Voce di donna. All’inizio, il primo tempo
di Paola Taboga
1.
Nel cinegiornale della mia infanzia ci sono io bambina e c’è Luisella bambina.
Mia sorella sarebbe arrivata anni dopo.
Mia madre ha sempre avuto una vera ossessione per l’ordine e la pulizia. Il suo stratificato compendio di regole assicurava uno stato casalingo di grazia profumata e incorruttibile igiene che rendeva la fruizione della casa materia non negoziabile. Non mi era certo concesso di invitare le amiche.
L’unica eccezione era Luisella. Abitavamo nello stesso condominio. Noi al terzo piano e la famiglia Montagna – Luisella e sua mamma – al secondo. Luisella aveva perso il padre molto presto, non l’aveva mai conosciuto.
È stata questa mancanza a intercedere per una frequentazione così stretta.
Di ritorno dalla scuola, Luisella scendeva dall’ascensore al secondo piano e io proseguivo al terzo. Dopo la merenda e la telefonata alla mamma in ufficio, Luisella saliva a casa nostra per starci fino a sera. Andavamo in cameretta a fare i compiti, a giocare, leggevamo i giornalini, oppure ci fermavamo in salotto a guardare la TV dei ragazzi. A un certo punto, avevamo preso ad ascoltare anche qualche 45 giri nel mangiadischi di plastica arancione di Luisella e a parlare di altre cose sempre più importanti: “ma dove si mette la lingua quando si bacia un ragazzo?” e parole come “mestruazioni” e “spermatozoi” facevano oramai parte del nostro lessico.
C’erano due rampe di scale fra il secondo e il terzo piano. Spesso anche mia mamma – dopocena, dopo aver lavato i piatti – scendeva per andare a fumarsi una sigaretta “in Montagna”. Succedeva che anch’io la seguissi, per ritagliarmi così una porzione extra di gioco con Luisella. Papà qualche volta aveva protestato di fronte al fatto di rimanere solo. Poi, a un certo punto, non aveva detto più nulla.
E io, ogni tanto, mi costringevo a rimanere a casa con lui, spinta da una sorta di istinto.
Per risarcire quella sua solitudine. Quei rimbalzi di indifferenza.
Ma mi era anche capitato, mentre ero a casa di Luisella, di ascoltare i discorsi delle due mamme. E spesso avevo sentito mia madre lamentarsi dei lunghi e secchi anni del suo matrimonio. Non saprei dire cosa replicasse la madre di Luisella. Forse ascoltava e basta. Ricordo molto bene, invece, la novità che quelle parole portavano: una impercettibile fessura, una sottile cosa insolita, una minuscola anima nuova, dentro.
Qualche volta, la mamma di Luisella tornava tardi dal lavoro per gli “straordinari”, e io immaginavo qualcosa che, siccome accadeva di rado, dovesse essere davvero stupefacente. E poi la parola “straordinari” evocava proprio qualcosa di enorme e sbalorditivo. La guardavo sempre con attenzione quando tornava dagli “straordinari” per capire quale meraviglia l’avesse tenuta ancora più lontana da casa e da Isa. E poi, a causa degli “straordinari,” Luisella rimaneva da noi a cena, il che aumentava il fascino già straordinario degli “straordinari”.
Quella volta, era una sera con la solita spossatezza degli adulti, una stanchezza buona però, con una rara glassa di buonumore. Papà era già in poltrona e leggeva il Corriere della Sera. La mamma asciugava i piatti. Io e Luisella guardavamo la TV.
La signora Montagna era entrata, trascinando i piedi sulle solite pattine dell’ingresso, mentre si scusava: si sentiva sempre in grande imbarazzo quando faceva tardi, soprattutto quando c’era papà. Fra un “mi spiace tutto questo disturbo” e l’altro, io e Luisella guardavamo i grandi che parlavano da grandi, dandosi delle arie, ammiccando con quei sorrisetti, come se ci fosse qualcosa che potevano capire solo fra di loro. Noi eravamo escluse.
– Questa sera sono davvero esausta.
Stava dicendo la mamma di Isa. E anche la mia aveva annuito, mentre riponeva le posate nel cassetto.
