Storia di un fiore

di Francesca Caponi

Malalbergo, maggio 1944

Teresa appoggia l’indice sulla sua giovane bocca appena in tempo, un altro secondo e la goccia di sangue sarebbe scivolata dal dito ai pantaloni del fratello che tiene sulle ginocchia. C’è mancato poco, pensa succhiando la piccola ferita fatta dall’ago. Non ama cucire, eppure tutto ciò che le resta di sua madre riguarda proprio il cucito: una cesta adagiata sul tavolo accanto a lei con dentro qualche rocchetto di filo, dei ferri con una maglia avviata e aghi di varia dimensione. Tutto quello che le resta della madre che non ricorda. Ciononostante il cucito era sempre stata per lei una mera necessità che niente aveva a che fare con la passione. Chissà, forse sarebbe stato diverso se avesse imparato a cucire da sua madre, invece a cinque anni si trovò a rimbalzare come un grillo da un’anziana all’altra del paese, tutte pronte e volenterose nell’insegnare alla povera Teresina, ognuna a modo suo, ma tutte d’accordo sul fatto che non dovesse usare la mano sinistra per nessun motivo. Così Teresa imparò a cucire con la mano che sapeva usare peggio che però, evidentemente, era quella giusta, e le signore del paese si dettero pace.

Il dito non sanguina più e Teresa riprende a riparare lo strappo nei pantaloni, tenendo ben saldo l’ago tra il pollice e l’indice della mano destra. Sono passati più di dieci anni, ma lei ricorda bene le mani leste e precise delle sue insegnanti: mani nodose, mani fragili, mani corte e piene, mani chiazzate; si muovevano da sole, mentre le signore parlavano e sembravano pensare ad altro, loro continuavano per volontà propria a lavorare, cucire, ricamare e tagliare. Vorrebbe poter essere più veloce anche lei, ma questo giorno le mani le fanno particolarmente male. Pensa con sollievo a quel pomeriggio a casa, ha bisogno di riposare, non solo per il dolore alle mani, ma anche alla schiena. Alza gli occhi verso il letto, abbastanza grande per far riposare sia lei sia il fratello. Ancora poco e potrà riposare, già le sembra di sentire il peso del suo corpo lasciarsi andare sopra le coperte, la tensione alla schiena allentarsi piano piano, come il morso di un lupo che si apre e lascia cadere la preda. Il fratello, spesso, prima di dormire le massaggia le mani e qualche volta Teresa si addormenta così, con la mano tra quelle più grandi di suo fratello. Giulio è appena entrato in casa, senza che la sorella, assorta nei pensieri, se ne sia accorta. In una mano un piccolo mazzo di fiori rossi, il cappello nell’altra, allunga una mano per appenderlo al chiodo accanto alla porta, ma il posto è già occupato da quello, più largo e ingombrante, della sorella, fedele alleato per ombra e sollievo «Cosa ci fai già a casa? Cosa è successo?» Il sussulto di sorpresa di lei si esaurisce in una smorfia di dolore per una fitta alla schiena «Ti sei fatta male?» Le domanda avvicinandosi. «No, sto bene. Ti avevo detto che forse sarebbe cominciato lo sciopero.» Risponde facendo il nodo di chiusura al rammendo e, solo dopo, guarda il fratello. «Quei fiori?» Lui sorride avvicinandosi. «Sono per te. Non pensavo cominciaste così presto con lo sciopero.» Si siede accanto a lei, mette il cappello e i fiori sul tavolo. Passa più volte le mani nei folti capelli biondi e le dita lasciano segni come piccoli sentieri in un campo di grano. Teresa ha finito, ripiega i pantaloni senza alzarsi e ripone ago e filo nella cesta della madre. «Dove sei stato? Pensavo di trovarti a casa.» Giulio non parla, ora si struscia gli occhi, poi le tempie, mentre i piedi si intrecciano tra di loro sotto la sedia. La sorella lo nota e lo incalza. «Allora? Dov’eri?» Giulio sospira e la guarda negli occhi. Lei capisce e il dolore alle mani e alla schiena non ha più importanza, la stanchezza pure se ne torna alla sorgente e concede libero spazio alla rabbia, amica infelice della paura. «No.» Giulio teme quel momento più di ogni altra cosa, più di qualsiasi cosa lo avrebbe atteso dal giorno dopo. «Teresa, ascoltami.» Ma lei non ha intenzione di farlo. «Non abbiamo notizie di nostro padre da due anni, e tu hai il coraggio di lasciarmi qua da sola.» Le sue parole sono un soffio, la furia di un serpente che non può urlare, mentre piccole gocce cadono sul tavolo sotto di lei. Giulio osserva le lacrime della sorella farsi strada sulle guance rosse di sole e rabbia, alcune cadono giù, altre scendono sul collo e finiscono per essere soffocate dal fazzoletto bianco e sporco che la sorella tiene tutti i giorni intorno al collo. Sente qualcosa morire dentro, ma non può farci niente, non può evitare quel dolore alla sorella. Si alza, sposta la sedia in modo da potersi mettere in ginocchio davanti a lei, le prende le mani. Aveva sette anni quando sua madre è morta; ora che ne ha diciannove i suoi ricordi sono sfumati, il volto di sua madre ha perso precisione e spesso gli appare in bianco e nero, il suo profumo è una scia lontana che ritrova ormai solo con grande sforzo, ma la voce e le mani per fortuna sono quelle della sorella. Le dita di Giulio sono sempre sporche d’inchiostro Tue e le tue parole, le diceva sempre la sorella con ammirazione mascherata da ironia quando lui le leggeva qualche riga dei suoi scritti. Era stato il fratello ad insegnarle a leggere e insisteva spesso anche per farla scrivere, lei non ne aveva mai capito il motivo, una mondina non ha bisogno di scrivere e, soprattutto, dopo quindici ore passate con le mani nell’acqua, non ne ha alcuna voglia.

