Autodafé nell’acqua: su Dovunque acqua sia voce di Domenico Brancale
di Lorenzo Mari
Ci sono molti modi sbagliati per provare a parlare dell’ultimo libro di Domenico Brancale, Dovunque acqua sia voce (Edizioni degli Animali, 2022). E non si sta necessariamente parlando di modi di vento e di terra, perché, se è pur vero che nel libro dominano acqua e fuoco – «Numerose poesie bruciano in fondo all’acqua» è la citazione, dall’interno del volume, opportunamente riportata nella bandella –, questo non toglie che la “voce” sia un fatto di anima/ánemos, dunque alito di vento, e trovi, sempre, radice materiale, terrestre, in un corpo. Questo, Brancale lo sa bene e lo propone di continuo nel libro, la cui alchimia è innanzitutto alchimia del testo e della voce, prima che alchimia in senso tradizionale o esoterico.
Un altro modo sbagliato potrebbe essere quello di evocare la trama intertestuale del libro, andando a pescare la «lista di medicine» (p. 44) che Brancale offre nella sezione “Autobiografia dell’acqua” – titolo, peraltro, che poco ha a che spartire e di sicuro non è in relazione agonistica con la nota Antropologia dell’acqua (Donzelli, 2010) di Anne Carson. Certo, a «una fiala di Dostoevskij, una supposta di Flaubert, tre compresse di Walser, infusione di Kafka, sette gocce di Bernhard, pomata Lispector» (p. 44) si potrebbero aggiungere gli echi degli autori che Brancale ha tradotto e che sono riportati nella sua biografia – Cioran, Giorno, Royet-Journod, Scelsi, Artaud – e ancora i molti altri che si stagliano con maggior nettezza nelle pagine di questo libro: Friedrich Hölderlin, Thierry Metz, José Bergamín, Rubina Giorgi, John Berger, John Giorno… Quello di Brancale è un taccuino – alla maniera del Taccuino nero di Joë Bousquet, senza dubbio – ma non è certo un centone dominato da una volontà enciclopedica o indicale, da un tentativo, di qualche tipo, di narcisistica autoconferma. Tutt’altro, la sfida è intesa in modo più assoluto, nel senso della libertà dai vincoli (anche da quelli del canone letterario), come si legge, ad esempio, e sempre a proposito di Bousquet: «Forse il solo modo di opporre resistenza alle condizioni dell’esistenza è imprigionare il proprio pensiero. Joë Bousquet: devo molto a questo poeta, alle sue gambe i libri che mi hanno lasciato camminare» (p. 17).
Paradosso e rovesciamento non sono mai sacrileghi, in Brancale, se non nella misura in cui restituiscono una certa dimensione sacra. Il sacrificio è dappertutto, anzi, e il primo a cadere è, naturalmente, l’io: l’Autobiografia dell’acqua non può essere mai “autobiografia” in senso stretto – se non per ricordare che, appunto (e nonostante una sempre più implacabile messa a nudo della propria vicenda esistenziale, nel corso delle pagine del libro di Brancale), anche il genere autobiografico si regge su uno specifico patto con il lettore e non su un qualche tipo di referenzialità “dura” – e, soprattutto, dell’io bisogna liberarsi. Un insegnamento della mistica, questo, e di tutti quegli autori e autrici che con la mistica si sono misurati – come Cristina Campo, della quale si sta avvicinando il centenario della nascita, celebrato in anticipo dalla casa editrice Ripostes, che ha rimesso in circolazione già da qualche mese Cristina Campo in immagini e parole, curato, a suo tempo, anche dallo stesso Brancale – ma anche un insegnamento del buddhismo, cui certi passaggi del libro sembrano puntare, e soprattutto insegnamento dell’asino.
«Ih-Oh» dice l’asino che non sa dire “io”, se non a suo modo «Ih-Oh, Ih-Oh e io non voglio più essere Ih-Oh, non voglio più l’essere» (p. 80) – scrive Brancale ritornando sui passi del suo precedente libro, Scannaciucce (Mesogea, 2019), ma anche all’amore per gli asini di un autore come John Berger. In fondo, bisogna «Credere all’asino che vola. Fino alla fine. Fino alla voce» (p. 80) ribadisce, poco sotto, Brancale, usando quei giochi di parole, anche minimi, che ogni tanto si possono rintracciare nel testo, a testimonianza di una dolcezza – che, non per questo, è falsamente consolatoria – che resta e resiste tra quelle righe che, per altri versi, si confrontano di continuo con il dolore, la morte e, in genere, l’inappartenenza della vita per chi vorrebbe possederla.
Di nuovo, sulla stessa pagina: «Intendere il raglio è riscoprire la propria identità nell’altro, scoprire nel volto umiliato della bestia l’invisibile divino» (p. 80, corsivi nell’originale). L’autodafé continuo e sincero di Brancale – di quell’unica sincerità che è possibile in poesia e che non ha niente a che fare con l’immediatezza viscerale di certa lirica anche contemporanea, ma che è “senza cera”, come il miele più puro, quello che non ha messo alcuna cera di essere altro, e quindi, traslitterando, non ha alcuna faccia – è, innanzitutto, apertura all’altro. E dunque anche a linguaggi altri: Brancale non soltanto non esibisce alcuna saggezza canonica, se non per farne un uso totale, nel campo della letteratura, ma non lo fa nemmeno nel campo delle arti visive – di cui pure l’autore è esperto conoscitore e praticante, come testimonia il suo lavoro per la collana Prova d’Artista della Galerie Bordas – e questo lascia spazio all’altro che abita questo testo. I tre preziosi acquerelli di Miquel Barceló, artista che non ha bisogno di presentazione, restano incastonati nel testo e al tempo stesso assoluti, senza vincoli. Solo così lasciano trasparire gradualmente alcune forme nell’acqua: emerge qualcosa, ed è l’altro.
È anche per questo, – per la fascinazione di un testo che, finalmente, parla! – che in questa piccola nota di lettura si è voluto procedere più che altro per negazione: qualcosa emerge, sicuramente, ed è tanto, ma è qualcosa che va ascoltato come esperienza nuova e irripetibile di ciascuno, nel fare dovuto spazio ai colori dell’acqua di Miquel Barceló e alla voce dell’acqua di Domenico Brancale.