Tre donne
di ⇨ Paolo Marco Durante
Che cos’è che rende un film – magari un bel film ma non per forza un capolavoro assoluto – indimenticabile?
Le ragioni possono essere tante: il cast, il soggetto, la sceneggiatura, la fotografia, la colonna sonora e molto altro, o forse tutte queste cose messe insieme. Può accadere però che si tratti solo un volto, o un’inquadratura, magari una sequenza, o una canzone inserita nella storia, ciò che lascia quel segno indelebile. E allora il film – capolavoro o no – continuiamo, nel tempo, a ricordarlo proprio e soltanto per quel viso, per quella scena, per quella canzone.
Ecco dunque il (labile) motivo di questo tre donne (forse quattro…): di tre canzoni e dei tre film che le contengono. Film che, pur non essendo capolavori assoluti (anche questo, però, è tutto da dimostrare), non si possono certo dimenticare.
I tre film: Mai di domenica (Poti ton kyriaky) 1960 – Colazione da Tiffany (Breakfast at Tiffany’s) 1961 – Jules et Jim, 1962. Regia, nell’ordine, di Jules Dassens, Blake Edwards, Francois Truffaut. Rispettivamente con: Melina Mercouri, Audrey Hepburn, Jeanne Moreau.
Tre donne sovversive, anarchiche, indomabili, meravigliose, stracolme di vita e d’amore, di ribellione e di malinconia che cantano tre canzoni.
Le tre canzoni: Ta pedià tou Pirea – Moon River – Le tourbillon de la vie.
Tre donne indimenticabili, tre canzoni indimenticabili.
Quindi anche tre film, per forza di cose, indimenticabili.
Ascoltare – e guardare – per credere.
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Quelle tre canzoni non sono colonna sonora. La colonna sonora di un film ha un carattere denotativo, didascalico, riempitivo, a sottolineare ed enfatizzare momenti che si vorrebbero particolarmente significativi per lo spettatore. Nel caso di queste tre canzoni risalta invece il tentativo di mostrare, attraverso un diverso linguaggio, la musica – e chi la interpreta – qualcosa che il film vorrebbe far intendere, un significato “altro” da comunicare, ma che le immagini, da sole, non riescono a rendere del tutto evidente. Un momento di stacco espressivo particolarmente efficace ed eloquente.
Pulp fiction, film considerato un capolavoro e straconosciuto soprattutto per quel twist strabiliante sulla musica travolgente di Chuck Berry, senza You never can tell e la lunga strepitosa sequenza forse non avrebbe avuto tutto quel successo. E per quello viene ricordato dai più. È proprio ciò che si cercava di sottolineare: certe canzoni e certe scene “dicono” su alcune pellicole molto più di quanto tutti i fotogrammi del film stesso possano suggerire.
Un esempio, uno solo, per la narrativa: il successo clamoroso di un libro, Il profumo, di Patrick Süskind è dipeso, almeno in parte, più che dalle parole con cui il libro è scritto (ottime comunque) dal titolo e da ciò che viene evocato attraverso i profumi: l’odore di ogni cosa che esiste, il vissuto di tutti, quello che gli odori appunto, più veloci della luce, riportano alla mente alla memoria e al cuore.
Les parfums les couleurs et le sons se réspondent (Correspondances, 1857) aveva scritto Baudelaire. E nel manifesto futurista La pittura dei suoni, rumori, odori (Milano, 11 agosto 1913), si affermava che la pittura fino ad allora era stata l’arte del silenzio ma che da quel momento in poi si sarebbe aperta invece ad altri linguaggi, ad altri universi. In realtà era stato Kandinskji, qualche anno prima, a far sì che la pittura parlasse anche con la musica, con altre emozioni e di altri sensi, in una modalità sinestetica, associando elementi appartenenti a sfere sensoriali diverse che, partendo lontane, convergevano tutte verso lo stesso punto.
