Tungsteno

di Fabio Rodda

 

Alexander si era sciacquato il viso e aveva buttato giù un bicchiere di samogon con qualche fetta di pane nero e carne essiccata. Lo aveva diluito con l’acqua presa nel secchio vicino alla grande stufa, che da ottobre a marzo non si spegneva mai. Lo allungava perché il suo samogon era il più forte della regione, lo sapevano tutti: lui distillava una volta sola e non tagliava tutta la testa e tutta la coda. Una roba per veri uomini. Aveva visto amici svenire dopo solo quattro o cinque bicchieri del suo samogon. Era per il veleno, si lamentavano loro. La parte migliore, secondo Alexander. Fuori era ancora buio. 24 sottozero, diceva il termometro sulla porta di casa. La pelle si tende fino a rompersi, se non la copri con il grasso di foca o di balena. Aveva preso il sentiero per raggiungere la fermata dove gli altri sarebbero passati a raccoglierlo. Mezz’ora di cammino, poi il sole era sorto e aveva acceso il bianco improvviso, il bianco che acceca. Alexander era salito sul UAZ già fermo a bordo strada. Lo aspettavano Artyom, Mikhail, Ivan e Andrey, che, come al solito, guidava il furgone. Ivan gli fece posto vicino al finestrino. Due chiacchiere, niente di nuovo nelle poche ore che ognuno aveva passato lontano dalla miniera. Poi, solo luce che bruciava gli occhi e faceva saltare i nervi. Alexander aveva promesso a Zhanna che non avrebbe bevuto samogon al lavoro, né vodka, né nessun intruglio che gli amici avrebbero certamente portato. Ma quel bianco, quel bianco gli entrava nel cervello, si faceva strada scavando dalle retine fin nei punti più oscuri e segreti e poi tutto diventava luce che abbaglia la ragione, che stana i pensieri, che non da tregua. Mikhail gli passò una bottiglia torbida. Aveva promesso a Zhanna: quel giorno a casa c’era Maxim. Fece un lungo sorso, poi tornò a guardare fuori quel mare di fuoco bianco che adesso faceva appena meno male, dietro le iridi quasi trasparenti.

Zhanna stava rassettando casa, spazzava il pavimento di legno e aveva sul fuoco lo stufato di carne, piselli e cipolle. Iska sarebbe arrivata prima di pranzo con Maxim: doveva andare in città, aveva un colloquio di lavoro e Dmitriy era in fabbrica. Oggi avrebbe dovuto lasciare Maxim coi nonni tutto il giorno, il viaggio era lungo, sarebbe tornata col buio, non c’erano alternative. L’aveva chiamata una settimana prima, per dirle che aveva bisogno di aiuto. Zhanna era ubriaca, ma non ancora così tanto da non riuscire a parlare e aveva promesso a sua figlia che si sarebbe occupata del nipote. Era un giorno solo, non c’era problema. Aveva portato in casa più legna del solito, che la stufa fosse bella calda per il piccolo. Sarebbe stata contenta, sua figlia, di vedere il cibo sul fornello e sentire che caldo usciva dall’enorme stufa. Sarebbe stata contenta, almeno una volta.

Iska era inquieta. Non avrebbe voluto lasciare Maxim coi suoi, ma non aveva scelta. O, meglio, forse avrebbe potuto chiedere a Katya, ma Dmitriy aveva così insistito: per una volta, non potevano i suoi genitori fare i nonni? Non sarebbe neanche rimasto per cena, loro figlio. Era assurdo che non potessero mai contare sull’aiuto della sua famiglia, lei che ne aveva una. Katya già stava con Maxim tutti i pomeriggi e non voleva in cambio nient’altro che qualche torta e dei grazie. Era troppo chiederle di prendersi un giorno da lavoro, un permesso dall’emporio di Mirjana, per badare a Maxim. C’erano i nonni. Non avrebbe nemmeno dovuto deviare di molto dal tragitto per andare in città. Quel colloquio era importante, avevano bisogno di soldi. Fosse andato bene, avrebbero subito pensato a tutto, a cambiare casa, ad andare in città. Sarebbe stato meglio anche per Maxim. Per una volta i suoi sarebbero stati responsabili: si sarebbero comportati da nonni.

Ogni giorno, spaccare lastre di granito per tirarne fuori wolframite, pezzi neri o rosso cupo di roccia da cui estrarre il tungsteno. Per farci i fili delle lampadine. Almeno così dicevano gli altri, giù in miniera. Alexander odiava il tungsteno, odiava la luce. Non bastava quella riflessa dalla neve per otto mesi all’anno? Non bastava quel bianco accecante tutto attorno? In casa, teneva accese solo candele e lampade a olio. Odiava il tungsteno e la polvere di roccia che s’infila ovunque, che non si lava mai via del tutto ed entra nei polmoni, nei pori della pelle che diventa dura, ruvida e scura.

Quel giorno aveva chiesto di fare solo mezzo turno. Dopo pranzo, sarebbe andato via con Andrey, che doveva tornare verso Abaza a recuperare dei martelli pneumatici in riparazione e gli poteva dare un passaggio. Stavano salendo sul montacarichi che li portava in superficie. Andrey tirò fuori una borraccia, levò il tappo e fece un sorso. La passò ad Alexander. Aveva promesso. Ne avrebbe bevuto solo un goccio.

