La più recondita memoria degli uomini
Mohamed Mbougar Sarr, La più recondita memoria degli uomini, Edizioni e/o, 2022
di Valerio Paolo Mosco
L’incipit di La più recondita memoria degli uomini spiega molto, fissa il tema del libro. È un incipit che cattura: “Di uno scrittore e della sua opera possiamo almeno sapere una cosa: l’uno e l’altra camminano insieme nel labirinto più perfetto che si possa immaginare, una lunga strada circolare in cui la destinazione si confonde con l’origine: la solitudine”.
La solitudine aleggia nel libro di Saar come atmosfera e destino. I personaggi si muovono tra incontri continui, in luoghi sempre diversi, ma sono soli, soli con il loro destino. Solitudine e destino vanno perfettamente d’accordo: solo nella solitudine appare il destino e nella solitudine più totale appare ciò che il destino porta con sé: l’ineluttabile. Romano Guardini parlava di “fiducia nell’ineluttabile”, ovvero la fiducia nel tragico, nel grande disegno, anche se il grande disegno è destinato a sopraffarci. È questo un paradosso con cui si sono confrontati i grandi autori tragici, spesso schiacciati dal loro stesso compito. Ecco allora che appare l’intelligenza e l’astuzia di Shakespeare che ad ogni monologo metafisico faceva seguire l’irrompere di un fool, di un pazzo canzonatorio, stemprando così quell’inesorabilità che sarebbe stata troppo per il pubblico e probabilmente anche per sé. Saar non ha paura dell’inesorabilità tragica, ci si immerge in un romanzo denso e compatto, un thriller sulla condizione di più personaggi che corrispondono a lui stesso, ovvero con l’autore destinato a confrontarsi con un’opera che lo può schiacciare. Il ritmo del libro è ipnotico e allo stesso tempo mantiene sempre qualcosa di sfuggente e di arbitrario.
Ecco allora che appare il fine del libro, quello di mettere in scena il tragico passando attraverso il polimorfismo postmoderno, allora è come se Sarr si fosse chiesto se fosse possibile coniugare un postmoderno che ormai da decenni associamo all’alleggerimento della realtà, alla finzione, alla manierata sofisticazione estetica con l’ineluttabilità del tragico. Quello di Sarr è dunque un progetto teorico che in parte trova delle assonanze con quello di Houellebecq, ma che in Sarr acquista maggior respiro narrativo, quasi una plasticità e dei chiaroscuri mancanti all’autore francese. Diversi temi si intrecciano nella narrazione di Sarr: il tragico e l’ineluttabile, il magico e l’enigmatico, la condizione dell’esule e di colui che vive in bilico tra due culture, quella di appartenenza e quella di afferenza, quella senegalese e quella francese. La peculiarità della narrazione di Sarr è quella di disseminare questi temi nel testo facendoli affiorare e immergerli con destrezza nei diversi personaggi in una coralità che dona agli stessi temi quella che potremmo definire una profondità di campo. Si ha allora la sensazione che la costruzione narrativa sia asservita proprio a questa profondità di campo e ciò per evitare quel moralismo d’accatto e quella tendenza didascalica che fa sì che ad ogni interrogativo dobbiamo dare risposta, possibilmente quella più assertiva possibile. Non giungere a conclusioni, quasi essere condannati a non giungere a conclusioni definitive: è forse questo il senso di quel tragico postmoderno che sembra tenere insieme la letteratura contemporanea più convincente.
A sovrintendere poi il tutto nel libro di Sarr il tema dell’autorialità, della costruzione di un’autorialità ed è questo il vero tema tragico del libro. La tesi è chiara: un autore è colui il quale sacrifica e sacrifica, è colui che ha il coraggio di spingersi al di là dei sistemi difensivi, privati e pubblici che siano, è colui che sa che l’opera potrà sopraffarlo in quanto lo metterà a nudo, lo potrà sacrificare in quanto lui stesso si sarà messo in una condizione di vulnerabilità. “Salvo solo ciò che è scritto con il sangue” sentenziava Nietzsche. Per anni le opere scritte con il sangue sono state evitate e i pochi autori che scrivevano con il sangue, per timore, hanno cercato di dissimulare il tragico in quanto rifiutato da un pubblico postmoderno perbenista. I temi sono cambiati e il libro di Sarr lo dimostra. Ci auguriamo che il suo messaggio possa essere raccolto da una letteratura italiana esangue, che dai tempi di Calvino si è alleggerita così tanto da risultare evanescente.
Memorabile è l’affermazione di Nietzsche: “Salvo solo ciò che è scritto con il sangue”. Concordo in pieno con le argomentazioni relative alla condizione di svelamento, di autoindotta vulnerabilità la cui alea, e nel contempo il cui straordinario valore di scommessa ontologica ed eidetica, l’autore considera nel momento in cui scrive e in quello successivo, a seguito del quale decreta di pubblicare quanto ha scritto, per separarsene in via definitiva, per operare una morte e una nascita contestuale, rivolta a quanti vorranno leggere.