Democrazia e riscaldamento climatico: oltre la politica dei piccoli gesti
di Andrea Inglese
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Suicidio come soluzione ecologica
Si potrebbe pensare che i Ginks – Green Inclination, No Kids – siano l’avanguardia nella lotta contro il riscaldamento climatico. Certo, la scelta di non riprodursi per non moltiplicare il consumo di energia, l’inquinamento, la distruzione della biodiversità è radicale e ammirevole. Dando però un’occhiata alle cifre, non dal lato tanto dei volonterosi cittadini dalla propensione verde, ma dal lato multinazionali delle energie fossili, questi sforzi pur eroici rischiano di apparire lillipuziani. Forse si potrebbe fare di più: piuttosto che differire la riduzione dell’impronta carbonica individuale nel futuro (impedendo nuove nascite), si potrebbe procedere a un più efficace Green Suicide, ovvero ci si toglie di mezzo ora, azzerando la nostra triste contribuzione all’emissione di gas serra, ed inoltre si tronca la domanda energetica, che giustifica tutte le turpitudini delle multinazionali. Anche questo ragionevole piano, però comporta un rischio. Chi ci assicura che gli Elon Musk rimasti in vita, la cui contribuzione al riscaldamento climatico è proporzionale alla loro ricchezza, non ne approfittino per estendere ulteriormente la loro impronta carbonica? E decidano – nelle autostrade che il nostro sacrificio estremo ha lascito sgombre – di far circolare SUV a motore diesel senza conducente ma con l’algoritmo della guida automatizzata? Sarebbe una bella fregatura. Essersi ammazzati, per permettere ai i più ricchi “senza propensione verde” di godersi da soli il pianeta prima della catastrofe.
La scienza (da sola) non ci salverà
La questione climatica è la questione politica del secolo XXI, ma non ci riguarda, perché non vogliamo, non sappiamo più, fare politica, e siamo d’accordo, con i nostri nemici, che la soluzione migliore è trasformarla in una questione morale. Questa scappatoia ha i suoi vantaggi e svantaggi. Innanzitutto, dà ai più benestanti e acculturati di noi la possibilità di essere virtuosi, di elevarsi moralmente rispetto alla plebe inconsapevole e inquinante, per limitarci ai vantaggi. Inoltre, abbiamo l’idea di riappropriarci del nostro destino, così come sui social ci riappropriamo quotidianamente della nostra immagine pubblica. Gli svantaggi, però, ci sono, soprattutto per i più giovani. Anche se virtuosi, gli piglia spesso una certa fifa, una certa ansia, che gli psicologi hanno già catalogato: è l’angoscia climatica. Come tutte le angosce, dovrebbe anch’essa essere curabile, previo numero più o meno grande di sedute terapeutiche.
Una cosa è certa: non è la scienza che sarà in grado di limitare il degradarsi del clima. Gli scienziati hanno già fatto il loro lavoro. Nel 1979, alla prima conferenza mondiale sul clima di Ginevra, han detto all’umanità grosso modo quel che era importante sapere: l’attività umana è responsabile di cambiamenti climatici, che avranno impatti negativi per gli esseri viventi sull’intero pianeta. La verità è stata formulata nelle sedi istituzionali apposite, ma nonostante ciò essa non ha avuto forza vincolante, non ha prodotto necessarie conseguenze sul piano pratico. Dire come le cose stanno (verità scientifica) non permette di dedurre quali decisioni bisogna prendere, ossia quali azioni compiere. La verità, dunque, è stata dapprima cercata, poi trovata e formulata, e infine è stata perfettamente compresa, restando – come spesso accade – lettera morta. (Questo fatto ha persino permesso la produzione di discorsi negazionisti, che quella stessa verità smentiscono, senza ingombrarsi con criteri di scientificità, ecc.). Quei dati di fatto hanno atteso almeno 26 anni per tradursi in qualche vincolo legale, in qualche obiettivo specifico da realizzare, in occasione del protocollo di Kyoto nel 2005. L’aggiornamento di quegli obiettivi e vincoli si è avuto nel 2015 con l’Accordo di Parigi sul clima, entrato in vigore l’anno successivo. Si tratta di un contratto di diritto internazionale che ha l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra, di mettere in opera programmi di adattamento rispetto ai peggioramenti climatici, di indirizzare risorse statali e private verso uno sviluppo a emissioni ridotte. Approssimativamente, potremmo dire che, rispetto ai primi allarmi lanciati dalla comunità scientifica, gli Stati e il diritto internazionale hanno lasciato passare un mezzo secolo prima di reagire in modo conseguente. (Si pensi alle difficoltà enormi, anche solo a livello europeo, per introdurre una qualche forma efficace di Carbon Tax. E la tassa sulle emissioni inquinanti per gli importatori stranieri approvata questo dicembre dalla UE – Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM) – è salutata come la decisione politica più avanzata a livello mondiale nella lotta contro il mutamento climatico. Peccato che tutto ciò avvenga diciassette anni dopo il protocollo di Kyoto, che doveva segnare l’era delle “misure concrete”.)
