Piramide:triangolo
di Antonio Potenza
Ho le pupille di due forme differenti. Una è una piramide, quindi una montagna. L’altra è un triangolo rovesciato, quindi una grotta. Giulia se ne accorge per la prima volta allo Spin Time Lab. Murales e fumo denso ci stringono come una corona, anche se Maurizio sembra a suo agio e fende la nebbia con il suo corpo dinoccolato. Le lenti dei suoi occhiali vibrano per la musica assordante. Ci parliamo gridando all’orecchio. Scambiamo segreti urlati, che comunque nessuno può carpire.
Giulia mi chiede perché le ho così. La mia risposta è laconica: ci sono nato. Maurizio ride, la scena l’ha vista diverse volte in università. Il mio è un particolare che non si nota subito, se non a una certa distanza. Una volta stretta la mano è qualcosa che invece balza all’attenzione. Si tratta di una caratterizzazione particolarissima e rara. Capisco la sorpresa.
La seconda domanda arriva puntuale. Le labbra di Giulia mi soffiano nell’orecchio: e ti danno dei problemi? Rispondo di no, ma non è vero.
Maurizio riconosce il beat di una canzone, quella che abbiamo ascoltato sul prato de La Sapienza. Giulia è sorpresa dal nostro entusiasmo. Le metto un braccio sulle spalle e tutti e tre procediamo verso la pista gremita di entità scure che si dimenano, convulse, al ritmo della cassa.
Nel fumo grido a Giulia che con queste pupille vedo i morti.
Dice che non ci crede, e ride.
Attraverso i fumi del bunker, galleggiamo agitandoci cautamente. Seguiamo il ritmo placido della musica elettronica. Siamo sotto cassa, dove i bassi premono maggiormente sul petto e lo stomaco reagisce in maniera meccanica alle onde sonore contorcendosi in sé stesso. Si tratta di una sensazione ancestrale, legata all’infanzia. Almeno per me è strettamente connessa alla cassa armonica del paese, quando Papà mi ci portava a sentire la banda. Il cuore gracile, in evoluzione e troppo vicino al suono, si comprimeva dolente. Una volta allontanatosi però tornava a bramare quella sensazione, seguendo il principio alla base di ogni desiderio. Cercavo nei rave dello Spin Time alla fine le stesse cose: le valvole bicuspidi bloccate, le mani grandi di mio padre.
Serotonina. Qualcosa si muove dall’interno, ne sento lo scorrere convulso e il dilagare energico. Il tempo si calma. Non so più che ore siano, non so più quanto ho bevuto, se fuori sia notte, o se è arrivato il giorno, se sia ancora autunno o se imperversa l’inverno. Non so nulla, nemmeno dove siano Giulia e Mauri che erano qui poco fa. Ne sentivo le spalle sudate, i corpi tarantati. Ora intorno a me si muovono petti sconosciuti, imperlati di sudore violaceo e brillante. Viscosi, con gli occhi chiusi, seguono più o meno il ritmo, fumano sigarette storte e mal chiuse, sputando batuffoli di fumo rosè. Qui sotto siamo formiche, esseri minuscoli e agitati. Stretti tra di noi seguiamo la formica regina, ma non ci conosciamo, inquilini solitari dello stesso formicaio inondato da murales e piscio. Che puzza acre arriva dal bagno quando folate di vento attraversano per sbaglio la sala, infilandosi dalle feritoie a livello della strada. Noi siamo al di sotto dell’asfalto: sopra di noi sferragliano tram arrugginiti, tubi di scarico vibranti, passi veloci, tacchi ispidi, suole strascicate. Siamo defunti mobili.
Nella folla mi agito come un cosmonauta. Sposto i corpi, lascio che si avvinghino a me, poi come in assenza di gravità dolcemente li sposto via e quelli senza fare resistenza si allontanano, collidono su altri satelliti di carne. Il cammino di ricerca dei miei amici sta diventando un errare. Gli stessi volti, le stesse sbuffate di fumo, nessuna partenza, non esiste arrivo: Mauri e Giulia sono mai esistiti?
