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Les nouveaux réalistes: Giovanni Palilla

Congetture su Peter

di Giovanni Palilla

 

Dovevo capirlo dall’orario dei treni che qualcun altro doveva aver scritto la mia vita, governata da un’inesorabile catena di casualità: giunto al binario, mancavano sempre pochi minuti all’arrivo del treno, come se mi stesse aspettando, come se fossimo giunti allo stesso istante per proseguire assieme; e se per caso fossi stato in ritardo, ché mi ero svegliato tardi, oppure mi ero perso nell’indugiare mattutino – questo lavoro, questa vita che sto conducendo, è davvero un buon motivo per separarsi dalle lenzuola? – un qualche contrattempo tecnico di indubbia natura avrebbe momentaneamente bloccato il suo scarrozzare, permettendo alla mia trafelata corsa di raggiungere l’agognato mezzo. Eppure, tutto ciò mi sembrava banale e normale: a lungo la scambiai per fortuna, ma avrei potuto giurare che non sempre era stato così; tuttavia, non saprei dirvi quando ho cominciato a notare che al mio passo, qualsiasi direzione io prendessi, i semafori diventavano verdi: solo di recente ho cominciato a notare gli anelli di quella catena che mi facevano essere inesorabilmente al posto giusto al momento giusto.

I miei dubbi ebbero conferma quando decisi all’improvviso, a pochi istanti dall’arrivo della puntualissima metro teutonica, le mani in tasca e lo sguardo sicuro, di risalire le scale e prendere la metro nella direzione opposta, e nel farlo mi guardai attorno, salendole quasi di soppiatto, come se stessi compiendo un atto osceno. Ma la metro non arrivò. L’iniziale ritardo di cinque minuti, che già di per sé in quel momento avrebbe potuto confermare la mia teoria, si trasformò in un ritardo di dieci, venti, trenta minuti e dopo ben un’ora e mezza d’attesa, che aveva messo a dura prova non solo i miei di nervi, ma anche quelli dei tedeschi – senza aver ricevuto, tra l’altro, alcuna spiegazione esaustiva dell’accaduto ma solo generiche scuse, un fällt heute aus dopo l’altro – dopo un’ora e mezza il treno fece la sua comparsa. Una volta dentro, la metro, piena di gente come in quelle foto che si vedono della metropolitana di Tokyo, andò a passo lentissimo, e a ogni fermata sostava più di cinque minuti per via di un problema alle porte che non ne volevano sapere di chiudersi con la solenne dignità che, di norma, caratterizza le puntuali Straßenbahn della Sassonia.

Estenuato dal puzzo, dalla stretta vicinanza con gli altri passeggeri, una vicinanza troppo intima, decisi in prossimità di una fermata a caso di scendere e cambiare nuovamente binario, senza sorprendermi che, giunto dall’altra parte, nel guardare il tunnel nero dopo qualche secondo i fari del treno incontrassero il mio sguardo deluso. La mia fuga da quella catena che vincolava la mia vita a episodi di casualità non pareva possibile, dato che nemmeno la mia deviazione sembrò spezzarla. In realtà, riuscii a liberarmene, o meglio fu la catena a spezzarsi in un momento determinato della mia vita, quando mi ritrovai a mio malgrado spettatore di un fatto ben preciso: comincio a raccontare dai treni per un vezzo letterario, forse perché anch’io bin immer quer gegangen lungo i binari della mia vita. La storia potrebbe in realtà cominciare qui: dopo aver sbagliato direzione del treno, preso da una sensazione malinconica che sempre mi coglie alle ore 17:00, soprattutto quando d’inverno fa buio presto, decisi di fare un salto in centro, dove, benché di piccole dimensioni, sempre andavo per raccogliere i pensieri sparsi lungo le vie, e passeggiando, giunto sotto al grattacielo, moderno correlativo oggettivo di questa città, stanco e costernato per il tempo che avevo inutilmente perso dietro ai treni, io, personaggio pirandelliano, con traumi pirandelliani, da tempo abitante di luoghi non pirandelliani, feci la conoscenza di Peter Weinberg, 45 anni, spiaccicatosi davanti a me dopo un salto dal trentacinquesimo piano del grattacielo, il City-Hochhaus Leipzig.

Che a Lipsia, la Klein Paris, mein Leipzig lob’ ich mir, la nuova Berlino, dove si organizzavano rave nei cantieri, in cui i baristi ubriachi – non avevo mai visto una barista ubriaca prima di allora – ti servivano da bere Clubmate e vodka, che a Lipsia, dove tutti erano Künstler e affittavano un atelier, città di palazzi abbandonati – guardavo sempre con fascino l’hotel Astoria di fianco alla stazione, chiedendomi come un edificio del genere potesse restare così, senza scopo? –, palazzi nei quali i giovani, che avevano tutti figli come se fosse cosa da poco, organizzavano proiezioni dei film di Fellini: com’era possibile che a Lipsia, dove esplodeva il mondo, lui avesse deciso di farsi esplodere la testa buttandosi dall’ultimo piano di un grattacielo? Ne scrivo adesso perché mi accorgo di non essermi mai veramente confrontato con questa cosa che mi era successa: ricordo, passeggiando, di aver sentito un botto, e allora io pensai: “oddio, stanno sparando”; i giovani davanti alla mensa, che armeggiavano con lo skateboard, scapparono tutti, urlando a squarciagola: “du scheiße, du scheiße”.