Una tale inerzia in ambito decisionale dovrebbe ricordarci che, come la verità scientifica non è bastata a contrastare di per sé il mutamento climatico, così accadrà con il progresso tecnologico o la disponibilità finanziaria. L’organo che solo può indicare dove la ricerca scientifica vada indirizzata, quali priorità dare alle sue applicazioni tecnologiche e quali programmi energetici finanziare, è la politica, intesa non come sede decisionale – i governi dei vari Stati del mondo – ma come processo di confronto pubblico e di scelta collettiva. Si capisce ora che la concezione del rapporto tra comunità scientifica e cittadinanza democratica, come quella sviluppata da un Paul K. Feyerabend, è più che mai attuale. In La scienza in una società libera del 1978, il filosofo austriaco scriveva: “Gli specialisti, compresi i filosofi, possono naturalmente essere interpellati, si possono studiare le loro proposte, ma si deve riflettere con precisione per stabilire se tali proposte e le regole e i criteri che le hanno ispirate siano desiderabili e utilizzabili”. Si tratta, in realtà, di generalizzare il principio della giuria popolare che già vige nel diritto: “La legge richiede l’interrogazione in contraddittorio di esperti e la valutazione di tale interrogatorio da parte dei giurati”.
In realtà, quello a cui Feyerabend – e altri pensatori come Cornelius Castoriadis o Bruno Latour – fa riferimento è un processo che implica varie tappe e vari soggetti. Oltre ai lobbysti buoni e cattivi, oltre alle ONG, oltre ai dirigenti politici, oltre agli scienziati, ossia a coloro che già oggi partecipano a questi incontri mondiali sul clima, finalizzati ad accordi più o meno vincolanti sul piano delle politiche industriali, sociali e territoriali, è necessario che sia mobilitato il numero più ampio di cittadini, e questo non può avvenire che in seguito a pubbliche discussioni, inchieste, capillari opere di divulgazione realizzate dagli organi d’informazione, dalla letteratura e dalle arti. Non sto evocando un mondo utopico dove la cittadinanza costantemente ben informata possa intervenire in tutta chiarezza e trasparenza sui processi decisionali che riguardino indirizzi scientifici o sviluppi tecnologici. Sto solo affermando che, nell’attuale contesto di minaccia climatica su scala planetaria, è auspicabile che i cittadini in un modo o nell’altro riescano a costituire un contropotere nei confronti dei potentati economici, in particolar modo i giganti delle energie fossili (carbone, petrolio, gas). Ora, anche ammesso che esista, almeno potenzialmente, un contropotere, esso deve porsi degli obiettivi pratici, e può farlo con una certa efficacia solo in cognizione di causa.
