti iniziato dicendo, come se si fossero messi d’accordo: magari ci fosse questo entusiasmo, questo coraggio in Italia…). Prendo, prendiamo da fuori un abbaglio? Siete voi da dentro ad essere storditi? Al di là del linguaggio, per cui incasso, anzi approvo almeno in parte la critica, di questo (abbaglio versus stordimento), e delle cose che evoco, del merito della questione, ne vogliamo parlare? O con il nobile pretesto che non bisogna abbassarsi a un linguaggio “sotto tono” le lasceremo semplicemente non dette, taciute?
Quanto al linguaggio, alla scrittura, facciamo attenzione a non cadere nella trappola dell’antiretorica a tutti costi o, peggio, della leziosa ricerca dell’originalità fine a se stessa: se c’è, questa originalità, deve sgorgare (per usare un aggettivo che andava di moda negli anni Settanta) in modo “autentico”. Perché poi, cosa intendiamo per retorica (non nel senso dell’arte eccelsa dei Greci) se non, per comune sentire, quel che rende vuota un’espressione piena di senso? Ma quel pieno senso a volte rimane… Ecco, un’”alternativa viabile” (lo dico con un po’ di scherzosa retorica! e mi chiedo anche se non sia piuttosto un gallicismo!!) è quella che sento nella marea di giovani che ho incontrato alla manifestazione. (Del resto, vedi sopra quel che dicevo sul tuo paragrafo introduttivo…)
Squarciare il velo, dici… Ma chi lo squarcia questo velo, in Italia? Ecco un altro punto che mi sembra cruciale. Gli intellettuali, nel senso della categoria, non dei singoli individui, sembrano essersi ritirati sull’Aventino. E poi, perché mai non dovrebbero sporcarsi con il linguaggio della politica? Pintor, Rossanda non erano intellettuali? E Natalia Ginzburg o Sciascia non hanno forse dato a loro modo indicazioni politiche? In Francia le ha date anche Annie Ernaux, che piaccia o non piaccia ha anche vinto il Nobel… Forse allora sta proprio qui il problema di cui si dovrebbe discutere: come e perché gli intellettuali devono o non devono parlare anche di politica? Con quale linguaggio? Non credo che tu pensi all’Aventino, probabilmente hai una diversa visione dell’impegno, parliamone: mi sembra più importante delle mie eventuali scorciatoie di linguaggio – e forse queste si potrebbero evitare se ci fosse un vero fermento, quel fermento che in Italia manca: è il fermento, infatti, che genera, anche linguisticamente, la creatività… Quanto a Panebianco o Folli il problema è appunto che NON danno molte delle informazioni che a me sembrano preziose, e quelle che danno (in generale i politologi) le danno con un linguaggio – quello sì, e radicalmente – spesso inadeguato, scollato dalla realtà. Per esempio non hanno parlato (non è un po’ vergognoso?), e poco ne hanno parlato a dire il vero persino i giornalisti del Manifesto, del perverso (e incostituzionale) meccanismo che ha portato alla non presentazione forzata alle elezioni di alcuni partiti: un vero e proprio scandalo di cui nessuno si è veramente curato in Italia. Per altro io non do, né volevo farlo, nessuna indicazione di voto: e se mi rileggi, ti verrà da sorridere. Do infatti un’indicazione di “non” voto, raccontando appunto – è l’unico pezzo di “diario”, come dicevo – di come non ho potuto darlo. È questo “non” che volevo mettere in rilievo, perché mi sembrava scandaloso (e scandalosamente ignorato in Italia), non il voto.