Un uomo giaceva in una pozza di sangue, una grande macchia rotonda che nella mia memoria partiva dalla testa e si espandeva come un sole rosso lungo tutta la piazza, con i suoi raggi, rivoli di sangue, che cercavano di catturare la nostra attenzione. Mentre scrivo torna in me la stessa inquietudine che provai nel voltarmi, nel coprirmi gli occhi, nel difendere me stesso contro quella visione che avevo paura potesse imprimersi in maniera indelebile nella mia memoria. Non immediatamente avevo capito che si era lanciato dal grattacielo: dopo che una piccola folla si fu radunata davanti all’uomo, sentii qualcuno dire nee, ist gesprungen. Quel botto, dunque, non era uno sparo, era stato lui, era stato prodotto dal suo corpo. Ho sempre pensato alla morte come a un fatto privato, come la nascita, qualcosa da condividere solo con i tuoi cari: ho immaginato il momento della morte come una vecchietta che sta per morire e che aspetta che il figlio torni dal lavoro per prendergli la mano – caro mio, stringimi la mano – e spirare, mentre lo stoppino di una candela bianca si consuma e alla fine si spegne. In quel momento, oltre alla stessa inquietudine che sto rivivendo adesso mentre scrivo, ho provato anche rabbia: perché avevi voluto condividere qualcosa di così intimo e privato con noi, persone del tutto sconosciute che casualmente eravamo lì? Perché hai voluto che ti vedessimo dall’interno?

Penso ancora oggi che tu ci avessi obbligato a conoscerti, senza darci la possibilità di dimenticarti, perché fare un incontro del genere con una persona in un momento così delicato della sua vita non si può dimenticare mai; tu, invece, non avrai mai la possibilità di conoscerci. Non sono al corrente ancora oggi dei motivi per cui tu abbia compiuto quell’ultimo passo: me ne andai dopo che fu arrivata l’ambulanza, indignato che qualcuno andasse lì da te a guardarti da vicino; ero rimasto a lungo prima del suo arrivo, quasi a tenerti compagnia, con rispetto, non immaginando che quegli interminabili minuti avrebbero turbato a poco a poco il mio inconscio, fino ad adesso. L’indomani in ufficio, situato proprio di fronte al luogo dell’accaduto, a piano terra, chiesi in giro ai miei colleghi: mi avevano detto qualcuno dal Ticketbüro aveva assistito alla scena da dentro. Nessuno sapeva, tuttavia, chi fosse quell’uomo. Spulciai tutti i notiziari locali, le Radiosendungen, nulla di nulla: nessuno parlava di questo avvenimento, come se non fosse mai accaduto.

“Di sicuro non vogliono dare la stessa idea ad altri spostati di mente”, mi disse qualcuno che oggi non ricordo. La tua vita era diventata così insopportabile che avevi deciso con un salto di liberartene; quella stessa tua vita, in modo casuale, era diventa per me un’ossessione; allo stesso tempo, direi che la nostra relazione era anche di tipo causale: se tu non ti fossi spinto, la tua vita per me non sarebbe mai stata interessante; o per lo meno, non ti avrei potuto conoscere, dandoti un nome. Cosa ti avrà spinto giù dal trentacinquesimo piano: debiti? Depressione? Una doppia vita che non riuscivi a gestire? Mancanza di attenzione? La mia l’hai avuta. Per giorni non riuscii a pensare ad altro, rifugiandomi nelle congetture pocanzi nominate. Ho anche fatto un sogno una volta, uno di quei sogni vividi che la mattina mi lasciano smarrito sopra al letto: qualcuno, non so se una mia amica o un qualche genere di strega, mi stava leggendo le carte. Erano delle carte strane, scure, mai viste prima: lo sfondo era nero, e gli arcani erano accennati con un tratto argentato e dorato. La carta che pescai era un arcano a me sconosciuto, e che difatti non esiste. In basso si leggeva THE FALL OF THE KNIGHT, in lingua inglese, e i caratteri componenti il nome della carta sembravano scritti a mano, in stampatello; e, pareva, da una mano nervosa, dato che c’erano più tratti a formare la stessa lettera. La carta vedeva al centro un cavaliere, ma non era un cavaliere di qualche seme, no, era proprio un nuovo arcano, che il mio cervello aveva gestaltet in quel momento, per me. Un qualcosa di simile l’avevo già vista: una volta mi sono state regalate delle carte, i tarocchi delle vetrate, il cui cavaliere di coppe viene raffigurato mentre cade da cavallo perché ebbro di vino. Significato: attento a non esagerare.

Qui il messaggio era un altro: THE FALL OF THE KNIGHT rappresentava con tratti violenti un cavaliere che cadeva da cavallo, perdendo la spada, e nel cadere, moriva. Questo non era un avvertimento: il significato era proprio rovina. Quel sogno mi turbò per giorni, a lungo ci sono ritornato sopra, rimuginandoci: solo di recente ho capito che quel cavaliere eri tu, che non hai mai cessato, dentro la mia testa, di buttarti dal trentacinquesimo piano. Le congetture che mi son fatto dentro di me sono state milioni: ti avrei incontrato lo stesso se non avessi cercato di liberarmi dal giogo delle catene prendendo la metro nella direzione opposta? Es war Mord? Oppure è stata una punizione essermi trovato di fronte alla morte – nel vero senso della parola – ? Non posso fare a meno di farmi le stesse domande che le persone si fanno dai tempi dell’oracolo di Delfi: siamo noi a costruire il nostro destino man mano oppure è tutto scritto dentro a un libro? Era scritto da qualche parte il fatto che dovessi trovarmi proprio lì nel momento in cui tu cadevi rovinosamente dal tuo cavallo? E chi lo sa: so solo che dopo quell’incontro anche a me toccò aspettare i treni, come tutti gli altri.

 

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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