Il termine “contropotere” non è neppure forse il più adatto, perché suggerisce l’esistenza di un potere illegittimo (le multinazionali dell’energia? i dirigenti politici? gli esperti?) a cui si oppone un potere più legittimo. L’uno e l’altro, in realtà, sono definitivamente legati, e non potranno funzionare come realtà indipendenti e autonome. Nella capitolo conclusivo del suo libro fondamentale, Carbon Democracy. Political Power in the Age of Oil (Verso, London, New York, 2011), Timothy Mitchell scrive riguardo alla duplice minaccia che inquieta il XXI secolo: il limite “fisico” delle energie fossili – ne vorremmo all’infinito, ma esse sono risorse finite – da un lato, e il limite “climatico” dall’altro – se continuiamo a sfruttarne quante ne vorremmo, andiamo incontro alla catastrofe. L’appello ai “limiti” naturali dei “maltusiani” è contraddetto inevitabilmente dall’appello all’innovazione tecnica dei “tecnologi”, che contro qualsiasi affermazione di un limite “naturale” predicano l’imprevedibilità delle soluzioni “tecnologiche”. Di fronte a queste due prospettive, scrive Mitchell:
“Si può preferire una posizione alternativa, che consiste a riconoscere, non che gli esseri politici sono determinati dalle forze naturali, o, all’opposto, che il progresso continuo della scienza e della tecnologia li libererà dai vincoli naturali, ma che noi ci troviamo nel bel mezzo di un numero crescente di controversie sociotecniche. Contrariamente a quello che sostiene l’idea convenzionale della scienza, il cambiamento tecnico non sopprime le incertezze: le fa proliferare. (…) Queste controversie tecniche sono sempre delle controversie sociotecniche, ovvero dei conflitti sui tipi di tecnologie con le quali noi desideriamo vivere, ma anche sulle forme di vita sociale, e sociotecnica, che noi siamo pronti a fare nostre.”
La controversia energetica e climatica non si affronterà semplicemente come un conflitto di cittadini contro le multinazionali dell’energia o contro lo strapotere della tecnologia, ma come una riorganizzazione dei processi democratici, che permettano ai cittadini di parteciparvi efficacemente.
Limiti della politica dei “piccoli gesti” quotidiani
Qualcuno dirà che da tempo i cittadini “comuni” sono entrati nella controversia climatica. È ormai diffuso un discorso sulla responsabilità di ogni individuo nei confronti dei suoi consumi di energie fossili (diretti e indiretti) e dell’emissione conseguente di gas serra nell’atmosfera; in quest’ottica, d’altra parte, è nato il concetto di “impronta carbonica individuale”, elaborato all’inizio del secolo dall’agenzia di comunicazione statunitense Ogilvy & Mather, su richiesta della British Petroleum (BP). I giganti delle energie fossili hanno un chiaro interesse nello spostare la responsabilità sull’individuo consumatore piuttosto che sull’azienda estrattrice. E l’operazione ha avuto un notevole successo. Ma il tipo di responsabilità a cui fa riferimento Mitchell va ben al di là del tentativo individuale di ridurre i consumi d’energia – tentativo, sia chiaro, non solo lodevole, ma necessario. Non è sufficiente l’emersione di nuove emozioni collettive, come la “vergogna di prendere l’aereo”, perché sia possibile esercitare una significativa responsabilità politica. (Faccio questo esempio, in quanto Greta Thunberg, in un suo recente intervento citava la nascita in Svezia del neologismo “flygskam”, che si riferisce appunto alla vergogna di viaggiare in aereo.) Ora, un calcolo sull’impatto che avrebbero comportamenti individuali “eroici” e “realisti” sulla riduzione dei gas serra, secondo gli obiettivi dell’accordo di Parigi – riduzione dell’80% entro il 2050 dell’impronta carbonica media di un cittadino francese – è stato fatto da Carbone 4, un’agenzia di consulenza indipendente e specializzata in strategie a basse emissioni di gas serra, che ha sede in Francia.
Secondo questo studio, nel migliore dei casi, ossia applicando un controllo virtuoso dei gesti quotidiani (rinuncia alla carne e all’aereo, prevalenza dello spostamento in bici, ecc.) si otterrebbe una riduzione del 25% sulla percentuale globale dell’80%. Se tutti questi cittadini virtuosi avessero, inoltre, anche notevoli capacità d’investimento, essi potrebbero attraverso ristrutturazioni, sostituzioni di caldaie, acquisto di auto elettriche, ecc., ridurre di un altro 20% la loro impronta carbonica. La virtù e i soldi di questi cittadini eco-responsabili non li sottrarrebbero però alla necessità di inventarsi qualcosa per fare in modo, stavolta al di fuori della politica dei “piccoli gesti” individuali, che qualcosa si ottenga collettivamente, ossia a livello istituzionale e giuridico affinché sia ridotto quel restante 35% di emissioni che non dipende da loro. In soldoni: anche se fossimo tutti delle irreprensibili Greta Thunberg, noi cittadini europei non potremmo evitare di passare dalla sfera delle scelte individuali e autonome a quella delle azioni pubbliche e politiche, affinché siano realizzati da tutti gli attori in gioco (Stati e imprese incluse) gli obiettivi di contenimento del riscaldamento climatico (accordo di Parigi). Più realisticamente, Carbone 4 ricorda che l’impegno individuale potrebbe in media ridurre le emissioni del 20%, lasciando fuori un corposo 60% che dipende dal nostro ambiente sociale, tecnico e politico. In questa fetta da ridurre, rientrano le emissioni dell’industria, del sistema agricolo, dei servizi pubblici, del settore trasporti, ecc.
