Produrre il cibo nell’Antropocene
di Giacomo Sartori
In risposta all’impennata dei prezzi dei concimi, dei carburanti e dei prodotti chimici utilizzati dalle aziende agricole, Giovanni Dinelli, grande esperto del biologico e professore a Bologna, propone un tavolo dove siedano assieme i rappresentanti dell’agricoltura convenzionale e della biologica. La prima deve lasciar perdere le sue preclusioni nei confronti della seconda, sostiene, la quale deve uscire dalla sua nicchia, mettendo sul piatto la sua comprovata capacità di ridurre drasticamente gli input produttivi e i ridotti impatti ambientali. E questo per cercare soluzioni comuni.
Per molti versi Dinelli ha ragione, l’agricoltura di molti paesi ricchi e meno ricchi è in profonda crisi. Quella convenzionale/industriale per le basse remunerazioni che accompagnano gli irrimediabili danni ambientali che crea, e perché è terribilmente energivora, come si sosteneva da tempo, e come ora anche i più scettici sono costretti a constatare. Produce molto, a ettaro, ma consumando, in particolare per quanto riguarda i concimi chimici, molto petrolio. Ma anche quella biologica fatica a gestire la crescita degli ultimi anni, come testimoniano i dibattiti in seno alle sue strutture, che partono dalla presa di coscienza di un suo diffuso appiattimento alla mera osservanza dei protocolli che essa stessa si è data, che escludono i prodotti di sintesi. Ma con logiche analoghe a chi questi li usa, perdendo di vista il suo grande punto di forza, l’approccio sistemico. E vede incrinarsi la sua immagine nei confronti del grande pubblico, per lei fondamentale (la sua crescita è stata sostenuta dai suoi acquirenti, disposti a pagare di più), messa a prova da frodi e soprattutto da questa interpretazione minimale, e in molti casi dettata da semplici ragioni economiche (visti i guadagni superiori), del suo metodo. Con il tempo si vedrà se le flessioni attuali sono solo congiunturali, ma il problema c’è, tutti sono d’accordo.
Si potrebbe allora pensare, con Dinelli, che nelle difficoltà attuali sia giunto il momento che entrambe lascino perdere le rispettive preclusioni, per trovare una via di compromesso, approfittando del fatto che l’unione fa la forza. Soluzione consensuale che potrebbe apparire ragionevole, ma che nei fatti, oltre a essere completamente irrealistica, sarebbe in fondo anche controproducente. Mi sembra anzi molto interessante che coesistano due strategie intrinsecamente diverse, in un settore più che essenziale, viste le enormi superfici interessate, i suoi determinanti impatti su ambiente e atmosfera, il suo ruolo di produzione delle derrate alimentari e di preservazione dei paesaggi. A ben guardare è proprio qui che i margini di manovra, e il rapporto costi/benefici degli interventi è molto superiore agli altri. Ricordando che l’agricoltura europea, e ancor più quella degli Stati Uniti, sono molto sovvenzionate (con gravissimo danno delle agricolture dei paesi poveri), e quindi la mano pubblica ha una decisiva voce in capitolo.
L’ANIMA PIU’ DIROMPENTE DELL’AGRICOLTURA BIOLOGICA
Se consideriamo la storia dell’agricoltura biologica, quale ce la racconta per esempio, per l’Italia, Massimo Ceriani (su Altronovecento, 2020), si evince che questo approccio è riuscito a crescere e a imporsi perché era sostenuto da una grande spinta ideale “alternativa”, caratteristica dell’ultimo terzo del secolo scorso. Se ha ottenuto i risultati che nessuno può ora negare, è grazie a agricoltori e agronomi considerati visionari e velleitari in un’epoca in cui dominavano incontrastati i diktat della chimica e dei pesticidi, e che con il loro lavoro controcorrente sono invece riusciti a aprire una nuova via, basata su modi di coltivazione che non danneggiano i suoli, preservano la biodiversità e richiedono poca energia. Persone che per anni hanno sperimentato con perseveranza tecniche e strategie in accordo con il funzionamento della natura, confrontato esperienze, condiviso conoscenze, partendo dal basso, snobbati dal mondo della ricerca scientifica, senza il supporto di alcuna struttura pubblica. Non per niente il sociologo francese Bertrand Hervieu, grande conoscitore del mondo rurale, definisce l’agricoltura biologica come un laboratorio di ricerca. La stereotipata immagine denigratoria che ancora oggi ne ha una parte del mondo scientifico italiano, si è visto nel corso del dibattito sulla nuova legge che disciplina il settore, sottintende nei fatti la più completa ignoranza della storia di questa corrente, e una concezione elitistica della scienza, aliena allo sviluppo dell’agricoltura, dove l’agire di ogni soggetto ha costituito per millenni la base per ogni avanzamento (miglioramento delle sementi, delle tecniche …).