«Ti fa male la schiena?»

«Sempre.» Risponde lei dura.

«Teresa, ascoltami. Devo partire, devo farlo anche per te. Sai cosa fanno i soldati alle donne.» Dice lui sperando in quel modo di farla ragionare.

«Morirai. Morirai e io sarò sola.» Giulio decide di ignorare la cattiveria. È arrabbiata, ha ragione.

«È tutto organizzato, domani mattina prima dell’alba parto con Oliviero e Corrado. Dovremmo arrivare a Montefiorino in un giorno, dove ci aspetta un conoscente di Oliviero della divisione Armando. Ti lascio scritto su un foglio cosa devi fare per contattarmi. Aspetta la fine dello sciopero, stai in casa il più possibile e se dovesse tirare una brutta aria vai via, vai in Piemonte. Ti lascio l’indirizzo della madre di un amico di Oliviero, si è detta disponibile ad ospitarti se ce ne fosse bisogno.» Teresa non lo guarda, fissa ostinatamente il debole fuocherello nel camino accanto alla modesta cucina. Solo la sera prima erano seduti accanto al fuoco, Giulio leggeva a voce alta le sue poesie da un quaderno con la copertina nera e consumata, Teresa ascoltava nella tranquillità ritrovata in quei pochi giorni in cui non avevano più discusso di guerra, di partigiani, di partenze; la calma prima della bufera.

Quella stanza col tavolo, il letto, il camino e la cucina è tutta la loro casa La mia casa, pensa Da domani sarà solo la mia casa. I singhiozzi escono forti dal petto e dalla bocca, il fuoco che sente dentro si indebolisce. Giulio l’aiuta ad alzarsi e l’abbraccia forte: Teresa è poco più bassa di lui, ma in quel momento, mentre bagna di lacrime disperate la sua spalla, le sembra tanto più piccola. La fa sdraiare sul letto e le accarezza il volto «Sei proprio bella, lo sai?» Le dice. La risposta è tagliente come un coltello appena affilato «Bella e sola.» Giulio le prende una mano e comincia a massaggiarla. Poco dopo Teresa dorme.