2. L’eterno fascismo. A parte Gobetti, che valuto diversamente – perché Gobetti avrebbe descritto la piccola viltà del trasformismo democristiano come elemento chiave dell’autobiografia, è quello che provo a dimostrare in un certo senso, ma ne parleremo altrove – a parte Gobetti, dunque, sono d’accordo su tutto. Con una sfumatura che vorrei aggiungere: la “rivoluzione culturale” di cui parli, e che approvo (l’ho chiamata la “rivoluzione del bene comune”), ha senso solo se è parte di un grande ripensamento e confronto collettivo, è questo che la trasforma appunto in “rivoluzione culturale” (cultura = società), altrimenti rischia di restare nella mansueta cuccia delle buone intenzioni, un po’ come quelli che vanno a confessarsi in chiesa. Manzoni, e soprattutto Leopardi, sono feroci, e se letti sino in fondo (soprattutto il secondo) non possono non rimetterci veramente in discussione, e incitare all’azione, soprattutto chi opera nel paese. E di nuovo, non dimenticare: io non abito l’Italia, la vedo dal di fuori.
3. Partire da sé. Il problema non è di capire come il nipote argentino di un nonno calabrese possa entrare in sintonia con il Nigeriano iscritto al Righi, ma di ripensare un sistema politico e culturale che permette al nipote argentino che non vive in Italia di avere più diritti del Nigeriano che ci vive! In quella direzione, la grande storia di emigrazione che l’Italia ha avuto, nel tempo e nello spazio, potrebbe essere una ricchezza per aiutare a meglio accogliere l’immigrazione che l’Italia riceve oggi: ma, fermo restando il fatto che lo ius sanguinis (nel senso della storia) non può e non deve essere eliminato totalmente favore dello ius soli, bisogna sviluppare un sistema e una cultura che faccia sì che i diritti siano innanzitutto di coloro che vivono sul territorio: tutti!
4. I migranti ci salveranno? Non so se la salvezza collettiva sia possibile, nelle cose umane, anzi senz’altro non lo è, ma un cammino, un’utopia (come appunto dici), nel senso in cui l’intendeva Galeano, sì (… la utopía está en el horizonte. Me acerco de dos pasos, ella se aleja dos pasos… Por mucho que camine, nunca la alcanzaré. Entonces, para que sirve la utopía? Para eso: sirve para caminar…). Non dimentichiamo che l’Italia è il paese che ha fatto la Controriforma senza conoscere la Riforma, e che contestualmente si sta, demograficamente, spegnendo: l’arrivo degli emigranti-che-per-noi-sono-immigranti, ma anche l’integrazione di quelli che sono nati e cresciuti in Italia proveniendo da famiglie “straniere”, possono diventare, se presi nel senso giusto – al contrario di quel che agita la propaganda del terrore – un’occasione per il paese di imboccare una strada diversa, qualitativamente e quantitativamente (ricordo una battuta di un’umorista tedesco che diceva più o meno “stranieri, aiuto, non lasciateci soli con i tedeschi”, che poi era stata riproposta in italiano…). Quanto a Cospito, sarà anche fuori di testa, certo: ma come qualificare un sistema che condanna qualcuno che non ha ucciso nessuno né incitato a farlo a un numero di anni di prigione spropositato che addirittura rischia di trasformarsi in ergastolo, con in più l’assegnamento al carcere duro (il 41bis) che si sta rivelando una condanna a morte?
Bravo, sono d’accordo: anch’io mi vergogno un po’ se mi sorprendo a odiare. Ma per amare ci vuole coraggio, il coraggio di impegnarsi sino in fondo, e di trovare – ci proverò, vorrei provarci, anche politicamente – il linguaggio per raccontarlo.
Il finale della tua risposta, Giuseppe, è bellissimo. Per amare ci vuole coraggio. Aggiungo che per amare bisogna scavare dentro l’odio fino a trovare l’amore (lo disse Pasolini come definizione della poesia in generale). Vale la pena farlo, anche se su quell’odio si è incistato un pezzo della nostra identità. Perché solo chi riesce ad amare qualcuno, qualcosa che appartiene interamente al presente, è “felice”, e perciò al riparo da tutto, da fallimenti, sventure, frustrazioni, insomma da tutto ciò di cui è fatta la nostra esistenza. Il grande Baruch termina la sua Etica più o meno così: “Non devo reprimere i miei istinti per essere felice ma solo se sono felice potrò reprimerli”.