I problemi attuali più grossi dell’agricoltura biologica nascono dal fatto che questa forza propulsiva, legata al fermento culturale e morale delle generazioni precedenti, è diventata molto più blanda, o forse meglio più rara. Attualmente il biologico mette a frutto e gode dei risultati che ha raggiunto, al punto di costituire uno dei pilastri della politica ambientale dell’Unione Europea (il “Green Deal”), cosa impensabile qualche decina di anni fa. Di esso viene però presa la versione corrispondente ad un mero rispetto dei protocolli legislativi, la sua casacca minimale, piuttosto che la sua visione olistica, solo autentico presupposto per la svolta agro-ecologica auspicata. E lui stesso si arrocca molto spesso in questo ruolo confortevole ma non molto glorioso, e soprattutto vulnerabile nei confronti di attacchi e critiche. Anche il suo essere viepiù fagocitato dalla grande distribuzione, che ha le sue regole e le sue distorsioni (conformità dei prodotti, guerra al ribasso delle remunerazioni ai coltivatori …), è molto problematico.
Tutte le sue teste pensanti sono coscienti, in Italia come altrove, che questo impasse è molto pericoloso, e che per progredire, e non essere fagocitata dall’agricoltura convenzionale, sempre più cosciente dei propri guasti ambientali, e sempre più spregiudicata nel maneggiare nuove armi di comunicazione (i vari marchi quali quello “zero residui”, che nulla garantiscono quanto a tecniche di coltivazione rispettose dell’ambiente), le occorre una nuova spinta. Ha bisogno di un nuovo slancio collettivo, una nuova saldatura con la visione sistemica delle sue origini, massicce sperimentazioni, nuove forme di fare rete e realizzare filiere. C’è certo un centrale aspetto economico, visto che nei fatti la ricerca pubblica nel settore biologico rimane nei fatti marginale (in Francia ne ha preso atto quest’anno la stessa Corte dei Conti, e non parliamo dell’Italia), sebbene a livello istituzionale si parla molto di biologico. Ma i finanziamenti non sono tutto. La forza del movimento del biologico, come forse quella alla base di qualsiasi vero cambiamento, è stata quella di crescere bottom up, da una miriade di soggetti animati da una visione controcorrente, dal loro sperimentare e creare assieme conoscenze, coinvolgendo un numero crescente di cittadini disposti a sostenerli, pagando di più. Il che rimane pur sempre una forma di militanza, anche se certo la preoccupazione per la propria salute personale può divenire preponderante (non conosco studi in materia, ma mi sembra che le due cose vadano piuttosto a braccetto).
L’INERZIA DELL’AGRICOLTURA CONVENZIONALE
Nello stesso modo non si può pensare che l’agricoltura convenzionale, con le agroindustrie che ne costituiscono la spina dorsale, e l’influenza che queste esercitano sul suo funzionamento e sulle organizzazioni di categoria, a loro volta determinanti per le politiche agricole dei vari Paesi (e europee), si pieghi di un punto in bianco alla visione dell’agricoltura biologica, e tanto meno nella sua versione più genuina, quella olistica e sistemica. E’ una ingenuità delle quali le stesse politiche dell’Unione Europea prendono atto, con gli intoppi che ci sono stati durante le trattative per l’adozione della nuova PAC, e le resistenze ai suoi programmi che rappresenterebbero autentiche svolte (un minimo di 25% di superfici adibite a biologico entro il 2030 …). La verità è che una visione profondamente diversa da quella attuale, in netta contraddizione con i radicatissimi modi di pensare e di fare degli ultimi settanta anni, e con la capillare organizzazione industriale (focalizzata su pochi fattori in gioco, ignorando gli altri) delle colture, non si può imporre dall’alto, tanto meno da un momento all’altro, e in un clima di grande incertezza e di redditi in calo.