Politiche contro i criminali climatici o contro le vittime del riscaldamento globale
L’insistere sull’efficacia dei “piccoli gesti” quotidiani e sulle nostre abitudini di consumo ha probabilmente qualcosa di rassicurante, ma di certo ci allontana da realtà spiacevoli che riguardano gesti di ben altra efficacia e che vanno in direzione del tutto contraria alla nostra buona volontà. Penso a quelle multinazionali dell’energia che il giornalista francese Mickaël Correia chiama criminali climatici e che hanno fornito il titolo del suo ultimo libro d’inchiesta (Criminels climatiques. Enquête sur les multinationales qui brûlent notre planète, La découverte, Paris, 2022).
Correia ha realizzato un ritratto in effetti agghiacciante delle tre multinazionali che sono in testa alle classifiche delle emissioni di CO₂ sul nostro pianeta: si tratta di Saudi Aramco, gigante saudita del petrolio, China Energy, conglomerato nazionale di aziende che producono elettricità dal carbone e dell’oggi ben noto Gazprom, leader internazionale del gas sotto controllo del governo russo. “La sinistra trinità delle energie fossili. Se oggi questo trio climaticida fosse un paese, incarnerebbe la terza nazione per emissione di gas serra dietro la Cina e gli Stati Uniti”. Uno dei punti più interessanti dell’inchiesta riguarda non solo le malefatte di questi attori delle energie fossili non occidentali. I criminali climatici (di Stato) godono, infatti, di una vasta complicità nel settore privato dell’energia, della finanza mondiale e della stessa politica in Occidente, e particolarmente in Europa. (Sul fenomeno generale in Europa delle revolving doors, ossia di personale politico che continua la sua carriera nelle lobby delle energie fossili, si può leggere questo studio degli ecologisti europei ; sulle infuenze di Gazprom in amibito francese, questo articolo di Correia.) Il capitalismo estrattivista, insomma, non ha frontiere né geografiche né culturali né religiose.
L’intervento su tali realtà implica non solo un lineare passaggio dal privato al pubblico, dal personale al politico, ma implica – come suggerisce Mitchell – l’invenzione di nuove forme di azione politica assieme a nuove forme di diffusione delle conoscenze, di discussione e confronto pubblico, di auto-educazione collettiva, dentro e fuori i contesti istituzionali. Purtroppo la crisi ecologica, di per sé, non garantisce nessun tipo di necessaria “presa di coscienza rivoluzionaria”. E questo neppure ora, dove si passa dalla previsione scientifica all’esperienza empirica diretta. A partire dall’estate del 2021, anche i San Tommasi della climatologia hanno potuto toccare con mano il cambiamento climatico. Non solo esso esisteva per davvero, ma era già lì, a portata delle loro orecchie e dei loro occhi. Tutti, d’altra parte, ci siamo ritrovati come in un film distopico, a fissare imbambolati all’ora di cena immagini televisive di città sventrate dalle inondazioni e massicci incendi di foreste nelle più svariate parti del mondo.