Sul primo punto (che è poi il vero termine del nostro dissenso). Sì, sporcarsi le mani con il linguaggio. Giustissimo. Ora, fai però gli esempi di Pintor e Rossanda. Ecco: personalmente non riesco a rileggerli. In tutto quello che scrivevano, nella loro nobile ( a volte vaporosa) retorica dell’indignazione e della denuncia – replicabile all’infinito e in modo indolore – ci sento una nota di falsità. Sai perché? Perché il loro non era uno sguardo “disinteressato”. Volevano “fare la rivoluzione” (di cui si pensavano come avanguardia!), e dunque volevano mobilitare, agitare, smuovere, organizzare gli altri, e al tempo stesso volevano dare ai loro lettori e militanti ( e a loro stessi) una conferma identitaria. Mentre gli “scritti corsari” di Pasolini non avevano alcun secondo fine: nascevano solo da una angoscia ( e rabbia)fortemente personale. Perciò sono fatti di una “materia” più autentica, e assai più durevole. Ecco, tu verosimilmente non ha alcun secondo fine, non sei il leader di un movimento né aspiri ad esserlo, non intendi smuovere nessuno, etc. Perciò mi colpisce ancor più l’uso nel tuo diario di stereotipi e automatismi della lingua. Credo che un intellettuale non abbia un rapporto privilegiato con la verità, tuttavia ha un obbligo verso lo stile (“stile” non è “ornamento” ma visione del mondo che diventa forma). Mi soffermo sulla espressione incriminata: “alternativa viabile”. Sì, quel “viabile” potrebbe essere un francesismo quasi straniante, squisitamente letterario, tanto che lo userò alla fine. Però “alternativa” a chi e a cosa? Al capitalismo? Alla crescita? Alla modernità ( a questa modernità)? Alla tecnica? Alla (pervasiva) microfisica del potere? Al digitale? Alla cultura della forza e del successo (come direbbero i nostri maestri, da Simone Weil a Camus e Chiaromonte), che oggi irretisce peraltro l’intera nostra sinistra? Bisogna ripartire da qui. Perciò – effettivamente – ho sbagliato a tacere di tutto ciò che ci unisce. Occorre invece ripassare l’ alfabeto dell’emancipazione, riformulare con pazienza il lessico della politica.
Sul secondo punto. Credo davvero che Gobetti si sarebbe ricreduto sul fascismo come autobiografia della nazione. Guarda che Mussolini negli ultimi tempi ODIAVA gli italiani, perché non si erano fatti modellare e rieducare da lui! No, gli italiani sono riottosi alle regole, alla disciplina, a qualsiasi “pedagogia” politica, né hanno davvero una propensione per il fanatismo: si adattano, cercano compromessi, se l’aggiustano. La DC ha capito questo – che sono inemendabili – Mussolini non l’aveva capito ( e forse neanche Gobetti).
Sul terzo punto. Certo, contemperare jus sanguinis e jus soli,….Un proposito di assoluto buon senso. Come dovremmo contemperare un mucchio di cose: uguaglianza ed efficienza, amore per la patria e vocazione cosmopolita, illuminismo e romanticismo….Ma Isaiah Berlin ci ha mostrato che quasi sempre i “valori” che vogliamo contemperare non sono tra loro compatibili: la giustizia oltre un certo limite comprime la libertà, la libertà oltre un certo limite condiziona la giustizia. Non ci sono ricette. In questo senso la visione di Berlin è “tragica”, ma ciò non significa affatto invito al quietismo e all’inerzia. È solo una lezione di misura.
Sull’anarchismo.
(ah, Cospito naturalmente non si merita il 41bis, però uno che gambizza un ingegnere dell’Ansaldo, dopo che ha letto di un incidente nucleare in Giappone, beh converrai che è da manicomio criminale, certo senza mai “affliggerlo”).