L’agricoltura convenzionale deve quindi trovare da sola i modi per essere meno impattante, non devastare i suoli, consumare meno energia, produrre cibi più sani. E’ una scommessa molto difficile, e forse impossibile, perché coltivare senza fare grossi danni è molto più complicato quando si tratta di grandi superfici, per le quali si utilizzano sementi e procedure standardizzate (globalizzate), completamente slegate dalle condizioni e dalle microvariabilità locali, e con personale che non ha le conoscenze e non ha a cuore il rispetto della natura, non partecipa alla messa a punto dei miglioramenti, punto di forza di ogni approccio agro-ecologico. Si pongono grandi speranze nelle nuove tecnologie, quasi queste potessero risolvere qualsiasi problema di compatibilità ambientale, bypassando le conoscenze dei singoli spezzoni di territorio e dei fattori biotici e abiotici in gioco, e dall’infinità di mix nei quali si organizzano. E si fa molto affidamento sull’agricoltura di precisione, ma se le conoscenze sull’ambiente coltivato e sulla vita che vi si svolge (microrganismi, micorrize, lombrichi, insetti …) sono imprecise o inesistenti, se gli operatori sono passivi esecutori, come è regola, anche i più sofisticati strumenti di geolocalizzazione e i più sensibili sensori non aiutano a capire i problemi, primo passo per affrontarli e risolverli a livello locale assecondando le specifiche dinamiche ecologiche. Andranno quindi valutati i loro effettivi contributi a forme di coltivazione meno nocive e dispendiose, più adatte alle condizioni locali, più integrate nella complessità dei sistemi naturali, più partecipate, e questo ponendo un’attenzione particolare ai loro consumi energetici.
In molti Paesi (non è il caso dell’Italia, nel Piano di Rilancio non c’è nulla in questo senso) si stanno spendendo grandi risorse per l’innovazione tecnologica in agricoltura, vedremo i risultati. Per ora si ha l’impressione che si speri di trovare, e per interesse diretto le agroindustrie alimentano questa fede incondizionata, soluzioni miracolo di vario tipo (varietà modificate, tecniche altamente automatizzate …), quando i bilanci oggettivi sono ben magri. L’ecologo Alf Hornborg avvicina questa fiducia alle credenze magiche alle quali indulge spesso il capitalismo (Global magic, 2012). E non è sufficiente che siano disponibili le tecnologie, bisogna anche che esse siano applicabili a larghissima scala (la caratteristica dell’agricoltura è di occupare aree enormi), in situazioni molto diverse, senza consumare troppa energia, anche solo in forma indiretta. L’agricoltura è l’attività che permette di trasformare l’energia solare in prodotti commestibili (grazie alla fotosintesi), ma se nel processo si è costretti a immettere grandi quantità di combustibili fossili sotto forma di concimi e di mezzi di produzione, ivi comprese le strumentazioni sofisticate, il bilancio diventa molto meno vantaggioso. E non è pensabile di sopperire alle grandi richieste delle pratiche attuali solo con le energie rinnovabili.
Il problema forse maggiore è che le agroindustrie non monopolizzano solo il mercato delle sementi, dei concimi, e dei mezzi meccanici, ma anche il settore della ricerca e delle conoscenze, e di conseguenza il dibattito. La ricerca agronomica e il confronto sulle questioni agrarie sono in realtà permeati da assunti arbitrari, da valutazioni senza fondamento, da negazioni della realtà di fatto. E’ il caso della focalizzazione sulle rese per ettaro, quantificazione miope che non considera e non monetizza i danni ai suoli, alle acque, agli organismi viventi (compresi i più essenziali proprio all’esistenza delle colture, quali gli insetti pronubi), alla biodiversità (anch’essa determinante per le colture), alla salute umana, all’occupazione, alla qualità e alla percezione del paesaggio. Solo per purificare una frazione infima delle acque contaminate da nitrati e pesticidi, si spendono annualmente in Francia tra 0,5 e 1 miliardo di euro. Se però qualcuno osa mettere in discussione le valutazioni in base alle sole rese a ettaro, viene tirato fuori, è successo di recente, l’argomento della fame nel mondo, piaga che nei fatti non trae alcun giovamento dalle nostre eccedenze, ma è anzi il risultato delle nostre agricolture fortemente sovvenzionate.