Si può guardare anche alle arti visive contemporanee per averne qualche esempio: Mario Merz, attraverso l’uso di linguaggi teoricamente lontanissimi dall’ambito delle arti visive, una proporzione matematica in questo caso, la serie di Fibonacci, fa intendere la divina proportione della natura e le sue trasformazioni, la fillotassi di una pianta, l’albero genealogico di un fuco, la conchiglia di un nautilus, una pigna, un cavolfiore, una galassia. Attraverso un idioma non tipico delle arti visive l’artista riesce a donare bellezza, armonia e significato, un significato più alto, e a esaltare le qualità formali e sostanziali dell’ opera stessa. Così Damien Hirst, il quale attraverso l’uso di materiali organici come uno squalo in formalina, ali di farfalle ecc. – un linguaggio appartenente alle scienze biologiche – parla in realtà di filosofia, della fragilità delle cose, della morte, in una modalità elegantissima, complessa e irta di senso.
La poesia – lirica si chiamava presso gli antichi Greci – un tempo era interpretata, evocata ed esaltata proprio dalla musica, dal canto.
Tornando al cinema, si può dunque sostenere che ci sono certe canzoni, inserite nel contesto di alcune pellicole, che fanno “sentire” e capire un film, spesso meglio e più delle immagini. Così, su due piedi, verrebbe in mente ancora qualcosa, ad esempio Judy Garland, in Over the rainbow (Il mago di Oz), ma sarebbe un errore perché in quel caso si tratta di un film musicale. E allora la canzone (stupenda) si trova a tutto titolo inserita nello svolgimento narrativo della pellicola. Sarebbe troppo facile infatti considerare i musical. Da Cappello a cilindro – il primo in cui i numeri musicali costituiscono parte integrante della narrazione e non esibizioni a parte – a My Fair Lady, da West Side Story a Jesus Christ Superstar, da Hair a Grease, da Mary Poppins a Evita, da Cabaret a Moulin Rouge, da Cantando sotto la pioggia a The Blues Brothers e via di questo passo: una quantità di canzoni fantastiche, non si finirebbe più. Per rimanere invece nei film veri e propri, superclassici in questo caso, si dovrebbe allora ricordare As time goes by in Casablanca, Que sera sera in L’uomo che sapeva troppo (in cui il motivo diventa però parte integrante del plot), Marilyn Monroe che canta I wanna be loved by you in A qualcuno piace caldo.Più difficile cercare in un passato meno remoto. Ci si è logicamente limitati a quei film che contengono il – o più spesso la – protagonista che interpreta un motivo apparentemente fuori del continuum narrativo. Non sono state prese in considerazione tante canzoni inserite a tutto titolo nel commento musicale stesso, elementi dunque costituenti e portanti della colonna sonora. Un esempio: Amapola, che percorre tutta l’idea melodica ed emotiva di C’era una volta in America.
Sono invece proprio quei temi inseriti apparentemente fuori contesto, come espediente narrativo, come pausa, come riempitivo, come belletto, che risultano pressoché ingiustificati, ingredienti quasi estranei alla narrazione, a volte disturbanti o addirittura perturbanti, a costituire invece, spesso, la quadratura del cerchio, a completare, a connotare la lettura del film in modalità certamente più ricche di senso. Il rapporto tra film e canzone diviene quindi in quei casi fondamentale, fornendo una strategia di lettura e di visione prima neppure immaginata, innescando emozione.
Si parlava però di film e di donne. Indimenticabili. Si voleva “raccontare” (per usare l’abusata terminologia oggi di moda, del linguaggio unico) di emozioni, di film, di musica, di donne. Ecco allora, per riportare il discorso proprio sul piano delle emozioni, tornare alla memoria, prepotente, un’altra musica (anche quella ormai antica) e un’altra scena di una pellicola sicuramente indimenticabile, un grande capolavoro in questo caso, senza alcun dubbio. E ancora un’altra donna: andare a rivedere infatti, dovrebbe essere d’obbligo, il lunghissimo piano-sequenza conclusivo, meraviglioso e straziante, de Il terzo uomo (The Third Man, Carol Reed, 1949) probabilmente il più bel finale di film di tutti i tempi, con il suo Harry Lime Theme, di Anton Karas. E con un ritratto al femminile, interpretato da una stratosferica Alida Valli, di cui non si può far altro che tacere, e restare a bocca aperta. Non era stato inserito nel brevissimo elenco iniziale poiché non si trattava di una canzone in un film ma solo di un indescrivibile, strepitoso brano di uno delle colonne sonore più belle mai scritte, eternato da una presenza femminile impressionante, sconvolgente. Una musica che pizzica l’anima, dolcemente e dolorosamente.
E un’altra donna di cui siamo tutti – come il povero Holly Martins – disperatamente e vanamente innamorati.