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Istoria del piccolo Iom

Istoria del piccolo Iom, da indifendibile a miracolato

In ventidue paragrafi e prosodiche strofe. Nell’Anno del Signore MMXXII

di Salvatore Enrico Anselmi

Caro lettore, questa che mi accingo a raccontare è la storia del piccolo Iom che da indifendibile passò a miracolato. Non ti crucciare se gli eventi ti faranno sgranare gli occhi, portare le mani alle orecchie per non poter più sentire, premere la mano sulla bocca per trattenere le parole, perché di fantastica ma vera storia vorrei narrare. E potrai eccepire come mai di fantastica eppure vera storia si tratti. Te lo dirò immantinente perché la realtà è talvolta la più fervida delle fantasie e supera straordinari eventi che a ripeterli di nuovo ti sembreranno frutto della più improbabile invenzione.

Come titolo avrei potuto anche sceglierne un altro che questo è, se t’accontenti:

“Anatomia di un miracolo. Antefatto, svolgimento e risoluzioni”.

 

 

 C’era una volta,

puntuto negli occhi e nel corpo, spiritato di natura, insinuante e intrusivo per indole, il piccolo Iom, ordinario, perché ordinario era diventato in fondo, incapace d’inventiva propria, che sconfinava nel terreno limitrofo per saccheggiare il raccolto altrui. Perché nel campo del vicino maturavano mele succose, grappoli densi e frutta rubizza in ogni stagione, mentre nel suo campo si potevano cogliere solo bacche, ghiande e frutti secchi, racchiusi da un guscio renitente a farsi aprire.

A forza di ghiande gli era cresciuto il setolame sulla schiena e sulle orecchie diventate pinzute. I denti a sciabola ricurva gli erano usciti fuor di bocca, lustri e taglienti da far paura quando rideva e spalancava la gola, e di quel medesimo, sinistro bagliore gli riluceva anche lo sguardo. Era quello lo sguardo del predatore che, millantando vello e mansuetudine d’agnello, sotto i riccioli lanuti e bianchi, nasconde il pelo nero della sedizione.

Anche la voce, acuta di natura come quella di verginella condotta a prima messa, che sembrava fargli pronunciare solo dolcezze, quando di dolcezze si riempiva l’ugola, s’era intorbidita alquanto. E senza che egli stesso la potesse più controllare gli faceva dire sozze lordure a ogni canto, contro l’uno e contro l’altro, anche se s’erano seduti accanto a mangiar il pasto dal suo stesso piatto.

«No, no! Non è colpa mia, che voce di mio petto e mio pensiero questa non è!» – si schermiva Iom, rosso in faccia – «Forse male l’hai compresa e interpretata perché dorme nel tuo orecchio cerume vecchio, steso a strati come crema di meringa e cioccolato dalla spatola del pasticcere tra i filari del pane di Spagna!»

Divenuto ipertricotico autoreferenziale, egotico celebrante dell’auto-culto, catechista del misfatto e imbonitore mellifluo, Iom arrivava appena al numero civico XV, poi era costretto a deflettere all’indietro perché quando sconfinava verso il XVI e oltre, e ci provava spesso, si perdeva, smarriva l’orientamento, sparigliava le carte, straparlava, dichiarava l’inesistente e spesso era costretto a ritrattare. Rettificava allora i suoi improbabili contorcimenti verbali, i suoi ready-made da pochi soldi, perché erano senza l’estro dell’artefice innovatore.

Allora s’aggiustava sul viso la remissiva maschera del penitente, il cappuccio e la schiena a vista del flagellato, il cero dell’offerta quaresimale, la bussola delle elemosine da devolvere a cuore largo a beneficio del piccolo rimasto senza pane.

Ma era tutta una commedia. Una recita adulta, ma condotta in scena e lì interpretata come se fosse stata nuova e bambina: «Più non lo farò! Lo giuro e lo prometto. Croce sul cuore, libro aperto da leggere e in testa sempre il berretto!»

Ma il pentimento durava sempre per poco tempo e attecchiva con epidermica contrizione. Mentre recitava il fervorino di ciò che si deve fare e di ciò che è proibito, sentiva già pungerlo al fianco la spina che non lo abbandonava fino a quando ne avesse combinata una nuova, peggiore di prima…Come se lo spino, se di spino si trattava, lo punzecchiasse da sotto rendendogli faticosa la seduta e lo scatto in piedi. Come se qualcuno gli spegnesse un ferro arroventato addosso e Iom dovesse saltare in aria per il dolore e combinarne un’altra.