Ne risulta che qualsiasi valutazione complessiva dei sistemi agrari che superi i vari impatti specifici e misurabili (inquinamento delle falde, emissione di gas a effetto serra, bilanci energetici …) è viziata da assunti infondati, e si scontra con credenze travestite da verità scientifiche o economiche. I governanti non hanno quindi strumenti per decidere in autonomia dalle convenienze dei grandi gruppi dell’agrochimica e della fetta maggioritaria degli addetti al settore che si trascinano dietro. E’ necessario, nell’interesse generale, che una parte più consistente della ricerca non si pieghi alle schiaccianti influenze di questi ultimi, e il mondo agricolo convenzionale ne diventi più indipendente.
IL DIBATTITO SUL FUTURO
L’agricoltura biologica e quella convenzionale si confrontano insomma a problemi simili, di portata drammatica, si è visto con la siccità delle ultime annate, e devono entrambe limitare gli apporti energetici, mirando a minimizzare gli effetti negativi e a aumentare la biodiversità, adattandosi alle condizioni climatiche ben più difficili. Entrambe dovrebbero riuscire a limitare lo strapotere dei colossi dell’agroalimentare, che hanno assorbito in Europa come in America i distributori della produzione biologica, e dell’agrochimica, i quali dominano incontrastati il mercato dei beni agricoli e delle idee sull’agricoltura. E senz’altro le due devono imparare a comunicare, superando l’arroccata contrapposizione del passato, senz’altro la seconda può mutuare preziose tecniche dalla prima (in parte si tratta di procedure tradizionali che essa ha dimenticato), certo potranno esserci interessanti aree di collaborazione, in particolare per certi aspetti tecnologici.
Alla luce delle considerazione che precedono mi sembra però improbabile che nell’immediato futuro i due approcci possano procedere mano nella mano, come auspicano Dinelli, e prima di lui anche il “Manifesto di Brescia” stilato nel 2015 a conclusione del convegno organizzato da Fondazione Luigi Micheletti e Slow Food Italia. La prima ha bisogno di una nuova radicalità, restando più fedele al suo approccio sistemico e agroecologico, che è la sua forza. E deve trovare i modi di fare rete, e di farsi spalleggiare dai suoi acquirenti, per non essere soffocato dai colossi della distribuzione, aprendo nuove strade che possano funzionare come esempi, come ha saputo fare in passato.
La seconda deve avere una maggiore capacità di guardare dentro sé stessa, di una maggiore onestà, di provare che è capace di trovare soluzioni meno impattanti e meno energivore, entrando in sintonia almeno in parte con la complessità della natura, che finora ha ignorato. Riuscirà a attuare la rivoluzione copernicana di non considerare le coltivazioni delle piante meccanici processi industriali? Riuscirà a mutare pelle senza mettere in discussione la spregiudicatezza e l’arroganza di chi tiene le sue redini, senza un minor asservimento del mondo della ricerca, senza diminuire il suo potere sui dirigenti politici, senza una maggiore orizzontalità, e più partecipazione dei suoi addetti, senza arrendersi all’evidenza che i territori sono molto diversi, che bisogna conoscerli? Ora sembra improbabile, ma gli stravolgimenti climatici e di prospettive che ci aspettano cambieranno forse, si spera in modo non troppo brutale e violento, le carte in tavola.