Questa nuova paura climatica potrebbe avere su quegli stessi europei che si ritengono l’avanguardia ecologica del pianeta (anche con qualche legittima ragione), effetti devastanti, innanzitutto sul funzionamento delle nostre democrazie. La volontà individuale e collettiva di cambiamento si scontrerà sempre di più con l’idea che il nostro mondo, ossia le nostre istituzioni politiche e sociali vadano preservate così come sono (con il dispendio energetico che le tiene in piedi) e che queste istituzioni non siano compatibili con i flussi migratori attuali e futuri. Le diverse forze politiche saranno in disaccordo sull’età pensionistica, sulla legislazione relativa all’aborto o ai matrimoni gay – cose certo fondamentali – ma condivideranno un’attitudine bellica e autoritaria nei confronti dei migranti poveri alle loro frontiere. Insomma, come già da tempo si dice, la questione ecologica è indissolubile dalla questione sociale (di classe, all’interno di un paese, e di rapporto tra paesi ricchi e paesi poveri, sul piano internazionale), ma essa determinerà anche il destino politico dei nostri paesi, ossia la capacità di quest’ultimi di sottrarsi o meno a soluzioni sempre più barbare nei confronti della popolazioni di non-cittadini che cercano di giungere sul nostro territorio.
[Le immagini sono tratte dal fumetto di Jancovici – Blain, “Le monde sans fin”, Dargaud, 2021.]
Grazie, Andrea, per il tuo articolo.
Da un punto di vista psicologico è interessante notare come sia stata strumentalizzata l’ansia perlopiù borghese dell’ecoresponsabilità individuale, che ha funzionato perché, come scrivi, è rassicurante (“se uso la bici andrà tutto bene”), dà l’illusione del controllo (in una vita precedente ho scritto un articolo in cui raccontavo come, nei romanzi di DeLillo, il recycling sia uno strumento per illudersi di dominare anche la morte) unita a una sensazione di potere. Il tutto provoca naturalmente stigmatizzazione di chi non ha le stesse abitudini e autoesaltazione.
Ora, è chiaro che non si stanno bandendo i piccoli gesti; ma è talmente assurdo pensare che bastino, tradisce una tale miopia del sistema in cui viviamo. Questo stesso atteggiamento, questa stessa illusione mi sembrano proprio il segno che lo scollamento fra politico e individuale è pienamente riuscito, significano che l’aspetto politico, planetario del problema finisce in secondo piano. L’io impera anche sulla crisi climatica.
[Scrivo questo post mentre due operai stanno montando sul mio balcone il climatizzatore dell’appartamento accanto, appena trasformato in Airbnb. In un futuro molto vicino i palazzi più appealing per il turismo, ammantati di un’aura di autenticità, saranno quelli in cui ci sono ancora degli abitanti]
Cara Ornella: “L’io impera anche sulla crisi climatica”. Formula quanto mai appropriata. E’ davvero cosi e alla lettera. Sentivo oggi dei miliardari negli Stati Uniti che si fanno costruire bunker di lusso (altro che il kit di sopravvivenza da catastrofi) del tutto convinti che ci sarà la fine del mondo e che è quindi importante prepararsi ad essa, utilizzando tutte le proprie risorse. Si parla di una sorta di “auto-sovranismo”, di sovranismo ma a livello di singolo io, che vuole estrarsi dal destino di specie, come quello imposto da rivolgimenti climatici.
Un’altra cosa. Un urbanista analizzava la recente “ondata verde” alle elezioni municipali francesi. Molte città medie e grandi passate ai verdi. E la sua lettura era assai critica. Là dove i cittadini hanno ormai tutto: le grandi città concentrano tutti i servizi, tutta la cultura, tutte le tipologie di merci, e ovviamente “il lavoro”, il cittadino, come ultima e suprema esigenza, chiede la città verde: ossia la rimozione degli svantaggi (traffico, rumore, inquinamento, poco verde, ecc.) che erano correlati ai suoi privilegi rispetto a chi abita fuori città o anche lavora nei piccoli centri di campagna. La città verde è la cigliegina sulla torta del benessere di una classe-medio alta che vuole tutti i vantaggi della città, senza subirne tutti gli svantaggi. Certo che si puo’ capire un tale atteggiamento, ma la dimensione “progressista” di tali scelte politiche dev’essere allora ridimensionata.
