Palo luce 33

di Anna Caldara

Diceva che ero la sua Jeanne Hebuterne ma non so se lui fu mai il mio Modì.

Erano giorni da cani sciolti e rhum in vena, con l’astinenza che non sapeva più se restare o venirmi a cercare per le strade di quella Milano da bere, o da trascurare, chissà, per riportarmi al solito posto. Al palo luce numero 33. E me l’ero conquistato quel palo a suon di scazzottate con le altre puttane della zona, tutte straniere con tanto di papponi al seguito che però non si immischiavano e ci lasciavano sfracassare tra noi mignotte.

Io non avevo un pappone ma un fidanzato e forse non c’era davvero tutta questa differenza se non la soddisfazione di poter dire e pensare che a me qualcuno mi amava davvero, mica come quelle poverette che una volta a casa le prendevano se avevano incassato poco. Io le botte non le ho mai prese per i soldi, anche perché nessuna guadagnava più di me che ero italiana e, modestamente, mi davo un gran daffare con bocca e cosce, ma le prendevo solo quando lui aveva bevuto troppo e magari ci aveva aggiunto anche qualche sniffatina. Allora gridavo che la doveva smettere, che doveva farsi bastare l’eroina, che non la sopportavo più tutta quella situazione da tossici scaduti e che me ne sarei andata. Anzi, se ne doveva andare lui visto che l’affitto lo pagavo io. Più urlavo più lui si arrabbiava perché mi volevo far sentire proprio da tutti, brutta puttana della malora, e ci dava dentro ancora di più con calci in testa e anfibi rinforzati fino a che stare zitta mi sembrava la soluzione migliore. Alcune volte i vicini chiamavano la polizia ma, anche se lo portavano in questura, poi tornava sempre a casa chiedendo scusa, che non l’avrebbe più fatto e che mi amava e che non era colpa sua ma delle sostanze e che si sarebbe disintossicato al Sert e le solite balle. Io ero una puttana romantica e quelle bugie me l’ero sempre bevute ma scema fino in fondo no e, dopo l’ultima volta, decisi che non l’avrei più fatto entrare in casa. Avrei cambiato la serratura e staccato il citofono e se l’avessi visto solo una mezza volta in quartiere o al mio palo avrei chiamato subito la polizia, i carabinieri e tutto l’esercito messi insieme. Non volevo più rivedere la sua faccia del cazzo perché volevo sentirmi libera di fare quello che mi pareva, anche di non essere più una puttana, e di andarmene in giro tutto il giorno a fare shopping e bere rhum e coca. Di certo io non mi sarei mai ubriacata col vino nel cartone a 0,99 euro della Lidl che chissà quante porcate doveva contenere e che se poi ti stordiva avevi mal di testa per tre giorni. Ne avevo già abbastanza della scura che fumavo su strisce di stagnola e che anzi, in questa mia nuova vita non avrei più nemmeno fumato. Mi sarei liberata da tutte le dipendenze per tornare a splendere nel fantastico firmamento delle luci in ascesa. Largo gente, non c’è nulla di più irresistibile di una ex puttana ingrifata di vita!

E davvero non saprei dire come fosse potuto accadere di ridurci così, a sputarci addosso saliva e bestemmie con la stessa passione con la quale una volta facevamo l’amore. Ci eravamo amati tantissimo anche se lui era un eroinomane ed io, pur di non perderlo, lo sono diventata a mia volta perché volevo sempre stare con lui, addosso come fanno i vermi e, quando mi bucava, il mio cuore scoppiava d’amore. “Sono tua” gli dicevo “puoi anche uccidermi se ti va e se lo farai io non lo saprò mai perché sarà una morte tanto veloce che nemmeno me ne accorgerò”. E quando poi finirono i risparmi, e quando i soldi prestati e poi rientrati sparirono definitivamente, e quando gli sbattimenti per smerciare qualche vestito o almeno uno dei nostri due cellulari, che tanto uno poteva bastare visto che eravamo sempre insieme, o il minipimer perché a quanto pareva gli spaccini avevano sempre bisogno di un minipimer, quando tutto questo cominciò a fruttarci meno di un grammo, e per noi un grammo sarebbe stato comunque poco, quel tanto per tirare là mezza giornata, decidemmo che battere sarebbe stata la scelta migliore. O meglio, decidemmo che io avrei iniziato a battere mentre lui mi avrebbe fatto da bodyguard e mi avrebbe portato un bel caffè caldo nelle notti gelate in cui l’aria si sarebbe divertita a mangiarmi la fica. Saremmo stati l’invidia di tutte le puttane della zona, roba da non credere.

E invece eravamo diventati i nostri nemici pubblici numeri uno e non si riusciva proprio a farlo quel maledetto passo indietro in memoria dei vecchi tempi perché i vecchi tempi se n’erano andati e con loro anche il nostro grande amore. Troppa droga, troppi soldi, troppi uomini, troppa solitudine. Insieme ci saremmo solo fottuti perché non saremmo mai riusciti a salvarci, nemmeno se ci fossero mancati quei nostri abbracci forti, con quell’odore acido di scoppiatura che rimaneva sui vestiti per giorni.