In ogni caso l’articolazione tra i due approcci di questo settore capitale (ponendo l’accento, a differenza dell’economia in senso stretto, sui problemi ambientali e sull’alimentazione degli uomini) è forse paradigmatica di due correnti che vedremo opporsi nei confronti della crisi ambientale nel suo insieme, uno che mette in discussione i fondamenti, “rivoluzionario”, e uno conservatore, restio ai cambiamenti profondi. Il problema è che il confronto è impari, e i dibattiti sono sfalsati, in particolare sui mezzi di informazione. La critica del concetto di natura come uno spazio esterno all’uomo e in cui esso può fare quello che vuole, senza contraccolpi e agendo da despota assoluto, sono ormai assodate sia nel mondo scientifico che in quello umanistico (il compianto Bruno Latour, Isabelle Stengers, Philippe Descola …). Sono però modi di vedere che restano riservati a una piccola elite, sebbene la coscienza dei disguidi e il timore del futuro siano ormai generalizzati. L’educazione quando va bene risveglia la sensibilità ai problemi ambientali, ma non fornisce una formazione sui meccanismi funzionali della natura, non fornisce strumenti di comprensione. Le persone conoscono i nomi e le caratteristiche tecniche delle automobili e dei modelli dei telefoni, e di tanti gadget tecnologici, non delle piante e dei lombrichi, non conoscono i tratti generali cicli del carbonio e dell’azoto, sebbene la loro esistenza dipenda da essi. Non a caso i ricercatori che studiano la natura, le testimonianze sono sempre più frequenti, si sentono così soli e abbandonati a loro stessi. Come fare sì allora che le persone possano orientarsi e pesare, come potrebbero accedere a informazioni affidabili, come possono difendersi dalle teorie interessate e dalla strategia di rendere nebbiose le problematiche (utilizzata con successo per i danni dei neonicotinoidi sulle api, sulla pericolosità del glifosate …)? Come le decisioni possono essere prese in modo democratico? Sempre ammesso che ce ne resti il tempo, e/o l’urgenza non aumenti ancora lo strapotere di chi considera l’agricoltura una qualsiasi impresa finanziaria.
NdR: questo pezzo è stato pubblicato in forma leggermente più stringata da DISSAPORE, e apparirà a breve su STORIEDELBIO
(la fotografia dell’autore: Santerre (Somme, Piccardia), 2021)
L’articolo espone concetti e valutazioni su cui concordo ampiamente, ma affronta solo di rimbalzo il problema sociale che trascina quello ambientale. Le due agricolture (per mantenermi nell’approccio utilizzato) hanno un problema di alleanze e di relazione con il resto della società (locale e globale). Quella condotta con metodi convenzionali lo ha già risolto: accetta gli assetti della società industriale e i principi dell’economia globale (efficienza, produttività, investimenti finanziari come motore del “progresso”, reddito come riferimento valutativo complessivo). L’agricoltura bio non ha ancora scelto che strada imboccare. Da studioso mi chiedo: quale è l’attuale assetto socio,-antropologico delle campagne (senza la cui analisi non si andrà molto lontano)? Le relazioni con il mondo dei consumatori come si attivano? Infine, dato che le specializzazioni e la zootecnia sono destinate a collassare in un tempo più o meno breve, come prefiguriamo le strutture di rete e le figure miste verso cui si avvia non solo il mondo agricolo ma l’intera società, nell’ibridazione generalizzata dei sistemi di vita che il cambiamento climatico induce?
sì, concordo pienamente Laccone, nelle mie riflessioni mancano completamente tutti quegli elementi fondamentali che lei cita, essenziali per poter ragionare a possibili soluzioni o anche semplicemente individuare tendenze o vie possibili. Perché non si può dire tutto in poco (relativamente) spazio, e soprattutto perchè sono dominii che non fanno parte della mia esperienza e delle mie conoscenze (anche se certo leggo avidamente tutto quello che mi capita sott’occhio in proposito per la Francia, dove vivo). Come lei sa sono molte, e è difficile per una sola persona muoversi a proprio agio in più approcci, le varie discipline sono estremamente compartimentate (sostanzialmente gli agronomi italiani non sanno nulla, o quasi, dei suoli!; e praticamente nessuno in Francia, dove ci sono ottimi idrologi e ottimi climatologi, ha entrambe le competenze, e quindi può affrontare la questione dei cambiamenti climatici attuali (che non sono legate a una maggiore siccità, in Francia,
ma a un aumento delle temperature!) con cognizione di causa) e proprio per questo è necessario affrontare in gruppo le questioni. Direi comunque che l’agricoltura convenzionale è stata strattonata a forza (e ci sono state molte resistenze, se si guarda per esempio alla storia dell’introduzione dei concimi chimici, e questo anche in Italia) nei modi industriali. L’agricoltura bio, che fino a poco tempo fa contava poco, si barcamena, e ci sono pressioni enormi, mi sembra, e il problema forse è proprio lì, per risucchiarla in quell’ambito. Ma appunto ben vengano le riflessioni che completano le mie, le problematiche sono enormi e molto complesse!
GS