Te Diegum, Bolaño
«Cosa si vede dalla finestra?»: Roberto Bolaño e io
di Giovanni di Benedetto
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«Come quei versi di Leopardi che Daniel Biga recitava su un ponte nordico per armarsi di coraggio»
Il 25 novembre 2020 avevo un appuntamento dall’oculista. Volevo cambiare i miei occhiali da vista e cercare un modello con una montatura che rendesse manifesta la mia adesione intellettuale alla corrente trotzkista del surrealismo. Nella sala d’attesa, mentre stavo consultando un catalogo, ricevetti un messaggio di mio padre in cui mi annunciava la morte di Diego Armando Maradona. Fui profondamente turbato. Un’improvvisa e rapidissima associazione d’idee mi portò ad interpretare la morte di Maradona come un oscuro presagio. Ebbi soltanto pochi istanti per riprendermi dallo smottamento del cuore provocato dalla notizia e dal turbamento dell’oscuro presagio poiché l’oculista aprì la porta del suo ufficio invitandomi ad entrare. Dopo aver svolto gli esami di routine e consultato i risultati mi disse che soffrivo di una patologia genetica che avrebbe potuto rendermi improvvisamente cieco. Per descrivere il tipo di cecità che avrei potuto avere, per l’esattezza, aveva utilizzato l’aggettivo “fulminante”.
Così, all’improvviso, il mondo avrebbe potuto volgersi nel nero, nel rumoroso silenzio della rappresentazione del mondo priva delle immagini. D’un tratto si realizzarono due dei miei peggiori incubi : l’annuncio improvviso di una patologia terrificante e la proiezione di una vita nella quale l’apparenza del mondo confinava con l’immagine della morte. Il vuoto, il nulla. Quando mi ritrovai per strada iniziai a correre a perdifiato fino a raggiungere casa. Chiusi la porta e iniziai a piangere. Poi chiamai mia madre ma non ricordo bene cosa mi disse o cosa avesse cercato di dirmi per rincuorarmi, ma non erano parole di consolazione, erano parole d’amore materno, la cosa più lontana dalla consolazione. Riagganciai e mi trovai di fronte alla mia biblioteca. Immaginai la vita senza poter più leggere, pensai ad alcune poesie di Borges e a dei versi del Purgatorio di Dante di cui però non riuscivo a ricordare con esattezza l’ordine e la successione delle terzine e degli endecasillabi. E poi mi ricordai di un testo di Bolaño che parlava della malattia. Presi il libro e iniziai a leggerlo in piedi, andando avanti e indietro nei trenta metri quadri del mio appartamento. Trenta metri quadri sono pochi, ma non pochissimi. Sono comunque più grandi di una cella di cinque metri quadri, per dire. Ma il peso dell’oscuro presagio pendeva sul mio avvenire e la promessa della cecità rendeva quei trenta metri quadri soffocanti come i cinque di una cella. Le parole di Bolaño, ancora una volta, mi salvarono e, come in una sua poesia, mi armarono di coraggio.
2. La chair est triste, hélas, et j’ai déjà lu tous les livres
In Letteratura + Malattia = Malattia, Roberto Bolaño ci offre un saggio in forma di racconto autobiografico nel quale racconta, tra le varie cose, una visita al suo medico, Victor Vargas. Vargas è l’epatologo di Bolaño, all’epoca già affetto d’una grave malattia al fegato che poco tempo dopo lo porterà alla morte. Nel testo Bolaño racconta lo sconforto e la depressione che seguirono la visita a Vargas. Poco prima di congedarsi, una dottoressa al corrente della sua malattia lo invita a sottoporsi a dei test supplementari. Bolaño si dice d’accordo e la dottoressa lo conduce verso un ascensore. Quando le porte si aprono Bolaño osserva la presenza di una « lettiga » nel mezzo del grande ascensore.
La scena è quasi una variazione della descrizione della bellezza fatta da Lautréamont e tanto cara ai surrealisti. La bellezza è dovuta al sorgere di una fantasticheria nella quale Bolaño immagina di fare l’amore con la dottoressa sulla lettiga, facendo vincere l’impulso vitale del sesso su quello mortifero della malattia. L’associazione di idee conduce Bolaño a ricordarsi di un film con Susan Sarandon e Sean Penn nel quale questi recita il ruolo di un condannato a morte. Bolaño si ricorda di una scena del film in particolare, quella in cui Sean Penn chiede a Susan Sarandon di fare l’amore. La donna, con un tono di rimprovero, chiede a Sean Penn come possa « pensare a scopare se gli restano pochi giorni di vita ». Bolaño commenta la scena evidenziando come sia evidente che il regista non sia mai stato in un braccio della morte, poiché «scopare è l’unica cosa che vogliono quelli che stanno per morire». Scopare certo, ma lo stesso vale per la scrittura e la letteratura. Non è un caso che questo prologo narrativo permetta a Bolaño di fare una transizione con l’interpretazione di una poesia di Mallarmé, Brezza marina, il cui incipit recita : « La chair est triste, hélas, et j’ai déjà lu tous les livres ». Cosa voleva dire Mallarmé con questo verso, si interroga Bolaño. Che « aveva letto a sazietà e scopato a sazietà ? Che a partire da un determinato momento ogni lettura e ogni atto carnale si trasformano in ripetizione ? Che l’unica cosa che rimaneva era viaggiare ? Che scopare e leggere, alla fine, diventava noioso, e che viaggiare era l’unica via d’uscita ? »
Bolaño risponde dichiarando che a suo modo di vedere le cose la poesia parla della malattia, della «lotta che la malattia ingaggia contro la salute». E la malattia di cui parla Mallarmé nella poesia, prosegue Bolaño, è qualcosa che simbolizza la rassegnazione. La rassegnazione a vivere. Un sinonimo della sconfitta a cui solo possono opporsi, per quanto invano, la lettura e il sesso, due movimenti dello spirito che servono a designare la stessa forma di resistenza alla malattia, all’accettazione rassegnata della realtà. I libri e la carne, il sesso e la lettura come possibilità disilluse di trasformazione del reale. A questo punto Bolaño dice che ciò che sembra suggerire Mallarmé in questa poesia è la cosa da fare quando tutte le differenti possibilità combinatorie di rimandare la morte si sono esaurite : il viaggio. E il viaggio, secondo Bolaño, è «il primo gradino di un certo apprendistato poetico». La poesia di Mallarmé diventa così per Bolaño la dimostrazione di un paradosso dell’assurdo: l’esperienza del mondo necessita di poesia (il sesso e la lettura), ma la poesia necessita dell’esperienza (del viaggio).