La musica si ostina, è inceppata, batte lo stesso ritmo, la cassa non si oppone, nessuno uccide il dj, fautore di questa coazione a ripetere. Mi accascio e scivolo sulla parete colma di murales colorati e senza firma. Cicatrici di pigmenti, insulti ai poliziotti, inneggiamenti confusi alla libertà. Qualche falce, pochi martelli. Respiro a fatica e penso alle colline dello screensaver di Windows Xp. Ho imparato a utilizzarlo come disinnescante quando mamma è morta. Il pc del dottor Olari era rimasto acceso, mentre Papà firmava carte di cui non conoscevo il contenuto. Conoscevo però la soluzione salina che li ammorbidiva, che cadeva dagli occhi di quell’uomo dalle mani grandi; e stanche. Lo screensaver sullo schermo del dottore mi riportava a una doppia freschezza mentale. Colline verdi, virtuali, immanenti. Quelle dune rigogliose mi accoglievano nei pomeriggi afosi d’estate, attraverso lo schermo del computer, quando Mamma lavava i piatti e io mi rifugiavo in camera. Veniva a grattarmi le spalle mentre sfogliavo Encarta. Poi mi dava un bacio e andava a dormire sotto il ventilatore. La promessa che offrivano quelle due colline verdi, e che mi tranquillizzava, era quella della morte: la mia; quieta e silenziosa. Riposante.
Mi rialzo. Giulia e Mauri dispersi. Inizio a gridare nello Spin, ma nessuno mi sente, nessuno si allarma. La mia voce si perde nei battiti, si scioglie col rumore. Scalpiccio frenetico, ovatta sonora. Nella confusione tutto mi pare possieda un suo ordine, nonostante io stia vacillando. Il baricentro cede, le gambe non sono forti abbastanza. Cado: il viso si incolla al pavimento appiccicaticcio. Residui d’alcool, puzza di vomito. Tra le gambe delle formiche ti vedo: stazioni nella nebbia purpurea dei bagni, qui le nubi acide del club non ci consumano. Avanzo con gli zigomi rotti attraverso banchi opachi di nebbia di zucchero. Mi aspetti dondolante, come una canna di palude. Zanzare della malaria mi suggeriscono le prime parole da dirti, che poi pronuncio, ma che sbaglio. Sembri piuttosto piccata del mio errore, lo capisco, non ci vediamo da tanto e sei irritabile. Bassi di cassa trapassano i nostri scheletri. Onde di suono si accavallano nello spazio dei nostri atomi. Te lo racconto, non ci credi. Siamo aria, dici; per sempre aria, ripeti. La vita che mi racconti, io l’ho vissuta al tuo fianco. La mia, dopo di te, non è andata meglio. Poi ricordiamo i libri sottolineati insieme. Non rispondi, guardi altrove. Lo faccio anche io, entrambi osserviamo l’interno del bagno. Cigola la porta di legno, qualcuno mugugna. Fetore acre, si intuisce che il proprietario ha esagerato con l’alcool. Faccio in tempo a dirglielo, è ancora accovacciato lì con il suo culo diafano appena peloso.
Ti chiedo scusa, come se fossi io ad averla fatta. Volte di fumo ci avvolgono, mentre l’uomo accovacciato ci guarda nella nebbia. Conosco un’altra storia, ti dico. La musica è troppo forte e non senti. Allora mi avvicino al tuo orecchio destro, provo a parlare ma una bava di colla fluisce al posto della saliva. Sapevo fossi morta provo a dire con il sangue sulle labbra che con forza dissigillo. Annuisci dandomi ragione. Giulia e Mauri alle mie spalle ridono con il viso rubizzo: allora è vero, ripetono; allora li vedi i defunti.
Mamma, ora al loro fianco balugina il tuo corpo bianco che si congeda. Mi saluti mentre tiro un’altra porta. L’uomo dal culo candido, accovacciato nel suo angolo, mi guarda meglio: hai gli occhi a triangolo, grida puntandomi il dito. Mauri ride, ubriaco.
Bello, bello. E gran chiusa.