E forse era stato per marcare il territorio da adulti, che il discorso era arrivato su noi, le figlie. Non so come, la signora Montagna aveva suggerito alla mamma di darmi un fratellino. Avevo avvertito qualcosa che si agitava nel petto. E qualcosa doveva essersi mosso anche in quello della mamma perché aveva buttato subito la palla dall’altra parte del campo.
– Lo faccio sicuro, cara signora Montagna, ma dopo di lei!
Si sono sempre date del lei le nostre mamme. A quel tempo, le confidenze avevano dei limiti.
– Oh, questo rischio io non lo corro di sicuro.
– Ma se ha bisogno, posso esserle d’aiuto…
La voce di papà.
La spaccatura della nuova anima si era fatta più larga e, premendo ai lati, l’aveva inchiodata in un vero dolore. Avevo avuto voglia di gridare. Di fare qualcosa di straordinario come gli “straordinari” della signora Montagna. Ero un ordigno in carne e ossa: pronta a esplodere. E mentre la mia piccola nuova anima stava perdendo quel pezzetto dell’incanto dell’infanzia, me ne ero uscita con una delle mie prime esternazioni. Quelle che avrebbero contribuito al formarsi del mio faticoso profilo identitario. Una specie di fuga in avanti, verso la mia verità.
– Io vado di là a leggere, sono proprio stanca. Ah, papà, per piacere, non sprecare così inutilmente i tuoi spermatozoi!
Avevo detto, sospirando. Mi ero voltata verso Luisella.
I nostri sguardi si erano incrociati attraversando l’aria del salotto che si era fatta diversa, più densa.
In quel silenzio, a testa alta, eravamo uscite dalla stanza, insieme.
Spalla a spalla. I respiri uguali. Con lo stesso passo.
2.
Andare a scuola dalle suore era un privilegio. Mi era stato ripetuto decine di volte.
Era costoso e la mia famiglia affrontava sacrifici notevoli per farmi varcare ogni giorno quel portone di legno enorme, sia per le elementari che per le medie, dove la qualità dell’insegnamento era migliore.
E, quindi, il mio impegno doveva dimostrarsi all’altezza.
Tutto emanava ordine, nella scuola delle suore. I nostri grembiuli neri con colletto bianco. Il divieto assoluto di tenere i capelli sciolti sulle spalle. L’obbligo dei calzettoni bianchi traforati annegati nelle scarpe severe, stringate.
L’insegnante di lettere di terza media era una suora giovane dalle guance rubizze innamorata della letteratura.
Teneva moltissimo che le sue alunne non solo imparassero a scrivere senza errori, ma riuscissero ad appropriarsi della gioia del racconto, avvicinando il fuoco inarrestabile della narrazione.
Quel giorno la suora aveva deciso di procedere con una valutazione in classe dei temi che avevamo fatto la settimana prima. In altre parole, dovevamo leggerli ad alta voce.
Naturalmente la selezione era cominciata dalle prime della classe che erano brave, è vero, ma erano anche figlie di persone importanti che alla scuola delle suore mandavano tutte le figlie (c’erano sempre, quindi, altre sorelle in altre classi) in una evidente occupazione del suolo scolastico che conferiva indubbi privilegi.
Alessia De Donati era per certo la migliore. Al cognome, che echeggiava di lignaggio araldico, corrispondeva l’erre moscia, altro segno di superiorità. “Mio padve dice sempve che…” Bastava questo modo di parlare – col labbro increspato, vibrante nell’aria, e anche se così si evidenziava ancora di più la peluria scura che lo sovrastava – a far capire che la De Donati apparteneva a un casato di grande levatura. E poi, quello stesso padre l’aiutava a fare delle ricerche magnifiche. Immaginavo che la De Donati abitasse in una casa enorme, luminosa – anzi, accecante – e senza mobili, dove c’era solo un grande tavolo per fare i compiti. E poi quella casa doveva contenere tutte le enciclopedie del mondo e ogni rivista esistente, giornali e documenti che parlavano di tutti gli argomenti delle nostre ricerche. Senza contare che disponeva anche di strumenti unici dato che portava le famose ricerche confezionate su fogli protocollo addirittura rilegati con dei punti metallici al centro, scritti in modo perfetto e corredati da foto speciali che illustravano i testi. Quei lavori straordinari rimanevano esposti, attaccati con una puntina al muro della classe, per mesi.