Della tradizione dell’anarchismo post-classico (ma ispirata alla “controsocietà” di Proudhon: insomma dalla rivista “politics” degli anni ’40 con Macdonald e fino a Paul Goodman e Castoriadius) vorrei invece riprendere l’idea cara a Chiaromonte (ripresa tra gli altri da De Certeau ma anche da Cohn-Bendit in dialogo con Sartre) di creare delle “fratrie”, dei piccoli gruppi di persone libere, entro i quali non ci sono gerarchie né relazioni di potere. Senza alcuna pretesa di essere “migliori” degli altri (temo le “minoranze virtuose” che si autoeleggono tali) ma impegnandosi a costruire dei gruppi fondati sull’amicizia e su un comune sentire, sulla solidarietà di amici che non perseguono fini di potenza. Microcomunità sparse che, in attesa di tempi migliori, possono anche avere un valore esemplare, di contagio sociale. Bisogna pensare a un gradualismo esistenziale profondamente legato al quotidiano, una volta che riteniamo esaurita ogni ipotesi di rivoluzione-insurrezione o di rottura della Storia. Onestamente non so se io ne sarei all’altezza, però mi attrae molto. Ti sembra un minimalismo “privo di visione” e “incapace di incidere”(come obiettano i politici, eternamente pensosi delle sorti collettive )?A me pare invece l’unica utopia viabile.
Filippo, posso dirlo? Questa è la risposta che cercavo da te, quella che pone veramente, che si sia d’accordo o meno, le questioni cui provare a rispondere. Lo faccio subito, il più brevemente possibile, abbiamo già preso molto spazio, ma continueremo spero alla prima occasione.
Sposo interamente il tuo primo paragrafo. Aggiungo solo alla tua aggiunta che, per potersi permettere lo scavo, è necessario, con la penna e con gli altri mezzi a nostra disposizione, denunciare e combattere fermamente l’ingiustizia. Perché se la rivoluzione purificatrice è probabilmente impossibile, nel senso che l’ingiustizia, il male in generale, sono inestricabilmente avvitati all’avventura umana (è mia, ma sa di formula, lo so!), e anzi proprio per questo la purificazione quando si mantiene tale genera mostri peggiori dei mali che voleva curare, abdicare al suo sogno – pur nella coscienza dell’impossibilità – rende quel male osceno, infinito. Anche perché, molto banalmente, il potere (vedi Sciascia etc.) quando non incontra resistenza dilaga in forme sempre peggiori: pensa a cosa ci prepara nell’immediato futuro il cocktail di diseguaglianza crescente e offesa esponenenziale alla natura, ad esempio. Ecco, è in quello spazio di ferma opposizione all’ingiustizia, in quel “come se” (fosse possibile eliminare l’ingiustizia…) – è un altro modo di descrivere l’utopia – che si può scavare, e nasce il meglio dell’umanita: la poesia e appunto l’amore. E per tornare a Pasolini, certo, non ci sono “secondi fini”, come non ce ne sono in Sciascia, ma c’è un impegno radicale, una denuncia costante, che passa persino attraverso il proprio corpo, nel senso che, almeno a tratti, e nei tratti più sublimi, la poesia coincide con la politica (e lo stesso vale per Simone Weil, Chiaromonte, Camus, etc.).