Quando Iska salutò il piccolo Maxim, che dormiva tranquillo vicino alla stufa, sentiva lo stomaco pesante. Sua madre era stata carina: la casa, se casa si poteva chiamare, era quasi pulita e nell’aria c’erano caldo buono e odore di stracotto. Restò a guardare suo figlio, il suo naso così piccolo, come le orecchie. Era così bello, Maxim. Così perfetto. Salutò sua madre, si raccomandò ancora. Zhanna la rassicurò di nuovo e la accompagnò alla porta. Iska salì sul piccolo fuoristrada, il motore sempre acceso: bastano pochi minuti, già a fine autunno, per far ghiacciare le parti meccaniche e dover lasciare la macchina ferma fino al disgelo. Rimase qualche istante a guardare quella stamberga che ancora oggi visitava i suoi incubi. Sognava, sempre più di rado per fortuna, quell’odore. L’odore strano che aveva sentito venire dal piano di sotto. Si era svegliata per un rumore improvviso, un guaito nel silenzio e aveva sentito quell’odore, quel puzzo che non capiva. Suo padre era così ubriaco da aver appestato l’aria coi miasmi di mele marce e zucchero che si mischiavano a un tanfo acre come quello della lana bruciata, ma più sporco, un flato sulfureo che non conosceva. Era scesa a piedi nudi sulle scale di legno senza far rumore e, nel vuoto tra i gradini, aveva inquadrato sua madre addormentata sul divano. E poi l’aveva vista: Nevà, la loro cagnolina, bruciava nella grande stufa. Suo padre, il volto sfigurato dall’alcol e dalle fiamme, la guardava arrostire senza dire una parola. Iska si era tappata la bocca per trattenere un urlo. Era tornata di sopra, si era chiusa in camera, certa che quella sorte, fra poco, sarebbe toccata anche a lei. Tratteneva il respiro, ma quell’odore, quella peste s’infilava da ogni interstizio fra la porta e i muri e il pavimento e per quanto lei avesse riempito con le sue felpe e i maglioni tutte le fessure, quel fetore era entrato nella stanza e non l’avrebbe lasciata più. Si addormentò per terra, la schiena appoggiata alla porta. La mattina dopo, non aveva avuto il coraggio di chiedere niente. Sua madre disse che la loro cagnolina, col buio, era stata male e suo padre l’aveva aiutata. Lei non rispose. Nevà stava bene. Le aveva dato lei, come ogni sera, la buonanotte e lei stava bene. L’aveva guardata coi suoi occhi buoni e si era nascosta nel fondo della cuccia, nell’angolo più facile da scaldare. Forse, quella notte faceva troppo freddo e Nevà si era lamentata. Forse, aveva abbaiato e suo padre, che quando puzzava di mele andate a male diventava un’altra persona, si era infuriato. Iska aveva sei anni, come Nevà: erano cresciute insieme. Quella mattina, non disse nulla e non pianse.

Si scosse. Respirò a fondo e guardò il fumo uscire dal camino di ferro arrugginito. Era passato tanto tempo. Infilò la marcia e partì per andare in città.

Alexander era tornato a casa ubriaco. Meno di tante altre volte, ma comunque ubriaco. Zhanna lo aspettava in cucina. Gli mise davanti una scodella di stufato e aprì una bottiglia di vino: se doveva sopportare suo marito in quelle condizioni, non poteva farlo da sobria. Maxim dormiva.

Poi, si svegliò e cominciò a piangere.

Le grida del bambino. Quel suono era come la luce bianca del mattino, abbacinante, che penetrava nel cervello e andava a scavare fra i pensieri più bui, che non aveva pietà e illuminava tutte le miserie della mente. Fuori, il sole era tramontato e Alexander aveva trovato, come ogni sera, un po’ di pace nella penombra. Ma quelle grida, era come se, ad ogni strillo, un po’ di luce bianca s’infilasse dietro gli occhi, fra i bulbi e il cervello, come filamenti di tungsteno incandescenti che scavavano nel cranio, come le trivelle che usava tutti i giorni, giù in miniera. Maledetta luce e maledetto quel pianto insopportabile.

Zhanna era stanca per il vino e per le botte di Alexander, furioso di samogon e delle urla di Maxim. Era riuscita a calmare il piccolo, finalmente. I suoi occhi grandi le ispezionavano silenziose rughe scavate anzitempo. Si era addormentata col nipotino stremato a fianco.

Iska aveva fretta, voleva passare a prendere suo figlio e correre a casa: avrebbe fatto in tempo a cucinare qualcosa per Dmitriy. Avrebbero brindato alla bella notizia con del vino buono. Dovevano cercare casa, organizzare il trasloco. Ma ci avrebbero pensato domani, adesso bisognava festeggiare. Adesso, voleva solo prendere Maxim e andare via. Doveva allontanarsi da lì, da quella baracca che illuminava coi fari della sua Lada. L’ansia, che da qualche minuto le chiudeva lo stomaco, le diceva di sbrigarsi a entrare e andar via. C’era tanto fumo, lì attorno. Troppo fumo. Parcheggiò davanti a casa dei suoi, il motore acceso. Il camino stretto sbuffava nuvole dense e scure che rotolavano davanti ai fanali puntati sulla porta di legno. Iska scese dalla macchina, sentì il freddo. Poi, le sue gambe cedere sulla neve compatta, mentre le narici si riempivano di quell’odore.

 

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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