Malanotte – racconto inedito

di Gabriele Galligani

Malanotte

racconto inedito

Apre gli occhi. Sul soffitto della cameretta la spuma dei sogni arretra al riaffiorare dei ricordi. Quando stropiccia le palpebre, sente il trucco pizzicarle il viso. I suoi piedi scivolano fuori coperta fino alla porta. La sua guancia si appoggia alla superficie senza che le orecchie incontrino rumori. Gonfia i polmoni per prepararsi alla scoperta e tira la maniglia, ma la porta resta chiusa. Molte ore ancora la separano dalla scuola di indomani.

«Ti sbrighi?!»

Chissà quante ore prima, il suo pugno aveva bussato al bagno. Era quasi il coprifuoco e la casa era ordinata come un albergo, non fosse stato per la muffa alle pareti e gli aloni dei mobili assenti. «Ho sistemato tutto, Silvia!»

Nessuna risposta era giunta dal bagno e la bambina aveva ricacciato giù la sensazione di venire esclusa. Il suo occhio si era avvicinato alla serratura a guardare il caleidoscopio di colori, mentre la puzza di fumo iniziava a infastidirle le narici.

«Dobbiamo sbrigarci!»

Aveva controllato attorno che non fossero rimasti indizi di sé: anche fossero entrati a casa loro, gli spazzacattivi non dovevano trovarla.

Aveva strattonato la maniglia inutilmente. Era corsa al ripostiglio dove aveva sottratto la chiave; anni di giochi solitari le avevano insegnato che le chiavi delle stanze di casa erano intercambiabili. Ma la porta del bagno si era aperta da sola e una donna ne era uscita scalza. Lungo fino a metà coscia, l’accappatoio le lasciava libere le gambe: «Hai sistemato tutto, Aurora?»

«Secoli fa ho sistemato, Silvia».

«Perché non mi chiami mamma come fanno le tue amiche?»

Aurora si era fermata a riflettere mentre la mano deponeva la chiave in tasca.

«Le mie amiche non ti chiamano mamma».

«A me no, perché non sono la loro mamma. Ma la tua, sì».

«Ti chiamerò mamma quando tu mi chiamerai figlia».

«Va bene. Non hai lasciato tracce per gli spazzacattivi, figlia

«Ovvio. Ma che facevi chiusa dentro?»

La donna aveva sorriso e se ne era andata in camera. Aurora le era corsa dietro cercando di seminare il senso di esclusione che la puzza di fumo le suscitava. «Facevi le cose dei grandi?».

La donna si era fermata allo specchio e la sua mano era affondata nel beauty case.

«Mi preparavo per dormire».

«E la puzza di fumo?»

Dopo un attimo di silenzio, la madre aveva risposto senza voltarsi: «Andava a fuoco la vasca e l’ho spenta».

Aurora si era bloccata e il suo cervello aveva preso a macinare: «Va a fuoco quando l’acqua è caldissima?»

La madre aveva annuito mentre la punta della matita le sfiorava l’occhio: «Sì, ma solo dopo una certa ora».

«È per questo che si chiama coprifuoco?».

La fronte corrucciata le dava un’aria da cartone buffo. Gli occhi rifiniti di nero della madre si erano voltati a guardarla. Aurora adorava trattenere la sua attenzione e sarebbe restata ore con gli occhi in quelli della donna, se il cellulare non avesse ronzato. La donna l’aveva estratto dall’accappatoio e zittito con un tocco, dopo aver controllato lo schermo.

Aurora aveva raddrizzato il collo: «Chi ci chiama a quest’ora?»

«Nessuno ci chiama. Avevo messo una sveglia».

«Sveglia? Per cosa, se andiamo a dormire?»

«Per sbrigarci e non fare tardi».

«E perché ti pitturi il viso?»

La madre aveva sorriso e una ventaglio di rughe minuscole si era aperto alle estremità degli occhi: «Per essere bella nei sogni».

«Anch’io voglio essere bella in sogno».