Pintor, Rossanda. Mi viene da sorridere, con me stesso. Non ho amato né “Servabo” né “La ragazza del secolo scorso” (ma mi hanno divertito, interessato, e non poco). Pensavo ai loro articoli che, quelli sì, mi hanno spesso aiutato a mettere a fuoco alcuni problemi cruciali. Ora, leggendoti, mi è venuto da riformulare alcune questioni: può uno scrittore combattere l’ingiustizia con la propria parola scritta? Pasolini o Sciascia, per restare a quelli già evocati, ci dicono appunto di sì. Può questo impegno andare al di là della scrittura, implicando delle precise scelte di vita? Si – rispondo sempre con Sciascia e Pasolini, ma anche con gli altri da te evocati, e poi (tanto per fare un po’ di clamore) aggiungo Orwell, Hemingway, ma potrei continuare, la lista è lunga… Ora quell’impegno oggi, in Italia, manca. Ed è piuttosto questo, credo, il punto del nostro dissenso: una diversa valutazione del pericolo “fascista”. In questa prospettiva, noto, e mi sembra significativo, che diversi italiani “di fuori” mi hanno ringraziato per il sollievo che hanno ricavato da questo articolo, che assumevano in pieno; quasi tutti gli italiani “di dentro” (con qualche eccezione, un paio, pubbliche, le trovi anche disperse fra i commenti) hanno in un modo o nell’altro schivato il nocciolo della questione che pongo: esiste un pericolo fascista che richieda, anche e innanzitutto da parte di chi possede l’arte di mettere insieme le parole scritte, una vigorosa, costante, persino rischiosa presa di posizione?
Quanto agli italiani che non sono “fanatici”, ci andrei piano con le generalizzazioni (lo dico proprio io che ho dato inizio al gioco): quel che dici è anche vero, ma basta un niente e si ricade in quell’ “italiani brava gente” che è stato furiosamente scosso durante la seconda guerra mondiale (Etiopia, Jugoslavia, etc.); e poi quest’arte dell’accomodamento non è una qualità, non sempre almeno, ma anche un possibile terreno, rieccolo, per il fascismo all’italiana. Saba diceva che gli italiani erano l’unico popolo ad avere come mito o leggenda d’origine non un parricidio ma un fratricidio (Romolo e Remo); per questo avrebbero come vocazione non la rivoluzione (simbolica uccisione del padre) ma la guerra civile:“…vogliono darsi al padre, e avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli” – o anche, aggiungo, vogliono arroccarsi sulla propria famiglia, anche a costo della propria libertà, disinterressandosi di tutto il resto: non è stato anche questo atteggiamento a spianare la strada a Mussolini? Quanto alla frase che gli viene attribuita (non è difficile governare gli italiani, è inutile – ma forse è di Giolitti, che anche lui…) è sintomatica dello spirito antidemocratico: e tutti i dittatori finiscono per odiare il popolo che a un certo punto – finalmente! – si decide ad andargli contro…. E poi (torno sul fanatismo) la presenza incontrastata della Chiesa (la Controriforma senza la Riforma) non è ottimo terreno per il più pervicace dei fanatismi? Come spiegare altrimenti l’aspetto più ideologico delle Brigate Rosse (il primo nucleo del resto proveniva dalle fila dei Cattolici!), o di altre forme estreme di clandestinità armata (in anni in cui l’Italia era per altro molto migliore di quella odierna!), che non hanno avuto pari in Europa?
Last but not least. Le “fratrie” di Chiaromonte (che molto amo), certo, mi appartengono profondamente, e come te ho orrore delle avanguardie che si autoeleggono migliori, “pure e dure” (come si diceva un tempo).. Ma queste microcomunità libere, di nuovo, richiedono rischio e coraggio, scelte, cioè rinunce: se ne è già discusso con altri in alcuni commenti precedenti. Se non c’è scelta, se non c’è rischio, questo resta un pio proposito (come la confessione in Chiesa di cui dicevo prima), o soltanto una comoda nicchia per privilegiati. Comunque credo che, ciascuno a suo modo, sia senz’altro una strada da percorrere, quella in ogni caso cui aspiro e che a tratti ho provato, provo a praticare, con alti e bassi. Il che tuttavia non esclude la propria presenza, la propria voce, “anche” nelle battaglie che si fanno nella società. Perché se rinunci a intervenire nella storia, in quel che si muove appunto nella società, la storia, la società ti impongono le proprie scelte, e finiscono per “romperti” loro, per travolgerti, travolgendo anche i preziosi piccoli gruppetti, le microcomunità – materiali e ideali – che sei riuscito a creare. Come recita la fine della famosa poesia attribuita a Niemöller, a volte a Brecht: “poi vennero a prendere me / non era rimasto più nessuno che potesse protestare”. È quel che mi fa paura dell’apatica società italiana e su cui ho cercato, magari con un linguaggio qua e là sgraziato, di attirare l’attenzione.