Lavinia Borrani, invece, era un altro tipo di brava. Studiava senza sforzo ed esibiva una disinvoltura su qualsiasi argomento capace di elevarla sopra tutte noi. E poi la Borrani spiccava anche – e forse soprattutto – per i vestiti straordinari, le gonne fruscianti e colorate valorizzate da calze e scarpe in tinta. Nonostante i grembiuli neri obbligatori attutissero tali primizie di vanità, era impossibile evitare di notarla, anche perché si liberava del grembiule appena suonava la campanella di fine lezione. E poi Lavinia Borrani sfoggiava cartella e astuccio nuovi ogni anno e i suoi libri erano protetti da copertine di plastica variopinta. Lavinia Borrani era ovviamente bionda con una pelle bianchissima. Però aveva caviglie e ginocchia grosse, e questo appannava parecchio la sua grazia da madonna. Un dettaglio su cui la munifica famiglia non poteva intervenire.
I temi della De Donati e della Borrani erano senza errori, ma mediocri. Le loro letture senza inciampi, erano sembrate monotone. Il commento della suora e della classe era stato breve. Genericamente positivo e stop.
Poi la suora si era messa a far passare i fogli protocollo per sceglierne un altro. La preoccupazione sfrigolava, sul punto di bruciarsi in ansia. Solo la De Donati e la Borrani potevano affrontare una correzione in viva voce e in diretta senza il rischio di uscirne umiliate. Noi – le altre, quelle normali, quelle senza padre onnipotente e dispensatore di donazioni speciali all’ordine delle suore dell’istituto – non potevamo affidarci ad alcuna rete di sicurezza. E quindi, la voce di Luisella si era infilata come una lama fiammeggiante nel silenzio di quell’attesa.
– Leggiamo quello di Camilla, suora?
La verità era che io e Luisella avevamo litigato un po’ il giorno prima.
Quella sua richiesta era una vera e propria vendetta.
Avevo scritto diligentemente il mio tema sul foglio protocollo piegato a metà. Non avevo altro merito, in quel momento, alzandomi dal banco. La gola era secca. L’ansia, si mischiava alla rabbia verso Luisella. Mi era sembrato di sentirla crepitare sotto i piedi quella rabbia, mentre procedevo verso la cattedra, la postazione da cui si doveva leggere. Di fronte a tutte le compagne. La suora, in fondo alla classe, rimaneva in piedi ad ascoltare. Pareva un grande uccello nero, minaccioso.
Avevo scelto il tema che chiedeva di commentare un fatto di attualità e avevo raccontato il primo rapimento avvenuto in Italia, quello di Milena Sutter.
Non ero convinta di quel tema. L’avevo scritto d’istinto, dopo aver sentito il telegiornale insieme ai miei genitori, che commentavano sgomenti quel fatto inusitato. Avevo ascoltato con attenzione la loro indignazione, lo sconcerto. Ne parlavano spesso, in una evidente tensione. E poi, poco a poco, avevo capito. Era chiaro che mamma e papà stavano parlando di me. Perché, quello che stavano dicendo a tavola, mentre mangiavamo la minestra a cena, era che loro non avrebbero potuto sopportare un fatto del genere, cioè se avessero rapito me. E, proprio solo pensando a questo, erano preoccupati, tristi, arrabbiati. Anzi, di più. Erano affranti. In-con-so-la-bi-li.
Mi si era stretto il cuore. E avevo immaginato di essere stata rapita. Mi ero vista tornare a casa, dopo essere riuscita a liberarmi e a scappare da sola, stanca, sporca e coi vestiti stracciati. E loro mi avevano accolta piangendo, la mamma singhiozzava proprio come quando era morta la nonna. E mi avevano abbracciata stretta stretta, baciata, dicendo che era meraviglioso ritrovarmi, che ero stata bravissima, una vera eroina. Avevo anche sentito una musica, mentre mi accoglievano, promettendo fra le lacrime che avrebbero fatto qualsiasi cosa per me. Sempre. Proprio come in un film. Improvvisamente, la mia vita era un film.