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Tu as bien fait de partir, Arthur Rimbaud!
Cosa si trova al termine del viaggio?, si chiede Bolaño. È Baudelaire a rispondergli: «un’oasi di terrore in un deserto di noia». E dopo Baudelaire è Arthur Rimbaud ad essere convocato all’appello, come l’esempio di colui che si è immerso «con identico fervore nei libri, nel sesso e nei viaggi, solo per scoprire e comprendere, con lucidità adamantina, che scrivere non ha la minima importanza». Rimbaud, secondo Bolaño, sembra mostrarci, tramite la sua stessa esperienza, come la vita del poeta sia «una battaglia persa in anticipo, come quasi tutte le battaglie dei poeti». Eppure è proprio questo tentativo di sondare l’abisso, questo tentativo di andare al di là dello scacco, della sconfitta e dell’assurdo che fa della vita qualcosa da esplorare, qualcosa da sperimentare in tutta la sua pienezza, tramite un «dérèglement de tous les sens», che definisce l’etica fondatrice dell’essere poeta. Quello proposto da Rimbaud è un metodo, un metodo sperimentale nel quale la vita, alla stregue di un’esperienza del metodo scientifico, deve essere sperimentata, deve reagire con tutti i reagenti chimici che le si oppongono, per essere dimostrata.[1]
I personaggi che popolano l’opera di Roberto Bolaño, sembrano tutti seguire questo metodo. Talvolta, mi sembra ascoltarli urlare in coro, per darsi coraggio, una poesia di René Char : «Tu as bien fait de partir Arthur Rimbaud!». In ogni caso, questo è quanto ripetevo nella mia testa durante il tragitto che da Napoli mi avrebbe portato a Parigi il 6 aprile 2013, il giorno in cui decisi di partire e reinventare la mia vita, sperimentarla per poi, un giorno, poterne scrivere. Il mese prima avevo terminato di leggere I detective selvaggi. Era questa la mia maniera di rispondere all’indovinello con il quale termina il romanzo: «Cosa si vede dalla finestra?».
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Il surrealismo in clandestinità
Nel racconto Commedia dell’orrore in Francia, Bolaño fantastica su una frase detta da André Breton poco prima di morire riguardo la necessità per il surrealismo di entrare nelle catacombe e di agire in clandestinità. Un giovane poeta di 17 anni, Diodoro Pilon è invitato ad integrare il Gruppo Surrealista Clandestino. I surrealisti clandestini vivono nel sottosuolo, nelle fogne di Parigi. Ed è lì che preparano la rivoluzione, che sarà surrealista o non sarà: : «transformer le monde, a dit Marx. Changer la vie, a dit Rimbaud. Ces deux mots d’ordre pour nous n’en font qu’un». Il giovane Diodoro si interroga sulla natura delle fogne: metafora o luogo nel quale si riversano le scorie umane?
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Ficcare la testa nel buio
Quando nel maggio 2021 sono stato operato agli occhi, la dottoressa mi ha detto che l’intervento non era risolutivo e che soltanto quando sarei diventato vecchio e sarei stato operato per la cataratta, il rischio della cecità fulminante sarebbe scomparso. Il mio apprendistato poetico è finito quel giorno. Mi era ormai chiaro cosa volesse dire Bolaño quando spiegava che la scrittura è «saper ficcare la testa nel buio, saper saltare nel vuoto». Avrei corso «sull’orlo del precipizio» e, fino a quando ne sarei stato capace, avrei scritto facendo della mia scrittura la mia patria.
La notte sognai Roberto Bolaño invitarmi cordialmente a far parte del Gruppo Surrealista Clandestino. Naturalmente, ho accettato. Non c’è stata cerimonia d’iniziazione.
articolo pubblicato in francese sull’Atelier du Roman
[1] « A me, a vent’anni, più che scrivere poesia […] quello che mi interessava, quello che davvero volevo, era vivere da poeta, anche se adesso non saprei dirti cosa significasse, per me, vivere da poeta. Per me, essere un poeta voleva dire, allo stesso tempo, essere rivoluzionario e restare completamente aperto a qualsiasi manifestazione culturale, a qualsiasi espressione sessuale, insomma aperto a tutto ». Intervista di Eliseo Alvarez, «Le posizioni sono le posizioni e il sesso è il sesso», in Roberto Bolaño, L’ultima conversazione, trad.it. di Ilide Carmignani, Sur, 2012, p. 57.
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Grande pezzo. Grazie.