Gli occhi della bambina avevano seguito le mani della madre che appoggiavano il cellulare. La donna le aveva camminato incontro con lo sguardo delle cose serie e si era inginocchiata.

«A te non servono trucchi».

«Ma voglio colorarmi la faccia».

«Prima o poi lo potrai fare».

«E quando?»

La madre aveva sorriso: «Tra un bel po’».

«Quando dici un bel po’ vuol dire che non succederà mai».

La madre aveva alzato il braccio ad accarezzarle i capelli, mentre gli occhi della bambina scendevano a vagare nella scollatura per sfuggire all’espressione triste della donna.

«Speriamo».

La madre era risalita a livello adulto con fatica, aveva raggiunto l’armadio e si era sfilata l’accappatoio: «Corri a letto che arrivo per la buonanotte».

«La buonanotte? Non dormiamo insieme?»

«Stanotte no».

Aurora aveva fatto due passi prima di fermarsi davanti al cellulare incustodito. Aveva gettato un’occhiata alla madre nascosta dietro l’anta e aveva allungato la mano come a sottrarre una caramella. Aveva premuto l’unico tasto e si era imbattuta nella richiesta del codice a quattro cifre. Immaginando fosse una parola magica per superare il livello, si era chiesta quale numero fosse così importante per sua madre. Aveva composto le cifre del proprio giorno-della-torta, ma lo schermo aveva tremato come scuotendo la testa a negarle l’accesso. La sua bocca si era piegata per la delusione di essere esclusa, un’altra volta.

«Quando è il tuo giorno-della-torta, mamma?»

«Perché, figlia?» Parti del corpo della donna sbucavano da dietro l’anta di tanto in tanto.

«Per farti una torta!»

«Non serve».

«Non serve?», Aurora si era fermata a rovistare nel cervello: «Tutte le mie amiche fanno la torta alle loro mamme!»

«Va bene. Il quindici marzo».

Le unghie smangiucchiate si erano mosse a digitare le cifre. Il cellulare era stato un secondo immobile. Poi, come generandolo dal nulla, lo schermo aveva materializzato uno scambio di messaggi.

La maestra non aveva avvisato Aurora del dolore che provoca il saper leggere. La piccola si era tenuta al ripiano mentre il petto aveva tremato per la bugia: non avrebbe mai creduto che la scoperta che gli spazzacattivi non esistono potesse provocarle quel dolore. In realtà, non avrebbe mai creduto che potesse esistere, quel dolore.

Dopo che nessuno, a casa come a scuola, era mai riuscito a spiegarle cosa fosse la morte, quel messaggio le rivelava come tutto il bello vissuto nei sette e passa anni precedenti fosse finto, un inganno inscenato da colei che ti ha messo al mondo: ti ha promesso la felicità e poi ti esclude mandandoti a letto mentre gli altri fanno festa.

Il beauty stava incustodito poco sopra la sua spalla. L’apertura zigrinata era semiaperta come una bocca da cui la lingua dispettosa del rossetto faceva capolino. Aurora aveva spalmato di nero gli occhi e preso a colorarsi il viso come se lo specchio in cui si rifletteva fosse un ritratto da pasticciare.

Quando il busto della madre l’aveva affiancata nello specchio, quattro occhi dipinti avevano preso a studiarsi dentro la cornice. La mano della donna aveva acchiappato il braccio della bambina.

«Non è il momento, ti ho detto».

Aveva tentato di spostarla piano, ma Aurora si era dimenata facendo cadere il rossetto aperto. Una striscia rossa e sottile si era allungata a terra, come traccia del sorriso che Aurora non aveva più. «Sei una bugiarda. Non esistono gli spazzacativi, non esiste babbo natale e magari neanche i pompieri».

Lo schiaffo le era piovuto sopra come un temporale.

Immobilizzata da una sensazione mai provata, Aurora aveva osservato le stanze di casa scorrerle davanti agli occhi mentre la madre la trascinava via. Solo una volta ingabbiata sotto il peso del piumino, aveva sentito la voce della donna parlarle calda.