Giusta (moralmente!) e interessante questa tua riflessione. Il grafico all’inizio (Global fossil fuel consumption) andrebbe incrociato con un grafico demografico (è una delle mie ossessioni): nel 1800 (grado 0 del primo) non si arriva al miliardo di esseri umani, oggi – con una crescita direttamente proporzionale simile a quella del primo grafico – si è arrivati agli otto. È da circa dieci dodicimila anni, cioè dall’inizio della rivoluzione neolitica, con qualche centinaia di migliaia di individui, che il numero degli umani è cresciuto esponenzialmente; ma è con il capitalismo moderno, la rivoluzione industriale, appunto, che questa esponenzialità si è avvitata in un vortice inimmaginabile persino per noi che ci stiamo dentro. Potremmo fare un discorso analogo con la distruzione che l’uomo opera sulla natura, anche questa in crescita sin dal neolitico. Questa divagazione la faccio per sottolineare come, leggendo una riflessione come la tua (che sostanzialmente condivido), mi vengono in mente due contropiste di riflessione. La prima: gli esseri umani mi sembrano oggi, dal punto di vista dell’ecologia, in preda a due forme opposte di megalomania (che in realtà sono le due facce di una stessa medaglia…): pensare che si possa distruggere la Terra senza limiti; pensare che, con i nostri semplici mezzi, con i nostri soli soli gesti “virtuosi” (non prendere l’aereo, non prendere la macchina, non stare sotto la doccia più di quindici secondi, andare in bicicletta, moltiplicare i negozi biologici – c’era nella tua lista? etc.) la si possa salvare. Ma appunto: possiamo noi umani, da soli, salvarla, la Terra, e salvare noi stessi? (Spesso – divago di nuovo, a rischio d’essere preso per un “clima-scettico”, che ovviamente non sono, magari un po’ leopardiano… – penso che la Terra e la Natura abbiano i loro cicli e le loro attività di cui noi siamo solo un’infima impotente briciola: terremoti, eruzioni vulcaniche, catasclimi, glaciazioni etc. che, indipendentemente dalla nostra, di attività, possono in qualche anno, o persino un solo attimo, spazzare vie intere città, o persino civiltà…) La seconda: Socialismo (o qualcosa del genere) o barbarie. Se un tempo il sistema capitalista in cui vivevamo sembrava la realtà e la rivoluzione (o qualcosa del genere) una coraggiosa utopia, oggi mi verrebbe da dire che le cose si sono invertite: è utopia pensare che questo sistema impazzito che combina distruzione ecologica e distruzione sociale, generando diseguaglianze sempre più gigantesche, possa produrre altro che una spirale di catastrofi, sino allo schianto; buon senso adoperarsi per rovesciarlo, questo sistema, nel tentativo di salvare noi e la Terra. (Questo non vuol dire, ovviamente, rinunciare ai gesti virtuosi, anzi andrebbero moltiplicati, ma inserendoli in un movimento di reale cambiamento, che solo può dar loro senso.) Anche se questo tentativo non fosse sufficiente, il costruirlo, il fare come se lo fosse, lo starci dentro, sarà già un modo migliore per vivere insieme e dentro la natura.
Caro Giuseppe non ti rispondo sulla questione demografica, perché di tutte mi sembra la meno intuitiva, e ho bisogno di approfondire almeno un poco la questione prima di dire qualcosa. Un capitolo di un libro di uno strano personaggio, ossia Hans Rosling (Factfulness, Rizzoli, 2018) mi ha fatto capire che le nostre idee legate alla sovrappopolazione mondiale vanno anlizzate criticamente. Ma vengo all’altro punto importante del tuo commento: “due forme opposte di megalomania (che in realtà sono le due facce di una stessa medaglia…): pensare che si possa distruggere la Terra senza limiti; pensare che, con i nostri semplici mezzi, con i nostri soli soli gesti “virtuosi” (…) si possa salvare”.
Tutta la faccenda del riscaldamento climatico impone un ripensamento del pessismismo leopardiano; Leopardi muore ben prima che la linea del consumo di carbone cominci a crescere lentamente verso l’alto dopo il 1850. Leopardi appartiene a un’umanità che è ancora disarmata, in quanto non ha messo in campo le energie fossili e le macchine che le permetteranno di modificare in maniera unica nella storia i rapporti di forza con la natura. Qui non sono le catastrofi naturali e l’eterna vulnerabilità dell’uomo in gioco, ma l’uomo catastrofico, l’uomo che collabora allo scantenamento delle catastrofi e che sogna soluzioni tecnologiche estreme per sfuggire ad esse. La proposta radicale e controversa della geoingegneria per proteggerci dai cambiamenti climatici – Linkiesta.it Hai sentito parlare della geoingegneria? Sono scenari da far paura. Ma naturalmente siamo d’accordo su di una cosa, una constatazione questa si leopardiana: che l’uomo dovrebbe essere più umile, ragionare sulla nozione di limite, e sopratutto sulla virtù aristotelica della phronesis.