Ne avevo però anche concluso, in un inedito pragmatismo, che era meglio essere poveri, anche se questo significava fare sacrifici per la retta della scuola. Ma era molto meglio non dare nell’occhio, e rimanere invisibili a un mondo che poteva essere anche molto cattivo. E non è che fossimo poveri nel senso che mi mancava qualcosa, ma per certo i soldi rappresentavano un’altrove straniero. Quindi, la cosa migliore era essere lì, nella sala da pranzo coi mobili scandinavi che mio padre stava pagando a rate (lo ripeteva spesso, i debiti non gli erano congeniali), con loro due che pensavano a me ogni momento, anche quando guardavano la televisione che raccontava di Milena Sutter nelle mani dei delinquenti e io, grazie a quella sventura, ero quasi contenta. Perché ero riuscita a capire gli animi di mamma e papà e, grazie a questo, mi sembrava di essere diventata grande anch’io. Come se avessi avuto quindici anni o anche di più.
Naturalmente non avevo scritto quelle cose in questo modo. Quei pensieri e quelle sensazioni – che avvertivo anche come sconvenienti e di cui un po’ mi vergognavo – erano state trasmutate con un impeto lunatico e furioso, sperimentando per la prima volta la vertigine dissipativa ma anche trionfale dell’immaginazione, la possibilità di raccontare per far risuonare il proprio sentire.
In quel momento però, il viso lattescente della suora – ancora più chiaro sul nero del suo abito – si era abbassato sul collo con un cenno minimo. Era il segnale. Dovevo iniziare.
Avevo roteato gli occhi da sinistra a destra, attraversando la classe intera – immobile, nei grembiuli fatalmente neri – in attesa delle mie parole. Forse i ricci della mia coda di cavallo avevano oscillato. Doveva essere stato l’unico movimento, in quella fissità. E poi, non avevo potuto fare altro. Avevo abbassato lo sguardo sul mio foglio protocollo piegato al centro.
Avevo letto senza alzare mai la testa, risentendo in ogni frase la sensazione che l’aveva generata,
le pause, il tremore di certi aggettivi. Ero arrivata in fondo senza fiato e senza più pensieri. Con gli occhi, le orecchie e la bocca pieni di un sapore sconosciuto e la sensazione diffusa in tutto il corpo dello scorrere di quelle stesse parole che avevo immaginato di un azzurro intenso. Non so perché, quelle parole appena lette mi sembrassero turchine, forse perché erano come la fata che può fare qualsiasi magia.
E miracoloso, infatti, era stato l’applauso. Che era partito da Luisella, in piedi, con gli occhi stretti e liquidi in un sorriso talmente spalancato da finire sotto gli occhiali. Con quello sbattere di palmi Luisella stava inaugurando il primo dei molti altri consensi che in futuro avrebbe tributato alle mie parole scritte. Con quel suo gesto aveva trascinato l’intera classe che, oscillando in una grande onda nera e fragorosa, si era unita al suo primo e solitario riconoscimento, facendone una vera ovazione. Anche la suora, commossa, faceva sì con la testa e mandava da laggiù, dal fondo della classe e del suo abito nero, dei veri bagliori di luce. Sorrideva e applaudiva.
Ero tornata al mio posto senza dire niente, camminando in una bolla.
L’impeto di quell’applauso tonante, era rimbombato nella mia testa per molto, molto tempo.
Non posso che unirmi a Luisella in un applauso che continua. Bravissima.
Grazie Giovanni!
“camminando in una bolla”, questo lo capisco molto, per certe occasioni importanti. Trascinante racconto, grazie davvero.
Ma grazie a te Antonio! molto felice di questo tuo commento e di condividere la sensazione di “bolla”.
Fra l’altro vedo che abbiamo avuto una conoscenza comune, l’immensa Giulia Niccolai. Bello ritrovarla anche tramite le tue parole.