Con manuzze nodose in perenne ricerca di suo vello capillare, ormai caduto insieme alle idee di un tempo, si aggirava per stanze e corridoi, che avrebbe voluto acconciare al gusto suo, curvo da un lato come se il peso di qualcosa che doveva portarsi dentro, lo gravasse alquanto. E tentava di dissimulare, – come conseguenza di sodale meraviglia per il suo interlocutore, – il gonfiore delle sclere fuoriuscite dalle orbite come per incontenibile azione pressoria dal basso e dall’interno. Forse il senso di colpa, il peso della sua non risoluzione identitaria, di casacca, di stemma, di logo, di genere: mai stato padre, figlio non figlio, negletta produzione eiaculatoria di un trasmettitore di geni più sordo di lui, egocentrico al parossismo, dolosamente distratto e assente che diceva sempre: «Chi Iom? Ma quello non capisce niente. Gli dovrò io procurare una bardatura, entrature potenti, fargli conoscere notabili irti di pelo sulla pancia e consenzienti, condiscendenti ad assecondare il mio volere come banderuole che ruotano al mutare del vento. E il vento sono io! Se io non fossi vento, o foco, o tempesta a Iom poco di suo resta come un allocco meravigliato e stolto! Ma per il momento che viva manzo solo e negletto, In tal modo e guisa diventerà più forte»

Iom, quindi, era stato vittima del padre impositore che dapprima non gli aveva assicurato vesti o corposi interessi annuali, ma gli aveva comminato soltanto crudelissimi disinteressi decennali. Malgrado questo, affinché il nome della loro famiglia e il logoro titolo di Gransciamberlani – dell’Imperial – decadimento – etico – di – Cacania – scribacchini non venisse meno, lo sgrullò dalla guazza nella quale l’aveva prima immerso e poi esiliato.

E lo miracolò comunque – «Perché non si dica che io, fondatore del Giornale degli araldi liberi di parola incatenati, abbia fatto perir di stenti la mia medesima figliolanza. Che non si dica mai! Che non si dica! Ne va della buona creanza e fama del mio nome, che non s’appanni mai la luce di mia lanza. Voscenza, Illustrissimo Regnante, Reverendissimo migrante dall’etica insalda alla quale or’ io m’appello per fortificare in rocca il frutto dei mei lombi, quand’ero ancora giovine e bello!»

Mingherlino malvissuto, livoroso, perennemente aggrovigliato all’altezza delle budella strapazzate di scorcio, Iom si aggirava per le strade del centro antico, in pescosa cerca di carne fresca per colmare presto il suo carniere. Spesso i manzi più triviali lo giubilavano con recisa insofferenza e lo mandavano lì nel luogo dove la liberazione del digerito maleodora, impregnando dello stesso tanfo il deiettore che non sa come nettarsi.

Ominide riottoso, Iom non sapeva scrivere, ma s’incaponiva a farlo.

Confuso ricercatore, cantore di pensieri in lasca sequenza, quando parlava per obbligo o per svago, apriva parentesi tonde, quadre e graffe, lunghi marginalia a bordo pagina, senza essere in grado di concludere la risoluzione secondo ordine critico o filosofico. Per cui, a soliloquio concluso, lui stesso non aveva ben chiaro il percorso tracciato. Idealmente imbalsamato, mummificato nel groviglio dei pensieri enunciati oralmente, ci rimaneva dentro, prigioniero della sua stessa costruzione fatta di spalti e torri incasellate. E nessuno, di ciò che diceva e didatticamente sillabava, capiva niente.

L’avrebbero potuto trovare rinsecchito e cadaverico, senza cibo, né acqua, chiuso nello stesso edificio illogico che egli stesso aveva progettato senza porre fine alla lessemica autogenesi, organica e incontrollabile, con cui aveva costruito intorno tetre muraglie e pinnacoli irrazionali.

Iom allora riteneva opportuno non aggirarsi tra gli scaffali di cancellieri o computisteria perché le poche volte che ci si era infilato s’era sperduto e l’avevano dovuto tirare fuori da sotto una pila di faldoni che gli erano rovinati addosso, seppellendolo quasi. Non sapeva leggere personalmente i testi antichi, i documenti di prima mano, le testimonianze dirette, ma si ostinava comunque a farlo ricorrendo all’aiuto di qualcuno, famiglio, sottoposto o prezzolato, che li leggesse in sua vece.

Quando si doveva confrontare con la pagina bianca e vuota, con lo schermo algido e respingente per dare senso al programma di scrittura installato nella sua mente, avrebbe preferito spellarsi le mani senza anestesia perché ogni volta che si accingeva a farlo, s’invischiava in una selva selvaggia, in un ginepraio nel quale infognarsi e disparire. Di solito, dopo aver rimestato per vari giorni tra le parole da usare e le espressioni che potessero far sembrare il suo scritto affidabile e sicuro, s’avvedeva in realtà di aver partorito un’immonda poltiglia, proprio lui, nuovo Tiresia transeunte non più primiparo ma inabile come se lo fosse stato, in preda alla depressione post parto, per aver scritto quello che gli sarebbe stato rifiutato come scarto.