p.s. Visto che oramai “viabile” lo hai assunto, e anzi ci concludi addirittura il tuo commento, passo ad “alternativa”. Sì: un’alternativa al capitalismo, e a “questo” uso della modernità! – ma non alla ricerca della palingenesi, bensì perché, molto banalmente, il capitalismo è oramai “in-viabile”, crea disuglianze, guerre e distruzione ecologica, con una megalomania che probabilmente gli storici del futuro qualificheranno di (insana) utopia, come se la macchina fosse impazzita, ingovernabile persino da quelli che ne traggono profitto, tanto che oggi alcuni capitalisti lungimiranti questo capitalismo lo giudicano loro stessi impraticabile, quantomeno da riformare. Non si tratta di creare il paradiso su terra, ma di riconsiderare il modo di sfruttare e distribuire ricchezze, lavoro, energia in un mondo che, nell’arco delle nostre vite, è passato dai due miliardi dell’inizio anni Cinquanta agli otto di oggi. L’utopia – quella cattiva – è pensare che si possa continuare indefinitamente così. Di contro, stare dentro questa battaglia di cambiamento, ben prima che per eventuali considerazioni morali o idealiste, mi sembra necessario innanzitutto per un istinto di buon senso e di ragionevolezza…
Voglio, seppure tardivamente, ringraziare Giuseppe A. Samonà, non solo del lungo intervento che ha scritto, e che ho messo quasi con sollievo – andava a colmare un silenzio inadeguato, “brutto” – ma lo ringrazio anche per avere con grande generosità e passione nutrito la discussione che è nata a partire dal suo pezzo. L’ampiezza di temi che i commenti ahnno sollevato (a torto o a ragione, poco importa qui) mostra come, sul piano dello sguardo sia storico che rivolto all’attualità, i fantsmi di tutti i tipi ci abitano, noi italiani, nel momento stesso in cui cerchiamo di scavare nelle ragioni collettive che danno forma a qualcosa che assomiglia a un destino comune. Scrivendo ora, dopo lo scambio densissimo, tra La Porta e Samonà, sarei portato a mia volta a intervenire sulle cose che si sono scritti in questa fase della discussione. Mi limitero’ a tre osservazioni succinte.
Il legame vigliaccheria-fascismo-eredità-sempre-viva-del fascismo è davvero un punto importante. Ed è qui che bisognerebbe iniziare non tanto a indignarsi, ma a scavare: “paura” di cosa? E perché cosi tanta paura? (Che fa tacere, che ci rende allineati, ecc.)
Non sono d’accordo con La Porta sulla questione “stile”. Ma qui ha già risposto Samonà. Se Giuseppe non si fosse “arrischiato” nella scrittura di questo suo pezzo, non sarebbero neanche emersi i passaggi senz’altro più forti e lucidi, come quello – tra gli altri – che riguarda l’ultima parte, su cittadinanza secondo sangue o suolo. Sono d’accordissimo con La Porta, che parlare dell’attualità significa inevitabilmente imbarcare un vocabolario in parte guastato, ma in certi casi bisogna accettare di lasciarsi guastare per “andare avanti”, per poter continuare a pensare e discutere. Sopratutto se, come lui stesso riconosce, nel caso di Samonà non si perseguono vantaggi e ritorni immediati.
Infine. E’ vero, ognuno si porta dentro di sé un vigliacco prevaricatore in camicia nera. Ma il punto non è tanto sconfiggerlo una volta per tutte (zone di santità ed eroismo un po’ troppo remote), ma rendersene una volta per tutte il più possibili consapevoli, nel momento in cui si cercano occasioni collettive di continuare questa battaglia con il fascismo fuori di sé.