È notte. Teresa è persa da qualche ora dentro un sonno agitato, ogni tanto Giulio si volta a guardarla e la trova sempre in una posizione diversa. Dovrebbe dormire anche lui, lo attendono ore di cammino e fatica, ma non ci riesce. Le parole e le lacrime della sorella non sono state una sorpresa, ma gli hanno fatto male ugualmente. Si volta di nuovo: la luce della fiamma le illumina il bel volto e rimbalza sui capelli dorati, leggermente più scuri dei suoi. Bella dentro, bella fuori. Lasciarla lo spacca in profondità e in superficie, ha anche pensato di portarla con sé Sei matto aveva detto Corrado Già solo il viaggio è troppo faticoso e poi è più al sicuro qua, alla risaia. Un forte respiro, forse un sospiro, fa vibrare i petali rossi dei fiori sistemati in un bicchiere d’acqua in mezzo al tavolo. Li osserva, li sfiora. Ne prende uno, lo annusa, lo adagia vicino al calamaio. Apre il quaderno e comincia a scrivere.

Il freddo della mattina senza sole prende a schiaffi il viso e le gambe sotto la gonna, ma lei non ci fa caso. Guarda il fratello allontanarsi Non mi volterò, non voglio vederti piangere le aveva detto sulla soglia mentre si abbracciavano. Ma lei non sta piangendo, lascia che il rumore dei passi che stanno portando via suo fratello spezzi il silenzio dentro di lei. Stringe forte i due fogli che Giulio le ha messo in mano prima di salutarsi e quando la sua figura scompare nel buio lontano, rientra in casa e si siede vicino alla luce del fuoco. Nel primo foglio il fratello aveva scritto le istruzioni per essere contattato e un indirizzo di Vercelli. Dal bordo irregolare del secondo foglio Teresa capisce subito che si tratta di un foglio strappato dal quaderno, una poesia, pensa: il fratello le avrà regalato una delle poesie che le aveva letto a voce alta, magari una a cui lei aveva mostrato maggiore attenzione. E invece no, è una nuova, che Teresa non ha mai sentito, non ha mai letto. Legge il titolo, Alla parte bella del mio cuore, e poi via, tutto il resto. Legge la poesia più di una volta, e ogni volta qualche lettera perde un po’ della sua precisione dentro a una lacrima. Legge quella scia dell’anima di suo fratello un’ultima volta, poi la sistema dove deve stare, sul tavolo, sotto ai papaveri. Fa una carezza agli ultimi versi

È questo il fiore del partigiano o Bella ciao Bella ciao Bella ciao ciao ciao è questo il fiore del partigiano morto per la libertà; una carezza alla poesia o al poeta, non lo sa.

Questo racconto si ispira alle principali e controverse ipotesi sull’origine di Bella ciao. In breve, una vede la nascita e la diffusione di Bella ciao durante la Resistenza in alcune aree ristrette come Montefiorino, Bologna, Reggio, Apuane e Reatino e solo dopo, a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta, si sarebbe diffuso nelle altre regioni; un’altra ipotesi la vede nascere da una rivisitazione di un canto delle mondine (Questa mattina mi sono alzata/ o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao ciao/ sta mattina appena alzata in risaia mi tocca andar./ E tra gli insetti e le zanzare/ o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao ciao/ e tra gli insetti e le zanzare/ un dur lavoro mi tocca far. […]). Tuttavia quest’ultima teoria è stata molto contestata e oggi ha maggior seguito l’idea che sia stata Bella ciao ad ispirare la versione delle mondine e non il contrario.

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2 Commenti

  1. Bel racconto, si. E forse se ne dovrebbe scrivere un altro sull’origine della melodia, che fa definitivamente viaggiare quel testo attraverso le frontiere. Qualche anno fa ho sussultato ascoltando per la prima volta koilen, un canto yiddish / klezmer dell’inizio del 900: https://www.youtube.com/watch?v=r0KbSFYbTxA

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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