E allora per ripicca scartava lui o faceva patire chi gli presentava testi e studi da poter diffondere e intorno far gire. Gli trovava tubercoli e difettucci, di forma e contenuto. Faceva ribaltar il costrutto anche a chi gli poteva esser, se non padre o madre, sorella o fratello maggiore per anni ed esperienza di ricercatore.

Ma il miracolo si compì lo stesso, – caro lettore, – quando, ricevuta dapprima la porta gracchiante in faccia – «Faccia da indifendibile senza onorificenze sufficienti sul petto!», – Iom innescò, comunque, procedura atta ad esser miracolato. Si rivolse all’ufficio apposito, quello che di fatto nell’oscurità e sottobanco esisteva da tempo. Quello che da sempre esisteva fondato primo corrotto e dal suo corruttore. Sottoscrisse questua e supplica dimostrando di poter sostenere le uscite corrispondenti che avrebbero fatto giungere doni ai giusti destinatari e concludere, con gloria sicura e squilla di tromba, la procedura.

Il sovvertimento della vicenda, secondo retto cammino, avvenne quando, su coloro che l’avevano allontanato perché ritenuto stitico produttore di stocastici contributi, di stentate indagini e di frastagliati studi, egli cominciò a riversare regalie e doni da far sciogliere il sangue rappreso del santo, da far sorgere il sole due volte al giorno, da far giudicare inetto il prolifico lavoratore e onesto il corruttore di sempre.

Le rade medaglie che portava in petto si moltiplicarono, piccole, grandi, incrostate di pietre rare e rai a saetta, come se da sempre Iom fosse stato orafo, abile ed esperto, incastonatore di algide perle e preziosissimi ori. Onorificenze e gloria diventarono viatico perfetto per salire in alto, più di Psiche o meglio ancor di Ganimede, che pressato dall’augusto usbergo, da sempre prende e mai recede.

Fu così che tutte le sue critiche produzioni che parlavano di segni zodiacali e dei suoi contrari, dell’arte del venare ma anche dell’ecologica conservazione d’animali, del verde stinto e della bava di lumaca usata come solvente, sì insomma del tutto e del niente, del suo effetto e del suo opposto, furono considerati grande prodotto di mente che poteva appartenere a un professorone d’ordinaria, elevatissima complessione.

Fu presa tosto decisione.

Fu così che i capitoletti isolati, i brevi contributi e gli articoli mal titolati divennero per prodigio considerati ognuno tomo lungo e ben relato, tale da esser consigliato in lettura sia allo studente capace che a quello annoiato. In tutte le accademie del regno e dell’impero, di notte, di giorno e all’imbrunire gli scritti di Iom ognun dovea sorbire insieme al latte caldo prima del riposo o come bevanda che corrobora dopo che il sole è sorto in suso.

Ora Iom – circondato dal debole di cuore e d’intelletto, dalla sposa del famiglio impresentabile per schiatta e nome, fatta comunque salir da questi ad alto grado, insieme al mostruoso Occhidipalla, rimasto greve e parassita di sua donna diventato, – s’è messo a studiare l’effetto che dal bosco di querce l’intelletto committente ha fatto suo per tirare su palazzi e regge avite. Anche se di tale ardimentoso cimento il gruppo di aiutatori niente sa e niente ha mai saputo perché di regge e palazzi tirati su dagli uomini di farnia mai niente ha studiato e conosciuto.

E se atlantico, enciclopedico sapere da tali imprese si caverà, stai attento gruppo ardimentoso, perché se non si deduce bene, per dovere e creanza da dove è stato tratto tutta l’informanzia, il preludio, tesi, svolgimento e conclusione con giusto nome e giusta citazione, solo un altro miracolo salverà. Ma dopo il primo, il secondo e il terzo prodigio ben donato, il ciel che già troppo ha erogato forse non più così benigno tornerà a mostrarsi. Perché la sorte, più volte manipolata, stretta ora alla spada di giustizia punitiva s’abbrancherà alla rudimentale, violenta mazzolata che il deretano ossuto o pingue, ancora integro o già rotto da percosse, a gran voce chiede.

Attenti che lo chiede lui, a gran voce, a gran voce! E presto peste saran tutte l’osse!

 

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1 commento

  1. Ringrazio di cuore Gianni Biondillo e Nazione Indiana per aver accolto e pubblicato il mio racconto semiserio sul piccolo Iom. Credo sia una lettura adatta a concludere l’anno, in vista del nuovo, sorridendo e allo stesso tempo concedendo spazio alla riflessione.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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