Sarebbe molto utile e promettente (quanto sono ingenuo e ottimista!) svolgere un incontro pubblico in cui poter affrontare questo problema – sempre più grave, alla luce degli episodi di violenza di vario tipo (fisica, psicologica, politica) che si stanno verificando in questo periodo: pian piano il fascismo sta mettendo radici.
Irresistibile (ultima?) osservazione a Andrea Inglese e Christian Palmas. Quanto dice Andrea I. sul “vigliacco prevaricatore in camicia nera… dentro di sé” etc. amplifica ma nel contempo contiene, “corregge” uno spunto di La Porta, in una prospettiva che mi sembra utilissima. Perché se questa diciamo auto-analisi resta appunto al livello individuale, se cioè – proprio come suggerisce AI – non si aggancia ad “occasioni collettive” etc. rischia da un lato di avere – come dicevo proprio a LP – lo stesso valore della confessione in Chiesa, dall’altro, ed è quel che è successo a tratti in questa discussione, si finisce con il perdere di vista la questione che ho cercato di delineare nel mio articolo. Non volevo infatti genericamente riflettere sul “prevaricatore” che è in noi – riflessione nobile e importante, ma che ha a che fare più con la filosofia del male e l’umanità tutta che non con l’Italia – né men che mai produrre una sorta di antropologia fisico-biologica suggerendo che gli italiani siano “naturalmente” portati al fascismo. No, la mia prospettiva è quella dell’antropologia storica e della storia tout court, e riguarda l’Italia: c’è qualcosa nella storia appunto di questo paese che lo rende particolarmente favorevole a sviluppare forme nuove eppur simili di fascismo? La consapevolezza cui alludi, Andrea, dovrebbe principalmente originarsi nel coraggio (cioè il contrario della “paura”!) di guardare collettivamente dentro la propria storia: un lavoro di memoria, insomma, che in Italia è, a livello di educazione, terribilmente deficitario. Quanto a Christian P., condivido la sua inquietudine, e vorrei essere ancora più ambizioso: il dibattito pubblico, perché abbia veramente senso, dovrebbe promuoversi al di là del nostro cerchio ristretto, e investire il più possibile la società. Chissà che l’inaspettata elezione di Elly Schlein, che pur non essendo certo la soluzione è senz’altro un sintomo positivo, non crei nuove occasioni per questo sano discutere e agire, dentro la sinistra riformista o radicale che sia.
Caro Giuseppe, non mi spingi al suicidio, perché condivido in pieno le tue riflessioni, quindi dovrei essere già sulla strada. Non voglio fare un lungo commento, solo affermare che sono contento che tu me l’abbia mandato oggi (6 marzo) perché ritengo che qualche cambiamento si possa intravedere. Dopo la disastrosa votazione del 25 settembre ho ritenuto che la cosa utile da fare per me fosse di riiscrivermi al Pd (anche se alcuni amici, come te, lo ritengono un partito irredimibile); però l’elezione di Elly Schlein, che ho votato, sembra che abbia generato nei giovani un entusiasmo da tempo sopito, e questa grande manifestazione a Firenze mi ha molto colpito e mi appare molto significativa. Un grande abbraccio
Caro Cesare, ri ringrazio per il tuo breve ma sapido commento, che mi permette di aggiungere qualcosa che mi sta a cuore: io in realtà non so se e come il PD sia “redimibile”, non sta a me dirlo, so però che la sorprendente e in certo senso rivoluzionaria vittoria di Elly Schlein ha – come giustamente dici tu – risvegliato un entusiasmo da tempo sopito – e me ne rallegro molto, è la prima nota positiva a sinistra, e dentro la società, da mesi, anzi da anni. E mi dico che forse non è un caso che questo accada per grande merito di una donna trinazionale nata e vissuta per molti anni all’estero. È un po’ la mia ossessione, lo ammetto: ma credo che solo aprendosi, individualmente e collettivamente, a coloro che arrivano da fuori (e lo scrivo a ridosso dell’ultima spaventosa tragedia, per la quale la destra al potere ha terribili responsabilità) l’Italia possa cambiare direzione. Un abbraccio anche a te.