Minime puntualizzazioni (necessarie quando si scrive di corsa). Non parlo di “sovrappopolazione” (‘sovra’ rispetto a cosa?), ma di esplosione demografica da mettere in parallelo con altri fattori, in particolare l’economia ma non solo, per capire il mondo in cui viviamo (il che, è vero, è questione complessa, che anche, semplificandosi, si trascina dietro un bel grappolo di luoghi comuni, fra cui quello del pur vero ma troppo facile “siamo troppi”…). Leopardi era più che altro una boutade, anche se è un mio punto di riferimento, e mi piace che tu lo prenda sul serio. Ti prendo sul serio anch’io, allora, e continuo, ricordandoti che quello di un tempo passato ideale in cui la natura e l’uomo erano “amici” in opposizione all’oscuro tempo presente che ci conduce all’apocalisse è comunque un mito vasto e antico quanto la hybris umana, la démesure appunto (Opere e giorni, Genesi…, per non restare che dalle nostre parti…): il che non vuol dire ovviamente sottovalutare il salto di qualità determinatosi a partire dal XIX secolo (potremmo anche parlare di inizio dell’epoca di Homo catastroficus, appunto…), ma solo restare criticamente all’erta, per non trasformare la necessaria azione politica e culturale in involontaria produzione mitologica. Infine, più che all’ “umiltà” (concetto che mi sembra più manzoniano che leopardiano) mi appellerei alla “misura” e alla “consapevolezza” – le antitesti dell’hybris, insomma… In questa prospettiva, oggi, proprio l’azione ad ampio raggio, immediata, gli “impegni per domani mattina” che invoca un altro commento, o la “rivoluzione”, in senso stretto, che evocavo io, appare come la cosa più ‘misurata’.
Giuseppe, scrivi: “ricordandoti che quello di un tempo passato ideale in cui la natura e l’uomo erano “amici” in opposizione all’oscuro tempo presente che ci conduce all’apocalisse è comunque un mito vasto e antico”. Per carità, il comune riferimento a Leopardi ci libera da qualsiasi equivoco. Nessuna armoniosa coabitazione tra uomo e natura, ma coabitazione sofferta, in vrtù di una rapporto di forza molto chiaro e tutto a favore della cosidetta “natura”. A lei si imputavano le catastrofi, all’uomo – come in tutte le tragedie greche – di non aver sufficientemente onorato gli dei (e quanto tutto cio’ puo’ significare). Il salto epocale, è quello riassunto dal termine antropocene, e da tutti i significati che si tira dietro. Alle catastrofi “puramente” naturali, si aggiungono oggi quelle di cui l’uomo è attivo collaboratore, e vittima comunque finale.
Poi hai ben ragione a distinguere umiltà da misura, concetti ben distinti. Ma perché ci sia misura, anche una certa umiltà non guasta.
Grazie davvero, caro Andrea, di questo lungo ma bell’esame di una situazione mondiale altamente deplorevole. Credo proprio di condividere tutto quanto dici e credo anche che il vecchio Paul K. condividerebbe. Uno dei problemi è che questi grandi pirati dell’economia mondiale se ne strabattano delle varie analisi catastrofiche perché sanno di avere una vita limitata: pensano che nel tempo che loro resta da vivere non ci sarà nulla di così brutto da cui non possano difendersi, ma sbagliano anche in questo: la crisi è già qui e i vari impegni per il 2050 e simili fanno ridere; occorre prndere impegni per domani mattina.
Vero caro Spraz. I pirati dell’economia fossile (e i suoi vari complici politici e culturali) se ne strabattono perché i soldi li intascano oggi, e perché ai tropici hanno al massimo le ville, ma non ci vivono, e adesso che la crisi è già qui hanno i mezzi per esserne al riparo. C’è da sperare che la questione politica del secolo trovi un soggetto che la faccia sua, al seguito di quei sparuti e ancora gentili gruppi che tirano salsa di pomodori su capolavori della pittura ben protetti dai vetri (e che solo per questo vengono additati come fanatici estremisti). La controrivoluzione liberista degli anni Ottanta produsse l’altermondialismo degli anni Novanta; all’orizzonte, adesso, non si vede ancora qualcosa di cosi massiccio.