«Dammi la buonanotte, dormiamo e dimentichiamo tutto».

Aurora aveva sbattuto le palpebre senza staccare lo sguardo dal soffitto: coperto dal velo di lacrime, le sembrava il fondo di una piscina quasi vuota.

La madre si era fermata un’ultima volta dietro l’uscio. Aurora aveva visto il ventaglio di luce restringersi e udito la serratura chiudersi. Si era promessa di non dormire, ma il sonno le era crollato addosso prima che il fuoco dello schiaffo sulla guancia  fosse estinto.

 

A sette anni, la notte è un oceano che separa i continenti diurni. Aurora guarda la porta dietro cui era scomparsa la madre chissà quante ore prima. Porta la mano alla tasca e afferra la chiave sentendosi protagonista di un gioco ben congegnato: nel livello precedente se ne era impossessata e solo per questo potrà proseguire. Si sistema i capelli e avvicina la chiave alla caverna della toppa. Malgrado ci metta tutta la delicatezza delle sue mani bambine, lo scattare della serratura straccia il silenzio come fosse un foglio di carta. Il cigolio che segue è come quello di un forziere.

La notte copre le superfici di casa col suo lenzuolo scuro. Aurora avanza finché il bagliore della finestra la richiama. Quando la raggiunge, riconosce il riflesso del proprio viso sul vetro. Il verde degli occhi è grigio e altri colori messi a caso le coprono le guance fino al mento: il trucco seccato la fa sembrare figlia di un clown in malora. Dietro la propria faccia impalpabile, o davanti, oltre a lei oppure dentro di lei, vede le strade, i tetti, i parchi e i lampioni della città. Allunga il dito sul vetro a contare le palle di luce crepitanti. Prova a farle scoppiare come bolle di sapone, mentre si chiede se è forse quello il divertimento da cui la madre vuole escluderla.

Non sembrano umane le voci che si avvicinano. Quando si volta, la porta d’ingresso si sta aprendo. Aurora percorre il corridoio e si rifugia nella stanza, dove il lettone della madre è liscio come se nessuno l’avesse mai sfiorato. Le voci occupano la casa mentre la porta esterna si richiude. Le risa risuonano in camera un attimo dopo che Aurora si è murata viva nell’armadio. Le pareti sono fredde contro le sue braccia. Il profumo di lavanda la stordisce malgrado le prese d’aria nelle ante, feritoie orizzontali che l’accecano quando la luce in stanza viene accesa.

La madre ride come non l’aveva mai sentita: una risata tagliente che non comunica gioia ma reclama attenzione. Dagli spiragli, vede un uomo bloccarsi sull’uscio. Quell’uomo le sembra uguale a tanti altri.

«Hai figli?»

«No».

«E questo?» L’uomo sventola un disegno che Aurora deve aver lasciato chissà dove.

«L’ho fatto io», risponde la madre.

«Allora siamo soli?»

Aurora guarda il profilo della madre. Sono così vicine che, se allungasse il braccio, la toccherebbe.

«Solissimi», la sente dire.

Il colpo della schiena contro l’anta la fa sobbalzare dentro. La notte scende nell’armadio e dura a lungo. Pochi centimetri di legno separano Aurora dai corpi che coprono la luce e gemono come in lotta.

Quando i due s’allontanano, gli occhi della piccola faticano a vedere. Oltre le feritoie, nella stanza è calata la penombra. La testa della bambina si svuota e i pensieri la abbandonano, mentre gli abiti appesi nell’armadio le pendono sulle spalle come fantasmi senza gambe di persone ormai andate. I due corpi sono una massa accartocciata a terra: uno straccio contorto sul pavimento che si muove a cancellare la macchia di rossetto che Aurora ha creato.


 

Gabriele Galligani insegna italiano, storia e geografia alle scuole medie e audiovisivo e multimediale alle superiori. Suoi racconti sono usciti online e su antologie italiane ed europee. Il suo romanzo d’esordio, “Transagonistica” è pubblicato nel 2021 da Battaglia Edizioni con prefazione di Wu Ming 2.

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