“Sai che assomigli a Jeanne Hebuterne? Te l’hanno mai detto?”

Proprio così mi disse a uno dei nostri primi appuntamenti, o non appuntamenti visto che io avevo preso un impegno con lui mentre lui aveva un puntello con lo spaccino di turno.

“No, non credo. Ma non so nemmeno chi sia”

“Era la donna di Modigliani che si è buttata dalla finestra due giorni dopo che lui era morto”

Non mi sembrava un bel presagio, perdio!

“Vuoi essere la mia Jeanne Hebuterne?”

Gli risposi di no ma nella realtà lo fui e lo seguii più della sua stessa ombra in posti in cui anche le ombre se ne sarebbero andate volentieri se avessero potuto. Vidi uomini in quasi decomposizione con una puzza di carogna così acre da non sapere più se quella che avevo davanti era proprio una persona o una carcassa animale. Vidi donne sbavare per aver fatto una pera troppo piena e altre camminare carponi cercando il figlio che avevano dato in adozione. E non ci si può mica dimenticare di un dolore così doloroso perdio, che a pensarci la disperazione mi camminava ancora addosso.

Avevo bisogno di una fumata di roba per calmarmi.

Non potevo di certo mollare tutto in una giornata, ci voleva organizzazione perché senza eroina sarei stata male come una cagna bastonata e di botte ne avevo abbastanza. E il palo luce 33 non lo potevo mica abbandonare all’improvviso, dopo tutte le lotte intestine che nemmeno i sindacati ne avevano mai viste di così appassionate: il territorio era stato segnato ed ora andava difeso. E poi forse non ero arrivata al punto da odiare così tanto il mio fidanzato o ex fidanzato, chi lo poteva sapere, da condannarlo a dormire in strada, col freddo di Milano a gelargli l’uccello che pure il piscio sarebbe uscito a cubetti.

Ci avrei pensato poi, ora sentivo la nausea salire peggio che a una donna incinta e nessun pensiero poteva essere degnamente pensato senza quella stramaledetta fumatina. Me ne sarei tornata al mio palo luce perché ne avevo lasciata un po’ nascosta in una buca per i momenti di crisi come questo, visto che in casa c’era sempre stato lui che avrebbe potuto fregarmi qualunque cosa, anche i soldi, perfino la droga e farmi rimanere scoppiata. Ma la colpa non era tutta sua, lo sapevo che aveva una dipendenza bestia che se lo gestiva come voleva e quando prendeva una tirannia così c’era ben poco da fare.

Bisognava solo che arrivassi al posto e poi magari due o tre pompe le avrei fatte lo stesso, tanto per avere qualche soldo in tasca veloce veloce. E se poi lo avessi visto lo avrei lasciato a liquefarsi nella sua merda, anzi gli avrei fumato in faccia lasciandolo scoppiato. E se mi avesse chiesto di poter tornare a casa gli avrei detto: “Seguimi se ci riesci, scoppiato del cazzo che non ce la fai nemmeno a stare in piedi”. Ma no, non lo so cosa avrei fatto, piuttosto bisognava pregare che lui non avesse scoperto il nascondiglio che all’occorrenza gli poteva venire un fiuto peggio di un cane da tartufo, e allora addio fumatina. Dovevo sbrigarmi ad arrivare. Il quartiere non mi era mai parso così dispersivo e ancora non lo vedevo il mio palo, anche se era il più alto di tutti, così alto che se ci si arrampicava fino in cima si sarebbe potuto di certo vedere il Duomo di Milano con la Madonnina appesa.

“Ancora uno sforzo, piccoline!”, dicevo alle mie gambe per incitarle al proseguimento dell’impresa, che se mi avessero abbandonata sul più bello sarebbe stata la fine. La scoppia non perdona mica. E all’improvviso ecco la discesa di Cristo sulla Terra con le colombe, l’asinello e il bue a intonare buona Pasqua e buon Natale, ecco l’alleluja del cielo! Il mio palo. Fine della sofferenza. Ora mi ci sarei anche potuta appoggiare, come succedeva nelle serate in cui non stavo in piedi o perché troppo fatta o perché troppo scoppiata. Era il palo più illuminato della zona e anche da un chilometro mi si sarebbe potuta vedere là sotto, con la fica ai raggi X, perfino con la nebbia. Ed era mio, cazzo, mi ci ero battuta per averlo, con le altre puttane della zona e i loro papponi al seguito che ogni tanto si immischiavano pure e ci sfracassavano di botte tutte quante.

Di tutta una vita spesa tra il provare un po’ a resistere e un po’ a morire non mi rimaneva altro che quel misero palo. Il numero 33. E con le nude mani iniziai a scavare la nuda terra con quel poco di dignità che ancora mi rimaneva.

 

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2 Commenti

  1. Colpisce questo racconto per la scrittura tagliente, senza fronzoli che ti precipita in atmosfere cupe, pesanti. Tuttavia si scorge il desiderio commovente di riscatto e di rinascita.
    Ben scritto, non è facile trsmettere delle emozioni in poche righe. Brava.

  2. Aspro, spontaneo e coinvolgente. La disperazione, la sofferenza e la passione descritte sembra quasi di sentirle davvero.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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