Temi molto interessanti e per quanto mi concerne largamente condivisibili, ti faccio un paio di osservazioni collaterali: in primo luogo è vero che l’ambientalismo non è preso sul serio, ciò accade, tra l’altro, in quanto i suoi temi si rivolgono a tutti e pertanto non si innestano nella normale dinamica politica della società, cioè non sono legati a interessi sociali. Per esempio un ambientalismo politico che ponesse la questione fiscale contro le multinazionali facendo una politica delle alleanze, avrebbe forse oggi non consenso, ma acquisterebbe senso politico. Aggiungiamoci poi quello che io chiamo l’effetto brioche: proprio per la loro generalità e urgenza le tematiche ambientaliste sono state recepite spesso in ambienti elevati e dominanti e hanno avuto dei vip mediatici come testimonial, che però spesso nell’affrontare il tema delle ricadute sociali delle politiche ambientali hanno assunto un atteggiamento che ricorda il celebre adagio se il popolo non ha pane, mangi le brioche ( pensa a Carlo III e a qualche attorone americano). Proprio in questo senso la critica che Greta fa allo stile di vita globalista ha una sua valenza progressiva, come si diceva una volta, è vero che non prendere aerei o cose del genere serve a poco, ma criticare lo stile di vita delle classi dominanti e quindi non farle risultare degne di ammirazione, è a mio avviso una rivoluzione culturale che può preparare altre rivoluzioni. Io penso che Greta, anche se adesso con la guerra hanno trovato modo di farla tacere ( e comunque lo avrebbero trovato lo stesso), abbia svolto una funzione importante.
Bel pezzo, Andrea. Fai il punto su molti aspetti, non ultima la questione sociale, di classe. Sono d’accordo con Giorgio: Greta per me è un personaggio estremamente positivo, e le persone della sua generazione lo sanno benissimo. C’è quindi anche una forte questione generazionale. Non riesco a togliermi dalla mente l’immagine del boss della Fifa Infantino che vola tra uno stadio climatizzato e l’altro di Doha in elicottero, per non perdere nessuna partita dei Mondiali.
È comunque una lunga storia. Guardate cosa scriveva Marguerite Yourcenar in “Archivi del Nord” (1977): “Centinaia di specie animali riuscite a sopravvivere fin dal tempo della giovinezza del mondo, in pochi anni saranno annientate per motivi di lucro o per semplice brutalità; l’uomo sradicherà suoi propri polmoni, le grandi foreste verdi. (…) Si afferma che in certe epoche Siva danzi sul mondo, abolendo le forme. Ciò che oggi danza sul mondo è la stupidità, la violenza e l’avidità dell’uomo”.
Cari Giorgio e Davide: Greta, Stop Oil, Extinction Rebellion sono tutte forme d’impegno, a diversi livelli, che vanno, come dite, in direzione di un mutamento di cultura, che è fondamentale. In tutta questa faccenda è pero’ inquietante che, a queste voci critiche (nuove) e quelle più novecentesche (greenpace), si affianchino quelle dei grandi produttori di energia (alcuni più o meno impegnati nella riduzione delle fonti fossili). Quest’ultimi tentatono di monopolizzare il discorso sulla grande svolta energetica “verde”. Ma manca ancora, mi sembra, un lavoro di divulgazione sulle alternative alle energie fossili. Mi sembra che siamo ancora in una fase di alfabetizzazione primaria su queste questioni. E’ anche vero che lavori più specialistici come quello di Mitchell mostrano l’esistenza di un nuovo paradigma critico rispetto a quello che è stato dominante nel pensiero marxista ancora fino alla seconda metà del secolo scorso. Insomma, c’è ancora tanto sapere da far circolare e da elaborare.
La citazione di Yourcenar (due anni prima della prima conferenza mondiale sul clima) testimonia poi del tasso d’inerzia insita nelle nostre civiltà dell’efficacia e della risposta tecnologica.